I 75 anni del sempre più discusso leader

Arafat, il potere (a volte) logora chi ce l'ha


Luigi Geninazzi

Ha compiuto 75 anni ma non ha alcuna intenzione di farsi da parte. Già, i simboli non vanno mai in pensione. E Arafat indubbiamente continua ad essere l'uomo-simbolo della lotta nazionale palestinese per l'indipendenza. Il vecchio Abu Ammar, nome di battaglia con cui viene chiamato ancora oggi da tutti, ha il labbro tremulo e le mani piccole e bianche che sbucano dalla perenne uniforme militare come due pezzetti di cera. Ma non perde occasione per far sentire la sua voce ed alzare le dita a "V" in segno di vittoria, anche se ha ben poco da festeggiare. Da tre anni il leader dell'Anp è di fatto prigioniero a Ramallah, confinato nel palazzo presidenziale della Muqatà semi-distrutto dai bombardamenti israeliani, boicottato dagli americani e obiettivo di un possibile "omicidio mirato" da parte del governo Sharon. Sfide e minacce che hanno contribuito a rafforzare la sua leadership. E' sempre andata così: ogni volta che Arafat si è trovato con le spalle al muro, in esilio a Tunisi, braccato in Giordania, assediato in Libano, ne è sempre uscito da vincitore morale.
Ma oggi il rais deve affrontare la prova inaspettatamente più dura: dopo le rivolte nei Territori delle ultime settimane è arrivata un'aperta contestazione. L'attacco frontale è partito da Mohammed Dahlan, l'ex capo della sicurezza palestinese che si candida a uomo forte nella Striscia di Gaza ed ha lanciato un vero e proprio ultimatum: se Arafat non attuerà delle concrete riforme all'interno dei servizi di sicurezza entro il 10 agosto, migliaia di persone scenderanno in piazza a protestare. Subito è scattata la reazione dei fedelissimi del presidente che si sono radunati a Ramallah per acclamare Arafat in occasione dei suoi 75 anni. Ma per il vecchio Abu Ammar dev'essere stato un compleanno amaro. Anche se la maggior parte dei palestinesi non osa prendersela direttamente con l'uomo-simbolo della nazione, sta di fatto che le critiche al suo entourage sono sempre più diffuse. La gente è ormai stanca di un sistema politico fondato sulla corruzione e sull'autoritarismo. Da quando, dieci anni fa, si è stabilita l'Autorità palestinese nei Territori non c'è stato alcun progresso. «Ci stanno distruggendo» è solito ripetere Arafat che punta il dito accusatore contro l'occupazione israeliana. Ma tutto questo non può essere un alibi per un potere obsoleto e corrotto come quello esercitato dall'Anp. L'Intifada e il terrorismo hanno contribuito ad aumentare il caos, gli scontri violenti tra le diverse fazioni aprono inquietanti scenari di guerra civile. Ed a giocare il ruolo dell'anti-Arafat non c è solo Dahlan ma anche i movimenti estremisti come Hamas e la Jihad, organizzati e compatti nonostante l'uccisione dei loro leaders. Per evitare che la situazione precipiti Arafat dovrebbe compiere un gesto di grande responsabilità: cedere tutto il potere esecutivo ad un vero capo di governo. All'attuale premier Abu Ala. O ad un altro, purchè goda di autorevolezza. Nessuno ruberà al vecchio rais il ruolo di padre della patria. Perché i simboli non vanno mai in pensione. Ma i politici sì, ed è meglio che lo facciano a tempo debito. C'è bisogno di nuove leadership per il Medio Oriente dove sarebbe ora che entrambi i vecchi duellanti, Arafat e Sharon, si facessero da parte.

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