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    Predefinito Venezuela, Cronaca del Solito Imperialismo Americano che forse sarà Battuto!

    Condannato dagli americani, Chavez trova un alleato nel caro-petrolio

    di Maurizio Chierici

    Avere il petrolio sotto i piedi non è mai una buona notizia per chi ci cammina sopra. Dal Messico anni trenta, all'Iraq duemila, l'infelicità avvilisce la vita quotidiana di popoli ai quali la ricchezza delle risorse nega la noia della quotidianità. Ogni tanto un'eccezione. Il petrolio che in un anno raddoppia il prezzo del pieno degli automobilisti americani, forse darà una mano a Hugo Chavez, presidente del Venezuela. I partiti dell'opposizione vogliono mandarlo via tre anni prima con un referendum. Il nodo che 14 milioni di elettori scioglieranno a Caracas il 15 agosto sembrava già sciolto qualche mese fa. Condoleezza Rice aveva annunciato dal suo pulpito solenne che il presidente Chavez «destabilizzava sviluppo e democrazia nell'intera America Latina». Campana a morto. Quasi un annuncio sul risultato del voto. Nell'America spagnola, o nei deserti del petrolio, appena Washington si arrabbia va sempre a finire allo stesso modo.

    La Coordinadora Democratica, galassia di partiti e personalismi tenuti assieme da una sola speranza -«mandar via il dittatore»- sembrava in grado di raccogliere al piccolo trotto i 3 milioni e 800 mila voti necessari a buttarlo fuori dalla Casona, Casa Bianca di Caracas. 3 milioni e 800 mila voti per superare il numero dei consensi che avevano permesso a Chavez di guadagnare la presidenza. Il petrolio alle stelle sta dando una mano a chi vuol restare. Il Venezuela è il secondo fornitore degli Stati Uniti in fibrillazione per Iraq e campagna elettorale. E i professionisti che Bush aveva impegnato nella destabilizzazione improvvisamente si sono distratti. Non hanno lasciato allo sbando gli oppositori coltivati con milioni di dollari, ma la pressione è allentata anche se la macchina del consenso pubblicitario sta trasformando Caracas e dintorni nel festival hollywoodiano del «sì» Vota «sì», dobbiamo liberarci di lui. Ma la sicurezza sta un po' svanendo. Gli osservatori internazionali - Oea, Commissione Carter, rappresentanti Ue - per l'opposizione non garantiscono «la trasparenza della vittoria che il popolo pretende».

    Quando Chavez sembrava finito. La macchina del «sì» un po' trema, ma non si ferma. La regia prevedeva il ritorno dall'esilio di Carlos Ortega, sindacalista la cui mobilitazione selvaggia 2002 ricordava l'impresa di Villarin, leader dei camionisti cileni: guidato dagli strateghi della Washington di Kissinger, Villarin paralizza per sei mesi i trasporti di un paese lungo quattromila chilometri. Vetrine vuote, cortei di pentole furibonde: caos per travolgere Allende. Ortega ha fermato il petrolio ed il Venezuela che negli anni d'oro non ha costruito una ferrovia, ospedali e rete di industrie in grado di moltiplicare la ricchezza; il Venezuela senza petrolio è rimasto con le tasche vuote. Per sopravvivere mendicava prestiti dalla Petrobras di Brasilia. Bloccata la produzione, raffinerie ed esportazione, milioni di persone sono scese in piazza brandendo pentole, ma non solo pentole. Chavez sembrava finito. Per sfortuna degli oppositori le quotazioni del greggio stavano impazzendo: guerra che si trascinava in Afghanistan, guerra annunciata contro Saddam. Alla fine ordini superiori hanno consigliato di lasciar perdere. Gli Usa non volevano precipitare le riserve sotto il livello di guardia dando fuoco al petrolio venezuelano. E Chavez è rimasto. Ma la macchina dell'opposizione non si è fermata ottenendo il confronto del referendum che Chavez non gradiva e con trucchi più o meno formali ha cercato di impedire. Ne aveva paura, ma qualcosa è cambiato. Crisi del petrolio, l'affievolirsi della Coordinadora, o perché ha qualche merito?
    Zoccolo duro dell'opposizione sono rimasti tutti i giornali e tutte le tv. Bombardano ogni minuto contro le «malefatte dell'uomo che impoverisce il paese». Poi ex militari che hanno lasciato la divisa dopo aver animato il colpo di stato 2002, male organizzato dall'ambasciatore Otto Reich (cresciuto nella trame Cia di Oliver North e John Dimitri Negroponte) e subito richiamato da Bush.
    Di quale colpe si è macchiato Chavez per scatenare la borghesia del petrolio? Tante. Prima di tutto un decisionismo militare che sprofonda nel populismo. Parla per ore. Per contenere in qualche modo lo schiaccia sassi dei media nemici giurati, ogni domenica si rivolge direttamente alla gente nella trasmissione «Alò Presidente». Le prime puntate duravano cinquanta minuti. L'ultima, alla quale ho partecipato, è finita sei ore dopo. Specie di Radio Anch'io col presidente al microfono e un po' di ministri al fianco. L'ascoltatore denuncia una ingiustizia, o chiede un ponte, o si lamenta dell'ospedale: viene rassicurato dalla voce potente del capo dello stato. In diretta ordina al ministro responsabile del settore: entro due settimane voglio il caso risolto. Popolarità alle stelle fra le baracche.

    I bagni di folla nelle Andine. Ho incontrato Chavez tre volte. La prima nel '98. Era appena fuori dal carcere dove aveva scontato la condanna per essersi rivoltato al presidente Andres Carlos Perez (socialdemocratico ) che gli aveva ordinato di sparare sulla folla degli straccioni inferociti dal prezzo del pane, in una notte moltiplicato per quattro (era il 1992). Scontata la pena si é messo in corsa per la presidenza, contro i partiti tradizionali disfatti dalla corruzione, contro una ex miss universo prestata alla politica. Questo il Venezuela che gli ha regalato la pioggia dei consensi. All'Hilton di Caracas, doppiopetto e cravatta da manager, mescolava considerazioni economiche a citazioni bibliche. Mixing che rimpiccioliva nelle poltrone gli operatori finanziari. Sei ore dopo, a Maracaibo, tuta leopard, berretto rosso da para attraversava il palco a larghi passi agitando il frustino. «Li manderemo via così… ». Mandar via chi per 25 anni ha fatto uscire il 23% della produzione di petrolio del quinto paese produttore del mondo, senza passare dogana, senza dire a chi vendeva e, meno che mai, far sapere dov'erano finiti i soldi. I risvolti della ricchezza rubata hanno gonfiato una società immaginaria che adesso non ci sta.
    Il secondo non è stato solo un incontro: l'ho accompagnato in un viaggio di tre giorni nelle province andine. Bagni di folla nei quali si immergeva senza guardie del corpo. Solo fra contadini che lo abbracciavano. Alla sera tornava in albergo con le mani graffiate, ma felice nel «sentirsi uno di loro». La sicurezza e i ministri del seguito non riuscivano a frenarlo perché Chavez sopporta malvolentieri limature o bocciature. I collaboratori devono collaborare a realizzare le idee che ha in testa. O poco più. Amici della prima ora o gli stessi generali anni fa protagonisti del golpe mancato, dopo un po' gli hanno voltato le spalle. Insopportabile. Allora perché la gente lo segue? Nel teatro Teresa Careno di Buenos Aires, alla chiusura della conferenza dei quindici paesi latini, dall'ultima fila ascoltavo parole che già conoscevo. Non guardavo l'oratore, guardavo la gente. La sua faccia di «di meticcio nero» rende credibile ciò che insiste nel combattere: vecchie piaghe dell'America Latina, paesi saccheggiati come un mercato che svende. Ritornello di ogni paese della colonia spagnola sa a memoria. E la presa popolare sicura.
    I sondaggi dell'opposizione lo danno perdente per uno o due punti. I sondaggi della presidenza dicono che vincerà perfino con 30 punti di vantaggio. Quelli della North American Opinion Research gli assegnano un vantaggio di 13 lunghezze. Non dipende del tutto dall'impallidire delle trame americane. Dopo il collasso dello sciopero, il paese ricomincia blandamente a respirare. Nelle piccole città e nei villaggi dell'arco andino la parola ospedale era sconosciuta. Bisognava scendere nelle capitali lontane. Chavez costruisce una rete di ospedali, ma l'ordine dei medici rifiuta il trasferimento degli operatori sanitari dalla belle cliniche private alle nuove strutture del pubblico confinate chissà dove. Sciopero generale di mesi. Scuole pubbliche ridotte a larve. I barrios «costruiti nell'aria», favelas che sovrastano le città, sono baracche vuote, insegnanti pagati male. La riforma tarda a decollare per lo stesso tipo di opposizione che frena la sanità. Allora il governo inventa «le missiones» animate da esperti cubani. Alfabetizzano nelle campagne, sulle montagne o nei labirinti delle case latta e cartone. Un milione di bambini sono stati recuperati dalla terra di nessuno. Adesso possono iscriversi a scuola. Ma non basta: stanno arrivando altri 5057 cooperatori dall'Avana. Lo sport favorisce la socializzazione e i cubani sanno come maneggiare l'entusiasmo degli adolescenti senza scarpe. In cambio 120mila barili al giorno di un greggio che rompe l'embargo Usa e fa respirare Castro. Torna il peso del petrolio. Usa arrabbiati, ma voti che irrobustiscono la presidenza.

    Lo scontro Chiesa-Chavez. Anche i vertici della Chiesa vorrebbero mandarlo via. Nel 2002 il governo dei golpisti mancati, animato dai protagonisti che animano l'opposizione promotrice del referendum, in un baleno è stato riconosciuto da Stati Uniti e Spagna di Aznar. Con Zapatero i rapporti stanno tornando cordiali. Anche la Chiesa si è dichiarata «sollevata per il ritorno alla normalità». E non ha cambiato idea. Il cardinale Castello Lara, anni al vertice delle gerarchie vaticane, per limiti di età è tornato in Venezuela. La sua opinione è che Chavez stia trascinando il paese alla rovina, «per ancorare la nave del Venezuela nelle acque di Cuba». Lo scontro tra Chiesa e Chavez è cominciato subito, nel '98. E si è aggravato perché il lessico del presidente a volte si rifugia nelle rabbie dei tifosi da stadio: parolone, parolacce. Padre Agostinho Barbosa, superiore dei missionari Consolata, racconta di famiglie divise su Chavez. «La gente lo ha votato con la speranza che salvasse il paese dalla crisi economica nella quale gli altri governi lo avevano trascinato. Ma non si può dire vi sia riuscito. Ha grandi idee e buoni programmi. Ma finora non ha realizzato molto». Non tutti i missionari la pensano allo stesso modo. Un appello firmato dalle suore di 5 città dello stato del Sucre dove vivono afrovenezuelani, ricorda come la Chiesa di base, «comunità di comunità» si riconosce nel progetto «del fratello presidente Chavez che offre a tutta la gente partecipazione e protagonismo», quando fino a ieri erano solo ombre senza nome.

    E il dopo voto? Insomma il Venezuela che domenica vota, che paese è? Al telefono la voce di Enrique Mendoza sovrasta a fatica la musica rock della manifestazione contro Chavez organizzata nella zona rosa dove vive. «È l'uomo che ha ridotto in miseria un paese ricco. Vuole cubanizzare la vita sociale. Ma il prossimo lunedì se ne dovrà andare». Si apriranno 30 giorni inquieti al termine dei quali si terranno le elezioni per eleggere il nuovo presidente. Mendoza, leader più visibile della Coordinadora Democratica, dovrebbe essere il candidato che in settembre i venezuelani dovranno rivoltare. «Che paese è?», risponde Jorge Giordani, ministro della pianificazione: «Siamo in un momento di transizione nel senso che il vecchio non è ancora morto e il nuovo non è ancora nato». Il buco nero dei 6 mesi di sciopero che hanno inginocchiato l'economia continua a pesare. Giordani è figlio di un piccolo imprenditore italiano scappato da Forlì dopo il delitto Matteotti per rifugiarsi fra gli antifascisti di Parigi prima di unirsi alle brigate internazionali che in Spagna combattevano Franco. Nato dall'altra parte del mare, Giordani è venuto in Italia: laurea in ingegneria elettronica a Bologna, professore all'università a Caracas. Il Chavez in galera gli chiede di fargli da relatore nella laurea in scienze politiche. Si sono conosciuti così. «Il vecchio -ripete Giordani- è la politica economica dell'esclusione dell'80% della popolazione povera». Sta disegnando un modello produttivo intermedio non basato solo sul petrolio «per portare alla creazione di una società di giustizia e partecipazione aperta alle masse. Ci vorrà una generazione, ma perché fermarci?».
    Concorda con questa speranza un protagonista non politico, italiano nato in Italia ma da 36 anni a Caracas. Assistente a Roma di Lucio Lombardo Radice, Giulio Santosuolo, arriva in Venezuela per fare il professore di matematica. Crea la casa editrice Simon Bolivar ispirandosi alla Einaudi. È anche autore di vari libri. Resta convinto della vittoria di Chavez, malgrado errori ed improprietà: «È stato il primo presidente che ha preso in considerazione la maggioranza della popolazione ghettizzata. Ha dedicato ogni momento della sua politica alla loro inclusione. Non lo gradiscono dinosauri ed eredi dei vecchi partiti che hanno distrutto la ricchezza del Venezuela. Non lo vogliono gli ex baroni del petrolio. Non lo gradisce la classe media, meglio dire “mediatica”. Vive incollata alla Tv bevendo come idioti la disinformazione trasmessa da proprietari dell'oligarchia». Errori? «Il più importante: parla, parla, parla. Poi i tipici errori di ogni amministrazione: fa meno di ciò che ha promesso».
    Questo il bivio del Venezuela, ma anche di gran parte dell'America Latina. Ecco perché il risultato di domenica acquista un valore simbolico che supera i confini di un solo paese.
    Nella foto: la manifestazione del 9 agosto a Caracas dei sostenitori di Chavez

  2. #2
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    Chavez, sicuramente sarà la storia a giudicarlo per i suoi meriti o demeriti. Fa piacere pero' che il capo di uno stato libero riesca a fare la sua politica, resistendo agli interventi di interessi economico/politici esterni.

    A Allende!
    Nel nulla il potere si rassicura!

  3. #3
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    In Origine Postato da BlocNum
    Chavez, sicuramente sarà la storia a giudicarlo per i suoi meriti o demeriti. Fa piacere pero' che il capo di uno stato libero riesca a fare la sua politica, resistendo agli interventi di interessi economico/politici esterni.

    A Allende!
    esatto, deve essere una scelta loro e non degli Usa

 

 

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