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    Capo V. I Volontari Romani

    [...].

    — Dal 1849 in poi [...] non mancarono mai ragguardevoli persone e uomini generosi delle migliori classi di Roma che offrissero il loro braccio al Papa.

    Mettendo da banda tutti i Romani (e non sono pochi) che ora militano volontarî nei varî corpi indigeni (ed anche fra gli Zuavi), fin dal 1849 il Principe Aldobrandini, venuto appositamente dal Belgio a Gaeta, ed altri Romani, si offrivano al S. Padre per formare un corpo di volontarî [*...]; ma l’intervento cattolico rese inutile quella profferta. Ripristinato il Governo pontificio, e vista la mala piega che prendevano le cose di Europa per opera dei framassoni, tosto il pensiero di una dimostrazione armata per parte dei Romani rivenne in campo, e dopo le accuse lanciate a Parigi contro il Papa nel Congresso, in cui si pretese assicurare l’esistenza del Gran Turco, scuotendo quella del Papa, se ne intese tutta l’urgenza. Quindi nell’istesso anno 1856 una eletta di giovani Romani, insieme con alquanti ragguardevoli stranieri, concepivano il disegno di una milizia, composta di volontarî cattolici, alla quale, per imprimerle maggiore solidità, si dava il carattere di un ordine cavalleresco. La cosa era bene avviata, e già si avevano le più ampie adesioni da Francia, da Germania e da altre contrade; si poteva dire fatta (ne abbiamo sott’occhio i processi verbali regolarmente redatti dal Comitato direttivo, che si adunava presso un pio e zelante personaggio) [Il Rmo P. Abate Francesco Regis, nel secolo Marchese de Martrin Donoz, fondatore della Trappa di Staueli in Algeria, ora piamente defunto], e se ostacoli inattesi non vi si fossero opposti, fin d’allora, forse sotto altro aspetto e sotto altro nome, avremmo avuto i Zuavi pontifici; ma ragioni, che qui è inutile di ricordare [Il Governo napoleonico, coadiuvato da traditori interni, impedì sempre per quanto poté che il Papa formasse un esercito pari al bisogno, e si reggesse con le proprie forze], resero frustranei gli sforzi di quegli uomini generosi.

    Malgrado di ciò la buona sementa non andò dispersa. Le persone si separarono; ma lo spirito, che era sincero spirito di devozione a ogni costo verso la S. Sede e verso il Pontefice, rimase e germinò sotto terra. Venne la guerra di Lombardia: quanti buoni e generosi Cattolici non vi si illusero! Non così i nostri giovani amici del Comitato romano. — Ferveva quella infaustissima guerra, e ai primi felici successi degli alleati gallo-sardi i settarî mostrarono in Roma una baldanza smisurata. I bullettini della guerra, affissi rivoluzionariamente tutte le sere pei caffé, d’ordine delle autorità francesi, eccitavano ogni giorno più il fermento. Già dagli italianissimi si percorrevano le vie della città, tumultuando e inneggiando alle vittorie contro l’Austria; già si acclamava un sovrano che non era quello di Roma, e alle acclamazioni si univano le grida di morte ai preti! morte ai neri! A quelle turbe tumultuanti, composte di quanto v’ha di peggio nel nostro popolo, vedevansi frammischiati [...] individui appartenenti a un esercito amico, l’esercito d’occupazione francese (lo abbiamo veduto coi nostri occhi, nessuno vorrà negarlo). Né solo i semplici soldati francesi, ma i sott’uffiziali e gli uffiziali, per fino appartenenti alla gendarmeria, prendevano parte e animavano quelle dimostrazioni settarie. Su questo proposito ci sovviene un fatto che non va dimenticato.

    — Un certo uffiziale dell’esercito francese, uomo dei più avversi al Papa e più noti fomentatori di quelle sciagurate dimostrazioni, veniva qualche tempo dopo richiamato in Francia. Prima di partire volle vedere Pio IX, al quale osò presentare una fotografia rappresentante il tradito Pontefice, pregandolo di scrivervi un qualche motto. Pio IX, presa la penna, vi scrisse le parole dette da Gesù Cristo a Giuda: "Amice ad quid venisti?". Non sapendo il latino, l’uffiziale se ne andò a mostrare trionfante lo scritto pontificio ai suoi amici. Ma quale non fu la sua sorpresa, quando Monsignor Bastide, cappellano militare, dal quale sapemmo il fatto, gliene spiegò il significato!... Questo uffiziale è quel desso che, poco prima, aveva avuto l’insigne coraggio di scendere da Castel gandolfo con una compagnia dei suoi soldati in Albano, e di caricare con fuoco di plotone alcuni dragoni pontificî raccolti tranquillamente in un’osteria, sotto protesto che sparlassero dei Francesi, uccidendone o ferendone parecchi, oltre un povero paesano ucciso.

    Mentre queste cose avvenivano alla vista di tutti, ed i buoni ne gemevano, e molti ne temevano per l’onore e la sicurezza di Roma, i nostri amici invece, prendendo coraggio dalla gravità stessa del pericolo, meditavano cosa che riscuotesse Roma dall’abbattimento in che sembrava piombata per l’audacia dei suoi nemici, e dicesse al mondo il vero sentire dei Romani.

    Senza che l’uno sapesse dell’altro, due centri si formavano contemporaneamente, uno composto di giovani appartenenti all’alta classe della società, alla borghesia l’altro. Un giorno, era il mese di giugno, una persona [...] che faceva parte di questi ultimi, certo cavaliere Cartigoni, si portò da un giovane suo conoscente e gli comunicò il disegno dei suoi amici di offrire al S. Padre un corpo di volontarî romani, invitandolo a farne parte anch’egli. Questi si mostrò pronto ai suoi desiderî; però fecegli osservare, come egli, facendo già parte da molto tempo dell’altro centro che più volte aveva tentato una cosa simile, si trovasse nella necessità di farne parola ai suoi amici: forse, aggiungeva, essi potrebbero accettare una fusione dei due centri; e così di fatto riuscì la cosa. Da quel momento non vi fu più che un solo Comitato, intorno al quale già si aggruppava un bello stuolo di giovani devoti e coraggiosi. Fu redatto un Indirizzo, e nove, scelti fra di loro, ebbero l’insigne onore di presentarlo a nome di tutti a Sua Santità.

    Correva il giorno 2 luglio, quando appunto il fermento settario era al colmo per le vittorie dei Gallo-sardi in Lombardia: parlavasi niente meno che di governo provvisorio; allorché il S. Padre riceveva nella sua privata biblioteca quei nove giovani Romani. Il Marchese D. Giovanni Patrizi-Montoro leggeva il seguente indirizzo:

    "Beatissimo Padre,

    "Mentre la cattolica e generosa nazione francese veglia sulla Vostra Sacra Persona, o Beatissimo Padre, e l’Augusto suo Imperatore solennemente dichiara volere non solo protetto, ma consolidato il vostro temporale dominio, sarebbe viltà d’animi sconoscenti che i Romani, vostri fedelissimi sudditi, non si stringessero ai piedi vostri per offerirvi un omaggio di loro profondissima venerazione.

    "Altra volta un torrente impetuoso che qui traboccò da ogni parte soffocò loro nel cuore quegli affetti, che avrebbero voluto manifestare a prova ancora di opere.

    "Oggi, riverenza di sudditi e amore di figli, li muove nelle circostanze attuali a consacrarvi le loro fatiche, le loro persone, le loro vite. Essi troppo bene conoscono, che la gloria vera di Roma è l’avere a Sovrano il Capo visibile della Chiesa, e questa gloria nobilissima han fermo in cuore di custodire e difendere gelosamente.

    "Quest’atto spontaneo di sincera devozione noi, ammessi alla venerata presenza della Santità Vostra, a nome eziandio di molti altri vostri fedelissimi sudditi, vi supplichiamo vogliate ricevere e benedire, e sanzionarlo col disporre di noi come di cosa del tutto Vostra.

    "Possa questa nostra offerta confortare il cuore di Vostra Beatitudine, afflittissimo pel traviamento di tanti figli sleali, e testimoniare alle Nazioni Cattoliche che i Romani vanno superbi dell’alta missione che hanno avuto di conservare quel temporale dominio, che rassicura libero e indipendente il Sommo Pontefice nell’esercizio del suo Primato.

    "Degnatevi, o Beatissimo Padre, compartirci la Vostra Apostolica Benedizione che umilmente imploriamo.

    Salviati Duca D. Scipione

    Patrizi-Montoro Marchese D. Giovanni

    Ricci Marchese Francesco

    Grazioli Duca D. Mario

    Forti Cav. Giuseppe

    Garofali Annibale

    Filippini Tommaso

    Lenti Antonio

    Mencacci Cav. Paolo * [Quest’indirizzo si trova consegnato nella grandiosa raccolta: — Il Mondo Cattolico a Pio IX, — pubblicata dalla Civiltà Cattolica]".

    L’augusto volto di Pio IX fu visto profondamente commosso. Egli lodò molto lo spirito di devozione che animava quei giovani; li ringraziò, e, pronunziando le parole più amorevoli e incoraggianti, concluse presso a poco in questa sentenza:

    Parole di Sua Santità

    "Questo che voi intendete di fare, con tanto vostro rischio, è un bell’atto di cui Dio terrà certamente conto un giorno... Ora, per verità, i momenti sono supremi, né sappiamo cosa la Provvidenza sia per disporre nel domani. Ciò non ostante la bella dimostrazione che voi mi fate non deve restare inutile. Formare un corpo numeroso così su due piedi, in questi momenti, sarebbe cosa impossibile; sia dunque intanto una nobile protesta in faccia al mondo. Voi siete nove, e certamente ciascuno di voi conta almeno dieci amici di cuore che sentano egualmente: ebbene riuniteli; sarete un centinaio di giovani congiunti nello spirito e nell’affetto. Sarete pochi, ma sarete compatti; sarete un germe fecondo, che con la benedizione di Dio, potrà fruttare assai". — E sì dicendo, il magnanimo Pontefice, benedicendoli con viva effusione di cuore, li congedava.

    Da quel momento con grande alacrità si prese a formare il nuovo Corpo, e per molti giorni fino a tardissima notte si lavorò a comporre il regolamento e l’organamento della nuova Guardia, che fu detta di Onore. Intanto i cento erano presto divenuti trecento, ogni giorno crescevano numerose le richieste di ammissione; quando all’improvviso la battaglia di Solferino, la pace di Villafranca, la proposta fallace di una Confederazione italiana sembrarono cambiare affatto di aspetto le cose. La cessazione del pericolo, e l’ampliazione contemporanea della già esistente Guardia Palatina * [Era stato appena approvato dal S. Padre il disegno e il regolamento dei nostri volontarî, quando un proclama della Segreteria di Stato apriva i ruoli per un secondo battaglione della Guardia Palatina], fecero sospendere l’opera incominciata, e anche questa volta il disegno dei Volontarî restò ineseguito * [Contemporaneamente persone di antica devozione alla S. Sede proponevano di formare un corpo di popolani romani, di quelli che tanto turbarono i sonni dei framassoni nei primordi di questo secolo ed anche più tardi].

    In mezzo a queste cose la pace di Villafranca conduceva l’esercito piemontese nelle Romagne e nell’Emilia, le quali provincie venivano così strappate di fatto al dominio della S. Sede. L’anno seguente, 1860, s’invadevano armata mano le Marche e l’Umbria, e coll’abbominevole agguato di Castelfidardo si rubavano anche queste al Pontefice. Le milizie subalpine erano alle porte di Roma, e i cospiratori attendevano ogni giorno che entrassero nella Eterna Città. Presso che totale era lo scuoramento nei buoni, al colmo la baldanza dei tristi; quando tra i nostri giovani amici sorse il pensiero di un nuovo genere di milizia, la milizia della preghiera.

    Correva il mese di marzo del 1861, allorché fu stabilito d’invitare i Romani a portarsi a S. Pietro nei giorni di Venerdì, mentre il S. Padre vi scendeva coi Cardinali per la visita della sacra Stazione, e di unirsi a pregare con lui pel trionfo della Chiesa e per la salvezza di Roma. Grande fu il concorso nel primo Venerdì, grandissimo oltre ogni aspettazione nei Venerdì susseguenti. Quel ritrovarsi in così straordinario numero alla tomba di S. Pietro, rianimò il coraggio di tutti, in quello che sbigottiva i rivoluzionarî, i quali, a turbare quel movimento religioso, minacciarono di far scoppiare bombe in mezzo alla folla (e ne fecero pur troppo scoppiare più d’una in varî luoghi) [...]. Ma ottennero l’effetto contrario; poiché il concorso aumentò di cento tanti. Non andò guari e incominciarono le grandi dimostrazioni romane in onore del Papa, e le luminarie del 12 aprile, famose in tutto il mondo, ad impedire le quali indarno si arrovellarono nei più scellerati modi i settarî [...].

    Intanto diamo fin d’ora i seguenti appunti: in ordine al fallito progetto dei Volontarî Romani.

    10 Luglio. — Lettera del Card. Antonelli al Duca Salviati, colla quale gli commette la cura di istituire fra i membri della Deputazione, presentatasi al S. Padre il 2 luglio, una commissione per la compilazione di un disegno e un Regolamento per la nuova guardia.

    13 Luglio. — Nomina e riunione della commissione la quale in quel medesimo giorno e nei successivi si occupa del disegno suddetto.

    22 Luglio. — Lettera del Duca Salviati al Card. Antonelli compiegandogli il disegno compilato.

    28 Luglio. — Lettera del Card. Antonelli al Duca Salviati, colla quale si partecipa l’approvazione sovrana al disegno di Regolamento, e si dichiara non incontrarsi difficoltà intorno alla compilazione del Regolamento disciplinare.

    29 Luglio. — Riunione della Commissione in quel giorno e nei successivi per la redazione del Regolamento disciplinare, e poscia di un Regolamento generale che comprende le disposizioni generali e le disciplinari, consultando in proposito i varî regolamenti delle diverse armi dello Stato Pontificio, e sottoponendo finalmente il lavoro all’esame del Sig. Colonnello Mazzolà, nominato all’uopo dal Cardinale Antonelli.

    22 Agosto. — Lettera del Duca Salviati al Card. Antonelli, colla quale si accompagna il Regolamento definitivo.

    3 Settembre. — Lettera del Card. Antonelli al Duca Salviati colla quale a nome di Sua Santità viene approvato il Regolamento, facendovi però alcune osservazioni.

    10 Settembre. — Lettera del Duca Salviati al Card. Antonelli in risposta alla precedente: aderendo a tutti i rilievi espostivi. Si osserva soltanto, che togliendo alla guardia che si desidera istituire l’assistenza continua presso la sacra persona di Sua Santità, molti di quelli che ambivano prendervi parte si allontaneranno: che altro motivo di disgusto si rileva nel porre la nuova guardia sulla medesima linea della Guardia Palatina, e che altronde, aumentandosi sensibilmente il numero di questa, non si saprebbe ravvisare l’utilità di un nuovo corpo.

    12 Settembre. — (Cioè sette giorni dopo l’approvazione del Regolamento definitivo della Guardia d’Onore volontaria). Ordine del giorno del Marchese Guglielmi alla Guardia Palatina, nel quale si dichiara:

    1. Che la detta Guardia prenderà d’ora in poi il nome di Guardia Palatina di Onore (distinzione conceduta alla nuova Guardia con la lettera dell’Emo Antonelli in data 28 luglio).

    2. Che la Guardia Palatina avrà la bandiera (privilegio domandato e concesso per la Guardia di Onore).

    3. Che sono chiamati a far parte della Guardia Palatina Possidenti e Impiegati (ciò che non era nell’antico Regolamento della Palatina).

    4. Che la Guardia Palatina manderà ogni giorno un picchetto nell’Anticamenra Pontificia (e così si contrastava la concessione di un servizio in turno colla nuova Guardia).

    5. Che la Guardia Palatina prende posto immediatamente dopo la Guardia Nobile (la parola immediatamente non esisteva nel primo Regolamento della Palatina).

    6. Che gli Ufficiali e Soldati della Palatina sono rivestiti di un grado superiore a quello che occupano effettivamente nel Corpo (privilegio non concesso alla Guardia d’Onore volontaria).

    7. Permesso del porto d’armi benché vestite.

    Tutti questi privilegî uniti insieme, e molti altri, che si trascurano per amore di brevità, e finalmente il ragguardevole aumento della Guardia Palatina, che da piccolo numero era per formare due Battaglioni, fanno sì che la Deputazione dichiari: crederebbe tradire la sua devozione al Sommo Pontefice, se non deponesse ai suoi piedi il pensiero che nelle presenti circostanze l’istituzione di una nuova guardia, potrebbe difficilmente essere utile alla sacra persona di Sua Santità ed alla causa della Religione e dell’ordine. Protestando però oggi, come sempre una fedeltà che è risoluta di manifestare a prova ancora di opere, qualora le ne venga dato occasione; lo che di fatto avvenne nel 1867.

    E qui a modo di corollario aggiungiamo due documenti relativi al primo disegno di Volontarî Cattolici, agitato fin dal 1854, e umiliato al Santo Padre nel 1856.

    NOTA

    concernente la creazione di un Ordine Cavalleresco, militare, Cattolico, il cui disegno fu umiliato a S. S. Papa Pio IX il 23 febbraio 1856.

    Fino dal momento in cui la rivoluzione ha osato sacrilegamente di giungere fino alla sacra Persona del Capo della Chiesa, tentando impadronirsi dei suoi Stati, molte corti cattoliche furono prese da religiosa premura, e, nella incertezza della politica europea, interrogava ciascheduna sé stessa, se dal seno dell’intiero Cattolicismo sorger potesse una milizia fedele, pronta ad immolarsi per la salvezza del Padre comune dei fedeli e preservare i suoi Stati dagli incessanti pericoli, da’ quali sono minacciati.

    Penetrati, da una parte dall’obbligo che corre ai Cattolici di contribuire alla conservazione dei dominî del Sommo Pontefice e alla indipendenza della sua temporale autorità, e conoscendo dall’altra i pericolosi politici ondeggiamenti, a’ quali può esporre la Santa Sede un intervento costante, sebbene amico, hanno molti pensato di far rivivere lo spirito cavalleresco degli antichi tempi e, a lode della nostra epoca, hanno incontrato favore e simpatia.

    Gli uni, sperando di rinvenire nelle vestigia dei più gloriosi ordini cavallereschi gli elementi a ciò necessarî, hanno creduto sufficiente di richiamare il passato per verificare il presente; altri, pensando che ad epoca novella si convenissero istituzioni novelle e più proprie, hanno opinato doversi queste creare.

    Noi qui non esamineremo come niuna di queste nobili e generose idee abbia potuto ancora essere applicata. Ma se tutte attestano verso il Cattolicismo un diritto che non può di presente esser contestato, manifestano puranco il dovere, nell’adempiere al quale ciascuno si tiene onorato, poiché nel rivendicare l’uno si soddisfa l’altro.

    Rimarransi sempre sterili tali elementi? Si lascierà estendersi questo fuoco di devozione pura e feconda, o si permetterà che si spenga per il cattivo esito di alcuni tentativi isolati? Neppure il pensiamo.

    Spinti dalle medesime simpatie e convinzioni di coloro che ci precedettero e desiderando di raggiungere lo scopo medesimo, ci siamo studiati di risolvere il medesimo problema. Tuttavolta, illuminati da molti savî e prudenti nostri Vescovi, abbiamo abandonato le idee puramente speculative per appigliarci a quelle essenzialmente prattiche, e, dopo aver sottoposti i nostri lavori ad uomini i più competenti, ci siamo determinati di umiliarli ai piedi di Sua Santità.

    La benevola accoglienza, ed i contrassegni di approvazione e di incoraggiamento ricevuti, facendo sperare in fine il compimento dei voti dei Cattolici, se vengono secondati i nostri sforzi, poniamo loro sott’occhio in una breve analisi, le basi principali del disegno presentato a S. S. e parlando loro di una questione che li ha cotanto preoccupati, noi non ci crediamo se non il debole eco dei loro sentimenti, delle loro idee.

    Senza dubbio tale analisi provocherà delle osservazioni, e più d’uno ignaro delle considerazioni che ci hanno fatto adottare diversi articoli, li giudicherà diversamente da noi. Facciamo riflettere che il nostro scopo è stato quello di sgravare l’erario pontificio, di far fronte a tutte le spese dell’ordine il più limitatamente che sia possibile, e che il disegno non può ancora esser definitivo.

    In conseguenza senza fermarci sulle imperfezioni del lavoro, e sperando che i Cattolici, che se ne sono occupati, o che vi prenderanno interesse ci trasmetteranno i loro consigli, noi abbiamo l’onore di esporre ciò che segue:

    La creazione di una milizia, od Ordine cavalleresco è molto costosa, e siccome né il Papa può esigerne il mantenimento dai Cattolici, né questi domandarlo al pontificio erario, è così di necessità che l’iniziativa dell’opera sia interamente dei Cattolici.

    In secondo luogo, il Pontefice non può sanzionare che opere stabili e di sicura durata, quindi per la creazione di un Ordine attivo cavalleresco, è necessario che sia almeno garantita antecedentemente la dotazione di un certo numero di membri.

    Ora per ottenere questi diversi risultati crediamo di procedere nel modo seguente:

    1.° Formare in ogni Diocesi un comitato per provocare e ricevere gli ingaggi provvisorî dei Cattolici, che bramano entrare nell’Ordine di S. Pietro, come Cavalieri d’onore, aggregati, fondatori o donatori.

    2.° Costituire del pari per Diocesi, coi mezzi indicati nel disegno la dotazione perpetua d’un Cavaliere d’armi e di giustizia.

    3.° Ricevere gli ingaggi provvisorî dei Cattolici che aspirano al Cavalierato d’armi e di giustizia, uniformandosi all’una o all’altra delle obbligazioni finanziarie dettagliate nel progetto.

    La formazione dei Comitati non esclude l’azione individuale degli uomini di cuore e di devozione, che possono agire senza obbligarsi a delle riunioni talvolta difficili.

    Gli ingaggi richiesti saranno condizionati, cioè subordinati alla pubblicazione del Breve d’istituzione, e niuna somma verrà versata prima di essa, la quale verrà richiesta, appena sarà assicurata la dotazione di un certo numero di Cavalieri.

    Sarà egli presumere troppo dalla devozione dei Cattolici, lo sperare che andranno essi onorati e gloriosi fornendo almeno un Cavaliere d’armi e di giustizia per Diocesi, onde contribuire alla fondazione dell’Ordine? La fede che ha creato tante opere sante ci fa sperare che quella del denaro di S. Pietro col suo nuovo scopo e ben caratterizzato, con le facilità che accorda per l’associazione di tutti gli elementi generali, con i vantaggi spirituali e temporali che vi sono annessi, con le felici conseguenze che può produrre, posta sotto gli auspicî della beata Vergine Immacolata, non avrà minor successo delle anteriori.

    Che una nobile ed entusiastica iniziativa sorga in ciascuna Diocesi; che tutti i pensieri diretti da molti anni a raggiungere lo scopo che ora si brama, uniscansi in una azione comune; che ogni Cattolico si associ a questa novella Crociata, confidando nella tenera benevolenza del nostro S. Padre Pio IX verso i suoi figli sottomessi e devoti, speriamo che si degnerà cedere alle nostre premure appena nella sua prudenza e saggezza giudicherà poterlo fare opportunamente.

    In quanto a noi, dedicati coll’anima e col cuore all’opera di cui si tratta, ci stimeremo felici ponendoci immediatamente in relazione con ogni persona, e con qualunque comitato vorrà secondare i nostri sforzi, e diriggendoci specialmente a voi, o Signore, di cui ci sono noti lo attaccamento alla S. Sede, il pio zelo, e lo spirito di sacrifizio, abbiamo osato sperare che non rifiuterete di accettarne la missione.

    Compiacetevi gradire in antecedenza i nostri pi sinceri ringraziamenti non che i sentimenti di alta stima e di distinta considerazione, con cui abbiamo l’onore di essere ecc.

    Circolare ai Cattolici

    La necessità di tutelare la sacra persona di S. S. dagli attacchi, che i nemici di nostra santa Religione continuamente diriggono contro il suo temporale dominio per abbattere in seguito più facilmente lo spirituale, si rende ogni giorno più manifesta.

    È questo un interesse, un dovere della Cattolicità intiera, e vi saranno moltissimi fra i Cattolici che riconoscono, è vero, questa necessità, fatta più imperiosa dalla tristezza dei tempi; ma quanti fra questi si troveranno disposti ad agire?

    Fu pensiero di molti ardenti Cattolici l’instituire un Ordine militare, il cui scopo fosse quello di custodire la sacra persona del Vicario di Cristo, e difenderne i temporali dominî. Il difetto però di unità di centro, e la moltiplicità dei disegni lasciò finora fra i desiderî questo nobile pensiero.

    A togliere pertanto questa difficoltà, prima di formulare un disegno qualunque, alla Cattolicità intiera è necessario rivolgersi, esporre la necessità di una istituzione che provveda a questa mancanza, e dai più zelanti richiedere il più zelante concorso.

    Il vantaggio che un esteso Ordine militare, composto da tanti membri di tutte le cattoliche Nazioni, e stabilito in Roma e negli Stati della Chiesa, potrebbe recare alla indipendenza del Sommo Pontefice non è a mettersi in dubbio. Divenuto una forza imponente, e sostenendosi colle proprie rendite formate dalla pietà e dallo zelo dei Cattolici, renderebbe inutile qualunque parziale intervento straniero, e solleverebbe le Finanze dello Stato da spese considerevoli, permettendo la diminuzione di quella forza, che deve ora mantenere.

    Sembra pertanto, che chi per poco rifletta agli incalcolabili vantaggi che una istituzione di tal genere arrecherebbe, non dovrebbe da buon Cattolico, tardare un momento ad approvare che un qualche disegno venisse formulato, e che fatto ed approvato non promettesse il più efficace concorso a mandarlo ad effetto.

    Sappiasi adunque che molti Cattolici in Italia, Francia, Germania e Spagna non attendono che l’adesione di un numero sufficiente di persone per riunirsi in Roma, stendere un disegno, farlo circolare fra quelli, che avranno già approvato il pensiero, e mandarlo subito ad esecuzione.

    Si dirigge pertanto questo foglio alla S. V. pregandola, qualora annuisse a quanto sopra, renderlo alla persona, da cui le verrà rimesso, firmando la seguente dichiarazione:

    "Io sottoscritto aderisco pienamente all’idee qui sopra espresse, riconosco la necessità di provvedere con qualche istituzione alla tutela del Sommo Pontefice, e alla difesa de’ suoi temporali dominî, e prometto, qualora un disegno venga formulato ed incontri la piena mia approvazione, di contribuire l’opera mia, affinché si mandi quanto prima ad effetto.

    — Firma —"

    [...].

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    Capo VI. Primizie dell’Italia redenta

    [...].

    Intanto le leggi sarde venivano promulgate in ogni luogo [...], principalmente quella che risguardavano i beni dei corpi morali e degli istituti di carità e beneficenza. Ma una nuova ne emanava il Dittatore Farini [...]. La Gazzetta di Modena del 4 ottobre recava:

    "Il Dittatore ha ordinato che sia sollecitamente compilata una statistica comparativa dei crimini commessi all’epoca dell’instaurato Governo nazionale fino al presente, e di quelli commessi in un eguale lasso di tempo sotto il cessato Governo".

    Nell’istesso tempo un bando di tale G. Cavallini, novello Intendente generale di Parma, diceva:

    "Cittadini!

    "L’Europa contempla con meraviglia il senno politico, la nuova concordia, il perfetto ordine, la calma dignitosa delle popolazioni dell’Italia centrale".

    Peccato che mentre così belle e liete cose stava contemplando l’Europa, e mentre gli ufficiali del Farini stavano per metter mano alla ordinata statistica comparativa, un fatto orrendo si compiesse sotto i loro occhi in Parma precisamente il giorno dopo in cui era stata pubblicata la citata legge dittatoriale. Ecco il fatto; lo trascriviamo [...] dall’autorevole Cattolico di Genova:

    "Ieri l’altro, 5 ottobre, a sera, all’arrivo della seconda corsa della ferrovia provegnente da Bologna, giunta alle ore 5 ½ pomeridiane, a questa stazione di Parma, fra i viaggiatori venne riconosciuto, o, per meglio dire, da uno dei viaggiatori medesimi veniva denunziato, che in uno dei vagoni, che pochi momenti dopo dovevano proseguire il viaggio per Piacenza, eravi il Colonnello Anviti appartenente alle sciolte milizie della Duchessa reggente. Non so da chi venne arrestato e condotto alla caserma dei carabinieri reali. Appena che in città seppesi questo arresto, si cominciarono a formare contro la caserma stessa, gruppi di popolo, che di mano in mano aumentando, cominciarono a gridare di volere il prigioniero nelle loro mani, minacciando di morte anche i carabinieri stessi che lo custodivano a portone chiuso. Io non so con quali mezzi, ma il fatto sta che questo popolo, o, per meglio dire, queste belve, penetrarono in detto luogo, ne trassero fuori l’infelice, ed a colpi di stile, di bastone, ed in altri modi oltraggiandolo lo strascinarono fino al caffé degli Svizzeri posto in strada S. Michele, che soleva frequentare. Là giunti, l’infelice, che non era peranco del tutto spento, fu collocato sopra d’un tavolo, e a colpi di spada gli fu tagliata la testa. Il carnefice, a quanto mi si dice, fu un volontario reduce del campo. Alla testa insanguinata si è voluto far trangugiare una tazza di caffé, le si è posto un sigaro in bocca, ed in questo modo fu portata sulla colonna che sorge in uno dei quadrati della nostra piazza grande; una torcia da vento le fu collocata dinanzi, onde fosse meglio veduta, e il popolaccio divertendosi, faceva suonare da suonatori ambulanti, accompagnando egli stesso colla voce, inni patriottici!... Ma questo non è tutto: il corpo dello infelice Colonnello, rimasto nelle mani di un’altra banda, per ben tre ore continue fu barbaramente mutilato, e gambe e braccia venivano strascinate per tutte le strade fintanto che una pattuglia credette alla fine venuto il momento di farlo deporre. Ecco la narrazione genuina di un fatto che ricorda i tempi della più feroce barbarie" * [In un opuscolo francese tradotto dall’Osservatore Romano intitolato: La verità intorno agli uomini e alle cose del Regno d’Italia, rivelazioni per J. A. antico agente segreto del Conte di Cavour, troviamo alcuni appunti circa questo orrendo fatto che non è inutile di raccogliere:

    "Le persone che riflettono, vi è detto, hanno sovente domandato a sé stesse come poteva avvenire che un uomo, che pochi agenti di polizia avevano potuto agevolmente condurre dalla stazione fino al carcere, fosse stato strappato da questo luogo da un ammutinamento, sgozzato e trascinato diverse ore per le vie, e ciò non ostante la presenza di un corpo di guardia di 25 carabinieri posti alla custodia della prigione e in una città che conteneva una guarnigione di 6,000 uomini". — Ma l’opuscolo aggiunge qualche cosa di più: "Il giorno 5 ottobre 1859, se non m’inganno, dice esso, Farini arrivò correndo ove io era (a Modena). "Presto, presto... a Parma. È stato arrestato il Colonnello Anviti alla stazione della ferrovia...; il boia dei Borboni". Tali furono le sue parole; non un motto m’è sfuggito dalla memoria. "Che bisogna fare?, risposi, volete che ve lo conduca?" — "Eh! no, non sapremmo che farne! Egli è un uomo pericoloso". — "Ma..." — "Noi non possiamo toccarlo senza che sorgano clamori". — "Sarebbe mestieri che la popolazione si addossasse l’affare... Voi mi avete compreso". Io partii, e si sa quello che avvenne, ma non sono noti certi particolari, che potrebbero essere di molta edificazione circa il dolore risentito dal Governo piemontese per questo fatto. — Adempiuta la triste missione, ricevei la croce dei SS. Maurizio e Lazzaro, e il Direttore della prigione, al quale era stato ordinato di lasciarsi carpire il prigioniero, ebbe avanzamento e abbandonò la direzione delle prigioni per quella delle poste. Il Direttore delle poste fu destituito come Duchista. Davidi, colui che dopo avere trascinato per le vie di Parma il sanguinolento cadavere dell’Anviti, lo decapitò e pose la testa quale trofeo sulla piazza del Governo, Davidi, ripeto, nel medesimo giorno venne nominato direttore della prigione di Parma... E quando pochi giorni appresso il Console francese Paltrinieri chiese a nome della Francia la punizione degli autori di questo assassinio, il governo per dargli un’apparente soddisfazione, fece carcerare nel corso della giornata con gran fracasso 27 persone. Ma la medesima sera il direttore Davidi ricevette ordine di lasciar fuggire i prigionieri, arrestati del resto all’azzardo"].

    L’autorità dopo di avere assistito impassibile per quattro ore a quell’orrendo scempio, faceva affiggere nelle pubbliche vie, il dì seguente, questo proclama:

    "Cittadini!

    "Ieri sera la vostra città è stata contristata da un fatto che non sarà mai abbastanza deplorato. Un miserabile venne a mostrarsi a quel popolo che aveva crudelmente offeso. La febbre della vendetta invase alcuni sciagurati, gli accecò, li rese furenti e li trasse a bruttar le mani nel sangue. Fosse stato il più perverso degli uomini, toccava alla legge il punirlo.

    "Parma, 6 ottobre 1859.

    "L’Intendente Generale

    "Cavallini".

    Il degno Intendente aveva parole più dure per l’assassinato che non per gli assassini! Ma l’orrore suscitato nel cuore di ogni persona onesta, fosse anche liberale, fu sommo in tutta Italia. [...] Massimo D’Azeglio [...] aveva parole di fuoco per quel fatto: "Ora la posizione è cambiata (scriveva egli nei giornali di quell’epoca); l’Italia ha la fronte macchiata, e deve abbassarla con vergogna; ora non è più inviolabile. Bisogna dirlo con parole che mostrino non essere estinto in Italia il senso morale, il senso d’onore, il senso patrio; bisogna chiamare le cose col loro nome, e dire che il caso di Parma è uno spaventevole misfatto; e non parlarne a fior di bocca, come leggo in certe corrispondenze ed in certi giornali; non parere fare piuttosto il processo alla vittima che a’ suoi assassini; non contentarsi di trovarvi una lezione per i cattivi governanti caduti; ma osservare se non ve ne fosse una più severa per i governanti presenti. Di questo fatto non sono colpevoli soltanto gli attori, ma ne sono colpevoli tutti coloro che non tentarono di opporvisi. E ci si dice che l’esecuzione fu rapida tanto da non dar tempo a repressioni! Ma non fu scoperto quello sciagurato alle 5 dopo mezzogiorno, e non finì alle 9 della sera? Che faceva il Governo? che facevano gli spettatori? Finché non è reso al pubblico di tutto ciò conto, la responsabilità più grave pesa sull’intera città di Parma. Questa responsabilità s’aggrava sul Governo ogni giorno di più che trascorre, senza che ci giunga l’annunzio delle disposizioni prese per scoprire e punire chi è reo".

    Le parole del D’Azeglio destarono la rabbia dei settarî, gli organi dei quali, non dubitarono di trovare più reo lui, che non gli assassini dell’infelice Anviti.

    [...].

    L’istesso Bianchi Giovini, nel suo numero 21 ottobre dell’Unione, in una corrispondenza da Parma, narrato il fatto, concludeva così: "Abbiamo qui un Governo dittatoriale, e il Dittatore (Farini) si è circondato fatalmente di uomini, che appunto per essere stati sempre, durante la loro vita, niente altro che cospiratori, non hanno alcun prestigio; non possono esercitare alcuna forza morale. L’anarchia è nel governo [...]: lasciate che domani si presenti un altro Anviti, e si ripeterà la scena".

    I rei intanto rimanevano impuniti, e se qualcuno venne arrestato lo fu solo pro forma. S’intimò un disarmo, e solo poche spade e qualche arma di lusso vennero consegnate, mentre che era notorio a tutti che ben 5000 fucili ed altre armi erano in mano del popolo, da esso trafugate dalla cittadella il giorno della rivoluzione: senza dire dei pugnali e di altre armi proditorie di cui i settarî e la plebaglia erano a dovizia forniti. La cosa era così smaccata che l’istesso corrispondente del Times scriveva a quel giornale da Bologna, sotto la data del 15 ottobre, queste precise parole: "Sono partito da Parma questa mattina, non volendo più essere testimonio dello spettacolo lagrimevole che presenta quella città agli occhi di tutti coloro che amano sinceramente la causa italiana".

    Né meglio procedevano le cose nelle ribellate Romagne, sullo stato tristissimo delle quali, il Giornale di Roma del 2 novembre aveva la seguente corrispondenza: "La scorsa Domenica (23 ottobre) nel Comune di S. Lazzaro, piccolo paese distante circa tre miglia da Bologna, quel presidente municipale, Berti Pichat, in occasione dell’innalzamento degli stemmi sabaudi, volle che si cantasse il Te Deum nella chiesa delle Caselle. Trovandosi questa chiesa chiusa, se ne atterrarono le porte; ma il fabbro per ciò delegato ricusò di aprire il ciborio, la cui chiave, come quella della chiesa, era stata portata via dal parroco D. Giuseppe Ardizzoni. Per questo fatto quell’ecclesiastico venne poi arrestato in un col suo cappellano Landi, e vuolsi che ambedue siano stati trasportati in un convento del Piemonte, dove debbono rimanere per tre mesi a loro spese. Guarentisco la prima parte; ma annuncio semplicemente, come voce non priva di fondamento, la seconda. Nel giorno 26 poi in Bologna si presentarono per tre volte persone di Governo a quell’Eminentissimo Arcivescovo, per reclamare gli atti giudiziarî della sua Curia. La treza volta erano accompagnati dalla forza, col cui mezzo portarono via molti atti e le chiavi degli archivî. Potrei noverarvi molti altri soprusi e violenze adoperati dai rivoltosi nelle Romagne, ma me ne astengo per gli ostacoli che in queste provincie si incontrano nello scrivere e nel parlare, quantunque siamo ora governati da uomini che si spacciano amanti della libertà e che dicono di rispettare le altrui opinioni: il fatto però contradice il detto e noi ci troviamo, anche sotto questo rapporto, assai male".

    Altri fatti non meno gravi venivano narrati dal Giornale di Roma sotto la data dei 28 ottobre: "Dal nostro corrispondente particolare (dice esso) viene scritto quanto segue: — Ritornava Monsignor Vescovo di Rimini nella propria residenza da Coriano, dov’erasi condotto per assistere all’elezione della Superiora di una Comunità Religiosa, quando un milite, ben non si conosce con quale pretesto, fecesi ad imprecare contro di lui e il minacciò della vita. Immediatamente formossi attorno al palazzo episcopale tanto concorso di quelle indisciplinate milizie in armi, da non lasciare dubbio che la città avesse a perdere il suo Pastore, come già molte chiese della diocesi vedonsi orbate dei loro parrochi.

    "Le apprensioni crebbero in modo che, per più ore, diedesi credito alla voce che il Vescovo fosse stato arrestato. Avvaloravano questa opinione generale gli arresti di molti Sacerdoti verificatisi nei precedenti giorni, le vessazioni e gl’insulti patiti da Monsignor Vescovo di Bertinoro e Sarsina. Tra i parrochi ed ecclesiastici carcerati nella diocesi di Rimini, mi restringerò ad accennare l’arciprete di Saludecio, che ammanettato fu tradotto alle prigioni; due sacerdoti fratelli Solari di Marciano, Don Tito Brigidi di Cattolica, l’arciprete di Ciola don Semprini, e due preti di Mondaino. Cinque degli ecclesiastici arrestati furono, il giorno 19 corrente, per ordine del Garibaldi, fatti tradurre a Bologna, ove, racchiusi dapprima nelle pubbliche carceri, furono successivamente trasportati in un altro sicuro luogo di reclusione. Standosi al detto di persone imparziali, pare che il loro arresto fosse cagionato dalla diserzione di molti militi, i quali, mal vestiti e peggio trattati, non vogliono più saperne di una causa che loro non ispira fiducia, e che dai più viene reputata, come è, sacrilega. Alcuni di quegli sciagurati ebbero quindi ricorso alla carità dei ministri del Santuario, per ottenere un sussidio, e questi concedendolo, incorsero nella taccia di provocatori e fautori della fuga, e pare di più che il maltalento sia giunto al segno di simulare diserzioni, affine di poter colpire d’arresto i sacerdoti limosinieri.

    "E che si creino pretesti, per fare ad ogni costo delle vittime, si argomenta dalla generale assicurazione che l’arciprete di Saludecio mai non ebbe occasione di parlare neppure una volta con militi. Né deve recare ciò meraviglia ove si rifletta che il Garibaldi, nell’eccitare tutti ad armarsi, e nell’arringare i suoi adepti, ha detto sovente che, per liberare l’Italia è d’uopo disfarsi dello straniero e dei preti. In Bologna però i pretesi moderati, per non mancare alle loro istruzioni, dirette a far sì, che si peli la quaglia senza farla strillare, non approvarono, giusta quanto mi si scrive, un tale passo. E doveva, nel giorno 21 farsi dei summenzionati cinque sacerdoti un giudizio sommario, sembrando che si avesse in pensiero di rilasciarne tre, ai quali sarebbe impossibile imputare altra colpa, tranne quella di avere soccorso il prossimo, secondo lo spirito del Vangelo.

    "Per questi fatti, tale sgomento s’impadronì degli animi nelle Romagne, da venirne quella notabile emigrazione di ecclesiastici, di che diedi cenno nella lettera precedente. Non sono poche le parrocchie, specialmente nella diocesi di Rimini, ove non trovasi più un sacerdote che celebri i divini ufficî e porga gli estremi conforti. Da Saludecio fuggì il cappellano e due altri sacerdoti che ivi dimoravano. A mia notizia, posso accertare che, nella sola provincia di Urbino e Pesaro rifuggiaronsi ventiquattro sacerdoti, anche illustri, dei quali sarei in grado di specificare i nomi e i titoli. A questa emigrazione di ecclesiastici, se ne aggiunge altra notevole di persone laiche, tra le quali circa venti Bertinoresi sfuggiti alla persecuzione, e non d’altro rei che di avere protestato contro gli attentati commessi a danno del loro Vescovo e contro la violata immunità del palazzo episcopale, ove si praticò una rigorosissima perquisizione. Forse da questi sacrileghi procedimenti è ingenerata la voce, che oggi corre, dell’arresto di quel Prelato. Se il Signore non ne assiste, si vanno preparando per le Romagne ben molte sciagure".

    Infatti il Giornale di Roma del 4 febbraio 1860, quando già da oltre due mesi vigeva il Trattato di Zurigo, faceva il seguente quadro, forse troppo benigno, delle condizioni d’Italia: "La rivoluzione, diceva, progredendo in Toscana nella sua via, crede finalmente aver toccato il punto cui già accennava, e che la mostra nudamente nel suo verace aspetto. Nell’avviso che dentro ai confini di quella regione sia essa pervenuta ad attutire ed estinguere ogni affetto all’autorità legittima del Sovrano, spiega oggi le sue forze a dirigere gli assalti contro la Religione, ed ogni arte adopera per allargare e distendere la perturbazione e il disordine fuori di quel territorio, facendone principalmente segno le provincie che durano nella obbedienza della Sovranità pontificia. Gli atti coi quali i signori Ricasoli e Salvagnoli manomisero la giurisdizione e la indipendenza del potere ecclesiastico in Toscana sono pur troppo noti; e celebrità infausta hanno già acquistato i decreti e le circolari, contro cui levò altamente la voce quel coraggioso Episcopato. Ha pure notorietà il decreto con che da ultimo sonosi voluti annullare gli articoli che, nel 1851, si convennero fra la Santa Sede e il Governo granducale sopra alcuni punti di affari ecclesiastici, nell’intendimento di divenire poi ad un completo concordato per provvedere ai bisogni di quella parte nobilissima della Cattolicità. Che dire poi delle indebite esigenze che al Clero s’imposero? che dell’abbiezione cui venne ridotto?

    "Non sono bastate le offese che per codeste disposizioni si fecero all’organismo vitale della Chiesa: si passò ancora a dettar legge al Clero nell’esercizio del suo ministero. Dal barone Ricasoli fu diramata una circolare, e fu ingiunto venisse dessa personalmente intimata in Firenze e nei capoluoghi o residenze dei Delegati, a tutti i Parrochi toscani che in quei centri governativi dovettero, con loro grave disagio, perfino dagli alpestri luoghi trasferirsi per ascoltarne il contenuto, e dichiarare per iscritto di averne ricevuta comunicazione. Gli stessi Delegati, a quanto dicono, sì a male in cuore compierono al duro officio verso quei rispettabili Ecclesiastici, che alcuni lo fecero precedere dalle accuse del più vivo e sentito rammarico.

    "S’impongono poi al clero le preghiere della liturgia, ed il ministro Salvagnoli intimò di far recitare la Colletta pro Victorio rege nostro electo... Nulla è trascurato perché si scemino ai popoli i mezzi ad avere gli aiuti spirituali. Si vietò ai religiosi, specialmente Francescani, di più accettare novizî. Non si risparmiano le intimidazioni e le minacce, più o meno gravi, al ceto sacerdotale. Parrochi e Sacerdoti, tanto secolari che regolari, ogni giorno s’incarcerano, e le spie assediano le chiese per notare, riferire, svisare ogni parola che possa dare appiglio a corroborare la calunnia e dar pretesto all’angaria. Mentre però è di tanta vigilanza circondato il clero cattolico, a quanto si assicura, si lascia all’apostata Gavazzi libertà d’insegnare l’errore da una scuola aperta a Pistoia in un locale posto discontro alla chiesa detta dell’Umiltà, insultando così alla fede di quei cittadini che in quel tempio riconoscono il loro più caro e divoto santuario.

    "La stampa poi è lo strumento più attivamente adoperato nell’empia guerra. Molti scritti imprecanti all’Ordine Ecclesiastico sono diffusi a larga mano; a migliaia di copie si sparse quella lettera di Garibaldi alla scolaresca di Lombardia, che è una vera provocazione all’esterminio del clero. Né cosa si lascia intentata perché la stampa sia mezzo al pervertimento della fede, alla corruzione della morale. Le Bibbie protestanti non solo dall’estero si fanno entrare, ma i torchi del paese di occupano a riprodurle perché alla organizzata diffusione non venga meno il numero delle copie. E mentre è vietata la introduzione dei giornali saggi, sol che tocchino ancora indirettamente il potere che colà si è insediato, ogni altro periodico che, sia col semplice dettato, sia ancora coll’aiuto delle più sconce e laide figure, si faccia messaggero di empietà, trova accesso e favore. Le rappresentazioni teatrali mettono il colmo agli strumenti della generale depravazione. Negli istituti destinati alla educazione scientifica e letteraria ogni licenza di dotrina è permessa; anzi in alcune università si adottarono a libri di testo opere e dottrine condannate dalla Santa Sede. I reclami dell’autorità ecclesiastica arrivano indarno.

    "In tanto dolorose ed acerbe condizioni, in cui geme la Chiesa in Toscana, è però consolante il vedere come la fede si ravvivi, la frequenza dei Sacramenti si accalori, ed il concorso alle chiese si aumenti. In qualche luogo la popolazione si mostrò indignata di tanti scandali, sicché il Governo, almeno in apparenza, e in Firenze e in Pisa ha dovuto in qualche cosa indietreggiare. Quando però nelle popolazioni si osservano tali e sì pronunziati elementi di bene, è a sperare che le arti dei tristi non potranno prevalere.

    "Queste arti che, per le discorse cose, veggonsi dirette ad una guerra implacabile contro la Religione, non è a dire come d’altra parte siano pur rivolte al rovesciamento della pontificia temporale sovranità nelle finitime provincie, obbedienti al Governo della Santa Sede, provocandole alla ribellione cogli appelli, colle seduzioni, cogli intimidamenti, col denaro, e incitando alla defezione ed al tradimento le milizie fedeli. Senza mistero, e mercé la pubblicazione dei periodici di Firenze, è messa in palese la esistenza colà di un comitato perugino fornito di una burocrazia e di una cassa, la quale dispone di notevoli pecuniarie risorse. Da questa sorgente emanano più particolarmente quelle provocazioni alla sommossa che dall’Umbria arrivano sin nelle Marche. Da Cortona spacialmente vengono gli eccitamenti in Perugia; mentre ad Ancona e Pesaro si trasmettono le più false ed allarmanti notizie, tra le quali ultimamente quella della sollevazione di Perugia e della defezione di tutta la pontificia sua guarnigione. La fedeltà delle milizie pontificie è per ogni dove tentata con proclami stampati, quali acclusi in lettere provenienti dalla Toscana o da Rimini, quali diffusi in gran copia nelle varie città da emissarî, e tutti concepiti con linguaggio di blandizie ai soldati, di avversione al Governo cui giurarono fedeltà, e di aperto eccitamento alla diserzione, anche sotto promessa di avanzamento o di premio.

    "E mentre questi attentati con ogni impudenza si commettono, nelle Romagne non si rifugge dai cosidetti consigli di guerra, sotto lo specioso pretesto di favore accordato alla diserzione della gioventù, sedotta a far parte delle orde ribelli, di condannare alla galera un Arciprete ed altri Ecclesiastici, non rei di altro, che di aver soccorso la indigenza di qualche giovane, che tornava al domestico focolare.

    "Ma di somiglianti ingiustizie, velate sotto il manto della legalità giudiziaria, la più ributtante è certo il lungo ed aspro sostenimento nelle carceri del Torrone a Bologna dello specchiato e dotto Inquisitore Padre Feletti dell’ordine dei Predicatori, arbitrariamente arrestato mentre riposava nella coscienza della propria innocenza, e processato senza querela di parte, e solo per astio dell’intruso potere, che gli fa delitto l’aver compiuto nei tempi andati ciò, che era sacrosanto dovere del suo officio.

    "Queste cose si verificano in paesi dove il potere si fa usbergo di uno stemma, che ricorda tanta fede alla Religione, e giuoca all’altalena per ingannare e travolgere la opinione degli onesti, oggi offerendo individui rivestiti di titoli disdetti in una regione perché siano riconosciuti in un’altra, i quali poi dimani sono di questi stessi di qua spogliati affinché tornino convalidati di là; e terminandosi, allorché il bandolo si crede smarrito, e farsi valere dovunque giovino per portare a termine i propositi di tradire la giustizia, gl’interessi e la causa dei popoli. Gli esempî non sono pochi: eloquente però è quello del General Fanti, disdetto per decreto di esser piemontese, perché tutti sapessero appartenere all’Italia centrale, fu poscia disdetto per altro decreto dall’appartenere a questa, affine di tornare al primitivo onore. Ma mentre la forza del secondo decreto elideva quella del primo, si è terminato col convalidarli ambedue, come piemontese ha seggio nel ministero, come cittadino dell’Italia centrale ne comanda l’esercito".

    [...].

    In mezzo appunto a così fatte cose si manipolava e si firmava il riferito, famoso Trattato di Zurigo, violato prima che sottoscritto.

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    Capo VII. Un Terzetto: Napoleone, il Galantuomo e Mazzini

    Napoleone III vedeva l’opera sua andare alla peggio, e tra l’audacia del Governo Sardo, lo scapestrare delle passioni e la baldanza feroce dei settarî, l’Italia vera andare in fascio e, principalmente, a rovescio dei suoi intendimenti; pensò dunque di scrivere una delle [...] sue lettere all’alleato Galantuomo da frenarne il cammino, se non da arrestarlo. La lettera era tutt’un programma, e diceva così:

    Lettera di Napoleone al Re galantuomo

    "Signore, mio fratello.

    "Io scrivo oggi a V. M. per esporle la situazione presente degli affari, per rammentarle il passato e per mettermi d’accordo con lei, sulla condotta che dev’essere tenuta per l’avvenire. Le circostanze sono gravi; è necessario lasciar da parte le illusioni e gli sterili rimpianti, ed esaminare accuratamente la reale situazione degli affari. Così, non si tratta oggi di sapere se io abbia bene o male operato nel conchiudere la pace a Villafranca; ma piuttosto di ottenere dal trattato i risultati più favorevoli per la pacificazione dell’Italia e per riposo dell’Europa.

    "Prima di entrare nella discussione di questa questione io desidero vivamente rammentare ancora una volta a V. M. gli ostacoli che resero tanto difficile qualunque negoziazione e qualunque trattato definitivo.

    "In punto di fatto, la guerra presenta spesso minori complicazioni della pace. Nella prima due soli interessi stanno a fronte l’uno all’altro: l’attacco e la difesa; in questa al contrario si tratta di conciliare una moltitudine d’interessi, sovente di opposto carattere: e questo precisamente avvenne al momento della pace. Era necessario conchiudere un trattato che assicurasse nella migliore possibile maniera l’indipendenza dell’Italia, che soddisfacesse il Piemonte, ed i voti della popolazione, che pertanto non ledesse il sentimento cattolico, e i diritti dei Sovrani, pei quali l’Europa provava un interesse.

    "Io quindi credetti, che, se l’Imperatore di Austria desiderava venire a un leale accordo con me, allo scopo di ottenere questo importante risultato, le cagioni di antagonismo che per secoli aveano diviso i due imperi, sarebbero scomparse, e la rigenerazione d’Italia si sarebbe effettuata di comune accordo, e senza nuovo spargimento di sangue.

    "Indicherò ora quali, a mio credere, sono le condizioni essenziali di questa rigenerazione.

    "L’Italia deve essere formata di più Stati indipendenti, uniti da un vincolo federale.

    "Ciascuno di questi Stati deve adottare un particolare sistema rappresentativo e salutari riforme.

    "La Confederazione allora ratificherà il principio della Nazionalità italiana; avrà una sola bandiera, un solo sistema di dogane, e una sola moneta.

    "Il centro direttivo sarà Roma, e si comporrà di rappresentanti nominati dai Sovrani sopra una lista preparata dalle Camere, affinché in questa specie di Dieta, l’influenza delle famiglie regnanti sospette di una inclinazione verso l’Austria, venga controbilanciata dall’elemento risultante dalla elezione.

    "Coll’accordare al S. Padre la presidenza onoraria della Confederazione il sentimento religioso dell’Europa cattolica sara soddisfatto; la influenza morale del Papa sarebbe accresciuta in tutta l’Italia, e gli sarebbe permesso di dar concessioni conformi ai voti legittimi delle popolazioni. Ora il disegno che io ho formato al momento di conchiudere la pace, può ancora essere eseguito, ove V. M. voglia impiegare la sua influenza a promuoverlo. Inoltre si è già fatto un passo considerevole in questa direzione.

    "La cessione della Lombardia con un debito limitato è un fatto compiuto.

    "L’Austria ha rinunciato al suo diritto di tener guarnigione nelle fortezze di Piacenza, Ferrara e Comacchio.

    "I diritti dei Sovrani furono, è vero, riservati, ma fu pure guarentita la indipendenza dell’Italia centrale, essendo stata formalmente rigettata ogni idea d’intervento straniero, ed infine Venezia dovrà diventare una provincia puramente italiana. È cosa di reale interesse per V. M., come pure di quello della Penisola, il secondarmi nello svolgimento di questo disegno allo scopo di ottenerne i migliori risultati; perché V. M. non può dimenticare, che io sono legato dal Trattato: e nel Congresso che sta per aprirsi io non posso ritirarmi dai miei impegni. La parte della Francia è tracciata già da prima.

    "Noi domandiamo che Parma e Piacenza siano unite al Piemonte, perché quel territorio gli è indispensabile dal punto di vista strategico.

    "Noi domandiamo che la Duchessa di Parma sia chiamata a Modena.

    "Che la Toscana, aumentata forse da una porzione di territorio, venga restituita al granduca Ferdinando.

    "Che un sistema di saggia libertà venga adottato in tutti gli Stati d’Italia.

    "Che l’Austria si sciolga francamente da cagioni incessanti di imbarazzi per l’avvenire, e consenta a completare la nazionalità della Venezia, creando non solamente una rappresentanza e una amministrazione separata, ma anche un’armata italiana.

    "Noi domandiamo che Mantova e Peschiera debbano essere riconosciute come fortezze federali.

    "E finalmente che una Confederazione, basata sui reali bisogni, come sulle tradizioni della Penisola, ad esclusione di qualunque influenza straniera, abbia a consolidare l’edificio della indipendenza d’Italia.

    "Io nulla tralascerò, onde ottenere questo grande risultato. Si convinca V. M. che i miei sentimenti non cangeranno, e che in quanto non vi si oppongano gli interessi della Francia, io mi chiamenrò sempre felice di servire la causa, per la quale abbiamo combattuto insieme.

    "Palazzo di S. Cloud, 20 ottobre 1859.

    "Napoleone".

    Risposta del Galantuomo a Napoleone

    "Sire,

    "La lettera di V. M. mi prova una volta di più la costante sollecitudine che prendete al bene del popolo italiano. Io vi sono sensibile ed a nome di questo ve ne ringrazio.

    "V. M. fa un appello alla mia cooperazione onde far prevalere i suoi piani nella rigenerazione d’Italia. Io ho il dolore di esporre alla V. M. le ragioni per le quali la mia cooperazione sarebbe incompatibile col mio onore, col mio diritto, con la giustizia e col mio dovere.

    "Io non mi feci giamma illusione sulla situazione degli affari d’Italia, perché io sono soldato e non poeta, non ho quindi da lasciare da banda né sterili illusioni, né sterili rincrescimenti. Ed è perciò che prego la M. V. a considerare nei disegni della nuova organizzazione d’Italia, non l’opera speciosa di un giorno, ma la sua durata e la sua sicurezza.

    "Lungi da me l’idea di ritornare sulla questione, se V. M. fece bene o male prendendo d’assalto la pace di Villafranca. Male udita allora, sarebbe inutile e indegno di me, turbare adesso la calma d’animo di V. M. con considerazioni intempestive. So pur troppo le difficoltà che si sono dovute sormontare per dare una apparenza di provvisoria conciliazione ad interessi inconciliabili. Però come dopo la pace di Villafranca sono sopravvenuti avvenimenti, allora non solo non preveduti, ma neppure sospettati, egli mi sembra che questi nuovi elementi debbano entrare nelle considerazioni che guidano la politica attuale di V. M.

    "A Villafranca la M. V. e S. M. Apostolica non previdero due cose. Primo, che i popoli dell’Italia centrale avrebbero potuto opporre una resistenza determinata al ritorno dei loro Sovrani; secondo, che questi popoli per mezzo di assemblee elette a suffragio più o meno esteso avrebbero decretato l’annessione di quelle contrade al paese, che Iddio ci ha dato a governare. Ora la M. V. sa bene che questi non sono già atti rivoluzionarî, di cui non debbasi tener conto. — Un’assemblea dette la Corona di Carlo X alla casa d’Orleans, e l’Europa tutta riconobbe Luigi Filippo. Un’assemblea decretò la reggenza della regina Isabella in Ispagna e riconobbe D. Maria di Gloria in Portogallo, e l’Europa tenne questi voti come validi. Un’assemblea decretò la decadenza della Casa d’Olanda dal trono del Belgio, e l’Europa ne sanzionò l’atto. Un’assemblea, non ha guari cancellava perfino un atto di un congresso europeo nei Principati Danubiani, e l’Europa ne ha annuito. Un voto popolare infine portava gloriosamente al Trono la M. V. — Perché dunque al popolo italiano solamente si contesterebbe il diritto di dichiarare decaduta una dinastia, proclamarne un’altra, cangiare i gruppi territoriali composti da un trattato che la M. V. lacerava definitivamente a Magenta ed a Solferino? Se la condotta degli Italiani è ribelle, ed il loro voto nullo, si ricominci dal ricomporre l’Europa del 1815; io rinunzio alla annessione ed anche alla Lombardia, e che la M. V. ceda il trono al Duca di Bordeaux.

    "Sire,

    "Non abbiamo due pesi e due misure; il diritto è uno ed eterno, e risiede non nelle dinastie che si estinguono, che cangiano e degenerano, ma nel popolo che permane.

    "Quanto alle condizioni essenziali che la M. V. mette alla rigenerazione d’Italia, voglia, la prego, prendere in considerazione gli ostacoli enormi che vi si oppongono. — Una federazione durevole non è possibile che fra Stati omogenei, senza di che la federazione è inefficace come in Germania, produce dei sunderbund come in Svizzera, o minaccia ad ogni momento risolversi come negli Stati Uniti. Non è né l’unità economica, né l’unità amministrativa, né l’unità della bandiera che costituisce l’unità politica di un popolo, è l’unità di essenza del Governo. Ora l’essenza del Governo austriaco, del Governo pontificio, del Governo di Napoli e del mio Governo è incommensurabilmente diversa: l’essenza del popolo italiano è antagonista a quella dei detti Governi. Quindi mala intelligenza tra i popoli ed i Governi, non accordo tra un Governo e l’altro. — Su che base poserebbe la Confederazione? Il popolo italiano ha due istinti indomabili, la indipendenza e l’unità. Può il Governo austriaco, o il Governo pontificio far ragione a questa impulsione permanente della opinione pubblica, che si traduce in tutte le manifestazioni della vita nazionale?

    "La Dieta di Roma inoltre o è puramente consultiva o è sovrana. Se è consultiva solamente, la è inutile come la Consulta di S. M. Siciliana ed il Consiglio di finanza di Sua Santità. Se è sovrana, vale a dire che rappresenta la nazione fuori, e dispone delle forze di terra e di mare dentro, la Confederazione è inutile, i singoli Governi saranno aboliti col primo decreto di questo areopago, e l’Italia è fatta, o la guerra civile è in piedi.

    "La S. M. propone un sistema rappresentativo speciale per ciascuno Stato e una saggia libertà. Ciò sarebbe un altro elemento di discordia tra i popoli ed il Governo, e di anarchia nella Dieta generale, e per me un imbarazzo. Il mio popolo non può rinculare, rinunziando alla larghezza della libertà goduta finora. Napolitani, Toscani, Romagnoli, Modenesi, Veneziani non si credono da meno dei Piemontesi e dei Lombardi. Una libertà per tutti dunque, o nessuna per nessuno.

    "Possono il S. Padre, e gli altri Principi accordare ai loro popoli la libertà della stampa, del culto e della parola che io lascio ai miei popoli?

    "La M. V. opina che la presidenza della Dieta aumenterebbe la influenza morale del Papa. Ma chi mai e quando mai si attentò in Italia a questa influenza?

    "Che il Pontefice Romano non ne domandi altra, e sovrano al mondo non sarà stato più potente e più venerato di lui. Ma in questa presidenza risiede precisamente il pericolo d’Italia. Il Papato è elettivo, che il Cardinale Antonelli, per esempio, succeda un dì a Pio IX, tra la Dieta italiana e il suo presidente la guerra è in piedi, o un colpo di Stato inevitabile.

    "La presidenza della confederazione poi compensa le riforme che si domandano al Governo ecclesiastico? Imperocché queste riforme versano sulla natura stessa del Governo, se il Papato deve esser discusso in una camera di deputati, il Papato è finito. Val meglio ucciderlo con un decreto, che comprometterlo e disonorarlo con rilevarne le magagne.

    "Io non espongo a V. M. che una sola considerazione, quanto alla partecipazione dell’Austria alla Confederazione italiana, una ipotesi. Che domani l’Austria si trovi in guerra con la Francia, che farà l’Italia? Se io avessi la maggioranza nella Dieta, non potrebbe l’Italia che restare neutrale, ma siccome la maggioranza con Napoli, Roma, Firenze, Modena e Parma sarebbe all’Austria; l’Italia dovrebbe muover guerra alla Francia. Ora questa nobile e generosa nazione avrebbe speso tanti milioni e tanto sangue per mettersi una spada nei fianchi, e nell’ora del pericolo avere un popolo, come Giobbe aveva degli amici?

    "L’Austria ha abbandonato il diritto di avere guarnigione a Piacenza, a Ferrara, a Comacchio, perché queste guarnigioni non vi sono più; e perché per rimetterle è mestieri ormai riposare sull’esercito della M. V. e sul mio e su quello dell’Italia centrale, vale a dire ricominciare la guerra. La M. V. sa del resto che lasciarmi Piacenza e Parma, come indispensabili al punto di vista strategico per il Piemonte, non copre in nulla le mie frontiere; il Piemonte non ha che un nemico: l’Austria, e l’Austria può senza intoppi passare il Mincio dovunque, ed il Po a Borgoforte. L’Austria in fine ci ha venduta la Lombardia, conquistata con tanto sangue, e ha guardato le porte e le chiavi. Ma la M. V. ha voluto così.

    "V. M. crede che la Venezia può restare una provincia puramente italiana col Governo austriaco. La Ungheria ha potuto restare Ungheria malgrado la sua Dieta e l’Imperatore d’Austria suo Re speciale? Gli Stati buon grado o malgrado debbono seguire la nazionalità dei Governi, senza di che vi è anarchia. Venezia, finché piaccia a Dio, sarà la Gerusalemme dell’Europa attuale, terra di pianto che appella redentori. Un’Assemblea italiana, un esercito italiano negli Stati austriaci di Italia, con Verona dove batte il cuore dell’Austria, è una mistificazione, è un pericolo per tutti. La guarnigione austriaca a Verona ed a Legnago rende frustranea la guarnigione federale di Mantova e di Peschiera, senza contare che le guarnigioni miste difendendo sempre male le piazze, ingenerano talora dissidî, sempre rencori e gelosie tra i corpi speciali.

    "V. M. in fine domanda la restaurazione del Granduca con aumento di territorio, ed un cangiamento di domicilio per la Duchessa di Parma, protestando nel tempo stesso volere rispettata l’indipendenza dell’Italia centrale, e messa formalmente da banda la intervenzione straniera. In che modo allora la restaurazione avrà luogo? Una restaurazione spontanea e pacifica è ormai impossibile. Provocare per occulti maneggi un’insurrezione dei partigiani dei Principi espulsi, è mezzo incerto di successo, immorale, sanguinoso, terribile, è la guerra civile. Stancare i popoli coll’anarchia è pericoloso. Da prima perché anarchia non vi sarà, di poi perché, Sire, questi popoli spinti agli estremi potranno ricordarsi le storiche loro tradizioni e considerare che oltre del Governo monarchico assoluto che hanno respinto, del Governo costituzionale che loro si rifiuta, havvi il Governo repubblicano dei loro padri. Ed allora?

    "Le restaurazioni, Sire, sono sempre funeste. Un Principe che torna, è condannato ad essere o nullo, o tiranno, senza autorità se si appoggia su i suoi nemici; vendicativo, reazionario se si appoggia su i suoi amici; se il Granduca, la Duchessa si appoggeranno sul partito che ora regna nell’Italia centrale, questo li condurrà alla indipendenza ed alla unione per mezzo della libertà, vale a dire alla negazione dinastica; se questi Principi cercheranno la mano dell’Austria di nuovo, essi prepareranno un altro asilo per loro, e la guerra contro l’Austria di nuovo. In ambo i casi nuove proscrizioni, nuovi torbidi, nuove vendette, nuovi rancori, e non più pace nella Penisola.

    "Per queste considerazioni, Sire, e per altre moltissime io non posso secondare la politica di V. M. in Italia. Se V. M. è legata dai Trattati e non può nel Congresso ritirare i suoi impegni; io sono, o Sire, legato altresì ad una politica tutta opposta, legato dall’onore in faccia all’Europa, dal diritto, dal dovere della giustizia, dall’interesse in faccia alla mia casa, al mio popolo ed all’Italia. La mia sorte è congiunta a quella del popolo italiano; possiamo soccombere, tradire non mai. I Solferino e San Martino, riscattano tal volta le Novara e Waterloo, ma le apostasie dei Principi sono irreparabili. Io potrò dunque restar solo nella grande lotta in cui la M. V. aveva cominciato per darmi la mano: ma resterò. Perocché se la M. V., forte dell’ammirazione del suo popolo, non ha nulla a fare per la riconoscenza della simpatia dell’alleanza del popolo italiano, io sono commosso nel profondo dell’anima mia dalla fede, dall’amore che questo nobile e sventurato popolo ha in me riposto; e piuttosto che venirgli meno, spezzo la mia spada e getto la mia corona come il mio augusto genitore. Alcun interesse personale non mi guida alla difesa dell’annessione. La mia casa non si è fatta pei voti di assemblee; la spada e il tempo ci han portati dal vertice delle Alpi alle sponde del Mincio, e questi due Angeli Custodi della Casa sabauda la condurranno più in là, quando a Dio piaccia.

    "Qualunque sia la vostra politica dell’avvenire, o Sire, che la M. V. e la grande nazione cui la M. V. conduce siano sicuri, che giammai mi troveranno nelle file dei vostri nemici".

    "Torino 28 ottobre 1859.

    "Vittorio Emmanuele"



    Lettera di Giuseppe Mazzini a Vittorio Emmanuele II

    Il Diritto, nel suo numero del 3 ottobre 1859, pubblicava i brani principali della lettera di Mazzini al Re galantuomo in data del 20 settembre, da Firenze. Il Diritto diceva che questa lettera "è il documento più esplicito e più avvicinatore che sia uscito mai dal partito repubblicano", e che "il Monarca d’Italia ne può andar superbo" [...]:

    "Repubblicano di fede, ogni errore di Re dovrebbe, s’io non guardassi che al mio partito, sorridermi come elemento di condanna alla monarchia. Ma, perché io amo più del mio partito la patria, e voi poteste, volendo, efficacemente aiutarla a sorgere e vincere, io vi scrivo da terra italiana...

    "...Sire, voi siete forte: forte, sol che voi vogliate, di quella vita; forte di tutta la potenza invincibile che è un popolo di ventisei milioni concorde in un solo volere; forte più di qualunque altro principe che or vive in Europa, dacché nessuno ha in oggi tanto affetto dalla propria nazione, quanto voi potreste suscitarne con una sola parola: Unità... L’Italia cerca Unità. Essa vuole costituirsi nazione una e libera. Dio decretava questa unità quando ci chiudeva tra le Alpi eterne e l’eterno mare. La storia scriveva unità sulle mura di Roma; e il concetto unitario ne usciva così potente che, varcando i limiti della patria, unificava due volte l’Europa... Nel nome dell’unità muoiono da mezzo secolo, col sorriso sul volto, sui patiboli, o con le armi in pugno da Messina a Venezia, da Mantova a Sapri, i nostri migliori. Nel nome dell’unità noi iniziammo e mantenemmo, privi di mezzi ed influenza, e perseguitati, e cento volte sconfitti, tale una crescente agitazione in Italia, da fare della questione italiana una questione europea, e somministrare a voi, Sire, ed ai vostri, il terreno che oggi vi frutta lodi e potenza.

    "L’unità è voto e palpito di tutta Italia. Una patria, una bandiera nazionale, un sol patto, un seggio tra le nazioni d’Europa, Roma a metropoli: è questo il simbolo d’ogni italiano.

    "...Fummo sistematicamente calunniati presso le moltitudini noi che insegnammo ad esse — in nome dell’unità (unità inevitabile, regia, se il Re la facesse) — la virtù della lotta, del sacrificio e del saper morire... ecc.

    "Sire, volete averla? averla splendida davvero di entusiasmo, di fede e di azione? Averla con forze tali da far sì che ogni diplomazia s’arresti impaurita, ogni disegno d’avversi si disperda davanti ad essa? Osate!

    "La prudenza è la virtù dei tempi e delle condizioni normali. L’audacia è il genio dei forti in circostanze difficili. I popoli la seguono, perché vi scorgono indizio di chi non la tradiva nel pericolo. La fede genera fede. Maturi i tempi per un’impresa, nella potenza dell’iniziativa sta il segreto della vittoria...

    "...Sire! l’Italia vi sa prode in campo, e presto, per l’onore, a far getto della vostra vita. Sire! il giorno, in cui sarete presto, per l’unità nazionale a far getto della vostra corona, voi cingerete la corona d’Italia.

    "...L’Italia vi sa prode in campo. Ma, comunque virtù sì fatta rara sia in un Re, l’ultimo tra i vostri volontarî può farne mostra.

    "...L’Italia ha bisogno or di sapervi prode nel consiglio, potente di quella volontà che fa via di ogni ostacolo, forte di quel coraggio morale, che, intraveduto un dovere, un’altra impresa da compiere, ne fa una stella e la segue, intrepido, irremovibile sulla via, senza arrestarsi davanti a lusinga o minaccia. Voi potete, io lo credo, mostrarvi tale, e per questo vi scrivo... Sire... Io credo che viva in voi una scintilla d’amore e d’orgoglio italiano. Ma se è vero, — se ciò che io sentii, leggendo alcune vostre recenti, semplici, spontanee parole di risposta a non so quale adulatrice deputazione, non è illusione di chi desidera, — non avete energia che basti per vivere di vita vostra?

    "...I padri nostri assumevano la dittatura per salvare la patria dalla minaccia dello straniero. Abbiatela, purché siate liberatore.

    "Sire..., io vi chiamo in nome d’Italia a una grande impresa, a una di quelle imprese, nelle quali il forte numera gli amici, non i nemici... La diplomazia è come i fantasmi di mezzanotte, minacciosa, gigante agli occhi di chi paventa, si dissolve in nebbia sottile davanti a chi le move risolutamente all’incontro. Osate, Sire...

    "Dimenticate per poco il Re per non essere che il primo cittadino, il primo apostolo armato della nazione. Siate grande come l’intento, che Dio vi ha posto davanti, sublime come il dovere, audace come la fede. Vogliate e ditelo. Avrete tutti, e noi per primi con voi. Movete innanzi, senza guardare a dritta o a manca, in nome dell’eterna giustizia, in nome dell’eterno diritto, alla santa crociata d’Italia. E vincerete con essa.

    "E allora, Sire, quando di mezzo al plauso d’Europa, all’ebbrezza riconoscente dei vostri, e lieto della lietezza dei milioni, e beato della coscienza d’aver compìto un’opera degna di Dio chiederete alla nazione quale posto ella assegni a chi pose vita e trono, perché essa fosse libera ed una, sia che vogliate trapassare ad eterna fama tra i posteri col nome di preside a vita della repubblica italiana, sia che il pensiero regio dinastico trovi pur luogo nell’anima vostra, Dio e la nazione vi benedicano. Io, repubblicano, e presto a tornare a morire in esilio per serbare intatta fino al sepolcro la fede della mia giovinezza, sclamerò nondimeno coi miei fratelli di patria: Preside o Re, Dio benedica a voi come alla nazione per la quale osaste e vinceste".

    [...]L’Eroe dei due mondi completava la scena colle seguenti emanazioni della sua patriottica eloquenza:

    Proclama del General Garibaldi

    "Ai miei compagni d’armi dell’Italia centrale.

    "La mia assenza provvisoria non deve affatto diminuire l’ardore per la santa causa che noi propugnamo.

    "Nell’allontanarmi da voi, che io amo come i rappresentanti di un’idea sublime, l’idea della rigenerazione italiana, io parto triste e commosso. La certezza di ritrovarmi ben presto in mezzo a voi, per aiutarvi a terminare l’opera che noi abbiamo così bene incominciata, tuttavia mi consola.

    "Per voi, come per me, la più grande sventura sarebbe quella di non essere là ove si combatte per l’Italia. Non lasciate dunque le armi, voi che avete giurato per essa e per il capitano che deve condurvi alla vittoria; restate fermi al vostro posto, esercitatevi e perseverate nella disciplina del soldato.

    "La sospensione non durerà lungo tempo; la diplomazia sembra poco disposta a vedere le cose tali quali esse sono; essa vi attribuisce ancora i dissensi di altri tempi, e non sa che gli elementi d’una grande nazione esistono in voi; che liberi e indipendenti voi potete fare la rivoluzione del mondo, se non si vogliono riconoscere i nostri diritti, e lasciarci padroni in casa nostra.

    "Noi non assaliamo il teritorio estero; che ci si lasci dunque tranquilli sul nostro.

    "Che quelli che vorrebbero impedirlo, intendano che, prima di sottometterci alla schiavitù, si dovrebbe schiacciare colla forza un popolo pronto a morire per la libertà.

    "Ma, quando anche noi fossimo tutti caduti, lasceremmo alle generazioni future quella eredità di odio e di vendetta, nelle quali ci ha allevato la prepotenza straniera. Noi lasceremo per patrimonio ai nostri figli un’arma e la coscienza dei loro diritti, e, per Dio! il sonno di coloro che vogliono opprimerci e tradirci non potrà essere tranquillo.

    "Io vel ripeto, Italiani, non posate le armi. Stringetevi adesso più che mai, attorno ai vostri capi, e osservate la disciplina la più severa.

    Cittadini!

    "Non vi sia Italiano che rifiuti il suo obolo alla sottoscrizione nazionale. Nessun Italiano manchi di preparare un’arma, per ottenere, forse domani, colla forza ciò che si esita di accordarci oggi per giustizia.

    "Genova, il 23 novembre 1859.

    "G. Garibaldi".

    A questo proclama ne teneva dietro un altro [...]; eccolo:

    Proclama di Garibaldi agli studenti di Pavia

    Giovani studenti dell’Università di Pavia,

    "Se nel corso della vita v’è parola gradita al mio cuore e ineffabile, è quella che mi viene da voi in questi giorni. Eletti giovani!... vergine e pura speranza d’Italia, io vi rispondo tutto commosso... vedete!... tutto commosso di gratitudine e di rispetto... come se fossi alla presenza di un areopago ideale di uomini... che formeranno la grandezza avvenire della patria! di questa patria che uomini perversi vogliono nuovamente immergere nel fango, ma che s’incamminerà, malgrado di codesti malvaggi, al compimento dei grandi destini che le ha assegnato la providenza!... sì, alcuni malvaggi... sono quelli che si sforzano di fare ostacolo all’opera magnifica della nostra risurrezione!... e primi fra di essi sono quelli istessi che, nella storia del nostro paese, segnarono a fianco del loro stabilimento, l’abbassamento e i mali inenarrabili d’Italia; quelli stessi che, falsando le massime sublimi di Cristo, alle quali sostituirono la menzogna... hanno patteggiato coi potenti per far schiava l’Italia!... e si sono ridotti al mestiere abbietto di spioni e di ruffiani!... quelli stessi che per isfogare la loro libidine... dettero al mondo lo spettacolo spaventevole dei roghi!... che rinnoverebbero oggi, se il buon senso delle nazioni non li trattenesse;... roghi, ossia, nel loro linguaggio evangelico — auto-da-fé — che vuol dire bruciare vive povere creature innocenti!... coloro che inventarono la tortura, e l’impiegherebbero contro uomini liberi... se lo potessero. Sì, anche oggi!... quelli stessi che, negando al più grande degli Italiani le sue meravigliose e sublimi scoperte, lo trascinarono all’orribile, infame tortura, e procurarono così di rapire all’Italia la maggiore delle sue glorie!... Oh! nel pensare alle torture di Galileo e a quelle di tanti secoli della nostra infelice Italia... ogni uomo nato su questa terra dovrebbe correre colla mano ai sassi delle strade... e vendicare su quei miserabili ipocriti dalla sottana nera i mali, le ingiurie, i patimenti di venti generazioni passate!... e ciononostante codesta razza maledetta siederà domani, protetta, accanto ai rappresentanti più illustri, e domanderà con insolenza la continuazione, la confermazione del potere opprimere qualche milione d’infelici Italiani!... come una calamità, una maledizione... la continuazione di un potere che non si occupa che a corrompere la nazione... che a rubare ai nostri poveri fratelli il loro oro... per gozzovigliare schifosamente e comprare mercenarî stranieri per combattere gli Italiani!... la continuazione di un potere che non ha amici se non tra i nemici d’Italia... e tra coloro che la vogliono dividere, ruinare e assoggettare!... un potere che ha scagliato l’anatema sul popolo e sull’esercito rigeneratorî... sul Re prode e generoso che Dio ha dato agli Italiani come un angelo redentore, e che non può, per il momento... riscattare l’Italia, perché nel centro di quest’Italia vi è il canchero che si chiama il Papato!... l’impostura che si chiama il Papato!...

    "Sì, giovani! voi, nei quali l’Italia spera, voi dovete conoscerne i mali per poterli combattere. E poiché mi avete mandato una parola affettuosa di fiducia, io sento il dovere di indicarveli. Grazie al sovrano guerriero che ci comanda!... grazie alla potente alleata che ci ha sorriso col sangue prezioso de’ suoi valorosi figli [*...]!... Grazie alle simpatie delle nobili nazioni inglesi e svedesi... e di tuttociò che vi ha di generoso in Europa, l’Austria non risorgerà più in Italia, e l’artiglio che ella tiene ancora sulla sventurata Venezia non è più l’artiglio dell’aquila, ma l’unghia del gufo... del gufo cadavere!

    "...Ma un nemico terribile esiste ancora,... il più formidabile,... formidabile... perché è sparso nelle masse ignoranti dove domina colla menzogna; formidabile perché è sacrilegamente coperto del manto della Religione;... formidabile perché vi sorride col sorriso di Satanasso e si striscia come il serpente... quando vuole mordervi!... e questo nemico formidabile... sì formidabile!... o giovani!... è il prete!... eccettuati pochi, sotto qualunque forma si presenti a voi.

    "...Nell’ora del combattimento... io sarò con voi... o giovani! e, siatene certi, sarà quella una grande epoca per l’Italia... Voi appartenete alla generazione dei liberi... e liberatori del vostro paese!... Dio non ha riunito invano tante virtù in un monarca!... tanto valore in una armata!... tanto valore in un popolo... che io ho già veduto combattere degnamente a fianco da’ primi popoli della terra... per abbandonarci all’ignominia della schiavitù... per non riscattarci a quella vita nazionale ridestata in noi con tanta potenza!...

    "Il vostro obolo, deposto nella soscrizione nazionale, è un felice augurio per l’avvenire d’Italia, essa conta, orgogliosa! che il vostro braccio non verrà meno se si deve ritornare sui campi di battaglia.

    "Fino, 24 decembre 1859.

    "G. Garibaldi".

    E in fatti, per allora bisognava rinunziare a nuove gesta, non permettendo il nuovo padrone. Poco stante l’eroe indirizzava ai soliti italiani il seguente:

    "Agli italiani,

    "Chiamato da alcuni amici ad assumere la parte di conciliatore di tutte le frazioni del partito liberale italiano, io fui invitato ad accettare la presidenza di una società, che si doveva chiamare: La nazione armata. Credetti poter essere utile. La grandezza dell’idea mi piacque, — e io accettai.

    "Ma come la nazione italiana armata è un fatto che spaventa tutto ciò che viè di sleale, di corruttore ed insolente, tanto dentro che fuori d’Italia, la folla dei gesuiti moderni si è spaventata e ha gridato: Anatema!

    "Il governo del Re galantuomo è stato importunato dagli allarmisti, e, per non comprometterlo, mi sono deciso ad abbandonare il nostro onorato disegno. Di unanime accordo di tutti gli associati, io dichiaro dunque disciolta la Società della Nazione armata, ed invito ogni Italiano che ami la patria a concorrere alla sottoscrizione per l’acquisto di un milione di fucili.

    "Se con un milione di fucili gli Italiani, in faccia allo straniero, non fossero capaci d’armare un milione di soldati, bisognerebbe disperare dell’umanità! L’Italia si armi, e sarà libera!

    "G. Garibaldi".

    Giunti a questo punto, non possiamo fare a meno di recare qui come una digressione, se non più tosto a modo di corollario, una importantissima pagina della vita dell’insigne Cardinale Pie, Vescovo di Poitiers, desumendola dalla bellissima opera, non ha guari pubblicata, su quel degno successore di S. Ilario (Histoire du Cardinal Pie, Evêque de Poitiers, par M. Baunard, troisième édition. Chapitre XI. — L’égarement moral et politique. — Paris, H. Oudin, 11 rue Bonaparte).

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    Capo VIII. Napoleone III, Monsignor Pie e il potere temporale del Papa

    [...]

    Gli spiriti erano in quel momento più che mai divisi circa la così detta questione italiana. I Cattolici, preoccupati sopra ogni altra cosa degli interessi della Chiesa, vedevano nell’insurrezione d’Italia contro l’Austria lo scatenamento della rivoluzione, che incominciava ad incamminarsi da Torino a Roma a tappe contate; altri più impressionati dal lato politico, salutavano in quel sollevamento la rivendicazione di una nazionalità lungamente oppressa, contro una nazione straniera, l’espulsione della quale segnerebbe per la stessa Chiesa un’era novella di prosperità, d’influenza e di libertà. Tra questi ultimi trovavasi Eugenio Rendu, spintovi dalla sua educazione universitaria e dal circolo ministeriale nel quale viveva. Egli dunque era non solamente uno dei partigiani più convinti della così detta causa italiana, egli n’era l’ausiliare. Da dodici anni in relazione colla scuola cattolica liberale dei Balbo, dei d’Azeglio e dei Capponi, secondo diceva, le prestò il suo concorso con un primo opuscolo intitolato: l’Italia e l’Impero d’Alemagna, e intendeva dimostrare che il santo romano Impero era stato sempre funesto all’Italia, al Papa e alla Chiesa. Il sapiente Vescovo gli dimostrava il contrario finché, quella grande istituzione cristiana e papale ebbe l’intelligenza dell’Orazione Domenicale nelle sue prime tre domande. E tanto peggio per le razze e pei popoli, la politica dei quali ha dimenticato il Pater noster! Il Vescovo concludeva provando che in fondo all’agitazione italiana vi era la rivoluzione: rivoluzione anticristiana armata, non già solo e principalmente contro l’Austria e lo straniero, ma sì e veramente contro l’istessa Italia nei suoi piccoli Stati, specialmente contro quelli del Papa, e finalmente contro la Francia, la quale finirebbe coll’espiare duramente l’errore di codesta connivenza rivoluzionaria, essa il suo governo e il suo Imperatore. "Forse m’ingannerò, conchiudeva; ma se la Francia partecipa a codesta rottura dei trattati, che, sebbene imperfetti, sono l’unica base dell’ordine attuale in Europa, noi pagheremo carissimamente sì fatto errore. Dicendo noi, intendo dire colui che lo commetterebbe".

    Intanto continuava la guerra degli opuscoli: il 4 febbraio 1859 ne veniva fuori uno nuovo e più rumoroso, intitolato l’Imperatore Napoleone III e l’Italia, senza nome di autore. Ispirato dalle Tuilleries, era in gran parte anche questa opera del Rendu. L’opuscolo dava l’interpretazione delle famose parole dell’Imperatore all’Ambasciadore d’Austria, e dei sentimenti del Gabinetto francese verso il Governo pontificio, proponendo una Confederazione degli Stati dell’Italia sotto la Presidenza del Papa e sotto il comando militare del Re di Piemonte. "Un governo di carattere assolutamente clericale è un contro senso, diceva l’opuscolo, una causa attiva di malcontento, un elemento di debolezza, un pericolo veramente di rivoluzione". Il disegno Napoleonico avrebbe rimediato a tutte codeste brutte cose...!

    Questa grave questione divenne il tema di un lungo scambio di lettere. Il Sig. Rendu voleva cambiamento nello stato delle cose, italiane e romane, e si appoggiava "sul nuovo diritto pubblico europeo nato dal protestantesimo, dalla pace di Passau e d’Augsbourg, nato dalla transazione religiosa di Enrico IV, da Richelieu, dalla rivoluzione dell’ottantanove". Egli si appoggiava sul pericolo, anzi sull’impossibilità d’impegnare una lotta contro il mondo moderno. Insisteva sull’impossibilità di rimettere il mondo cristiano sull’asse politico, che lo reggeva prima della pace di Vestfalia, ma particolarmente sui vantaggi che ne verrebbero al Papato, se si mettesse alla testa di un movimento che lo farebbe camminare per vie degne di lui alla conquista delle intelligenze". Parole sonore, ma vuote di senso; poiché il Papato camminò in ogni tempo alla testa di quel movimento provvidenziale che si pronunziò sul Golgota, quando l’Uomo Dio, sollevato sul legno, attrasse il mondo intero ai suoi piedi.

    Alle sue brillanti ragioni il Rendu aggiungeva l’autorità di una lettera eloquentemente ardita che il Padre Lacordaire gli aveva scritto in appoggio al suo primo opuscolo, lettera che divenne pubblica. "Mi rincresce, caro amico, rispondeva Monsignor Pie al Sig. Rendu, mi rincresce di dissentire su questo punto dall’illustre Domenicano; ma, agli occhi miei, l’Italia liberata e messa in possesso di quel genere di libertà che la guerra deve conquistarle, significa: il Papato bandito da Roma, o, ciò che sarebbe peggio ancora, e che è assolutamente inaccettabile, il Papato spogliato dal suo potere temporale. So bene che qualche cattolico di conto e qualche prete rinomato non indietreggiano dinanzi a codesta soluzione estrema, della quale hanno perfino pensato che il Papa dovesse prendere l’iniziativa. Quanto a me, né la mia dignità di cristiano, né la mia anima francese, né la mia intelligenza di essere ragionevole, mi permettono di prestare un solo istante l’orecchio a simile mostruosità, respinta altrettanto assolutamente dall’interesse politico delle nazioni e dei troni che da quello della religione. Per fermo io so che l’Anticristo dovrà venire un giorno e dovrà prevalere. Ma mi guardi Iddio dal figurare un solo istante tra i suoi agenti e precursori! Preghiamo Iddio, caro amico, e preghiamo molto, affinché i disegni misericordiosi del Signore sulla Chiesa e sulla Francia trionfino di tutti gli errori e di tutte le passioni umane. Chiediamo istantemente, che in mezzo all’azione cieca e talvolta perversa delle cause seconde, l’opera santa di Dio si compia". Monsignor Pie era più esplicito con coloro che non si ispiravano se non dai grandi interessi della Chiesa. Parlando all’Abate Morel, redattore dell’Univers, dell’opuscolo: Napoleone III e l’Italia: "Egli è questo l’avvenimento più grave che potesse apparire al principio di quest’anno settantesimo (della rivoluzione del 1789). Non ho cessato di credere davanti a Dio, in un sentimento che mi sembra esente da allucinazione e da fanatismo, che il grande scioglimento non si differirebbe al di là di questo tempo. Lo scuotimento dunque dello Statu-Quo non mi turba punto; ma corrisponde invece a una ferma aspettativa della mia anima di cristiano e di francese". E, facendo sentire il bisogno urgente di preghiera prima e di azione poi, conchiudeva, annunziando che la guerra d’Italia sarebbe il principio della rovina dell’Impero Napoleonico. "La fine prossima di tutto ciò sarà l’umiliazione della politica separata da Dio, il rovesciamento dei due troni che inalberano il principio di tale politica".

    [...]. A quell’epoca molti illustri cattolici illusi dalle false apparenze, dalle bugiarde promesse di Napoleone III e dei suoi ministri, si facevano dolci lusinghe sopra il così detto affrancamento d’Italia e sulla guerra minacciata contro l’Austria; tra questi primeggiava l’istesso Luigi Veuillot redattore in capo dell’Univers. Il Vescovo di Poitiers nelle sue lettere fin dal 1852 procurava di illuminarlo, e ora gli rivolgeva i più aperti ed amichevoli avvertimenti; mentre il pensiero dell’Imperatore circa gli affari d’Italia si precisava, per quanto sapeva farlo, col discorso del 7 febbraio 1859 all’apertura delle Camere. Aveva egli parlato "dello stato d’Italia e della sua situazione anormale, che inquietava la diplomazia". Vi aveva parlato "della comunanza d’interessi della Francia e del Piemonte e dell’amicizia dei due Sovrani cementata col matrimonio del suo diletto cugino colla figlia del Re Vittorio Emanuele"; e aveva conchiuso: "La pace, spero, non sarà turbata" ciò ch’era una ragione di più per aspettarsi la guerra.

    Questo non impediva di divertirsi allegramente alle Tuilleries; era carnevale e vi si recitava la commedia di società; sulla medesima pagina in cui si portava il discorso imperiale, il Vescovo di Poitiers leggeva ne’ giornali di Parigi: "Questa sera alle Tuilleries vi è stata recita, nella galleria di Diana, di una commedia intitolata: Uno schiaffo non è mai perduto". — "Infatti, scrive il Vescovo indegnato, una guancia, che molti ne ha ricevuti, ha or ora ricevuto in Francia uno schiaffo di più. Ed è la guancia adorabile di Gesù Cristo, la guancia della Chiesa, la guancia del Vicario di Dio in terra. Ma tali schiaffi fanno male a quelli che li danno; e non sono senza profitto per colui che li riceve. La mano che ha schiaffeggiato non tarda a disseccarsi; mentre lo schiaffo si cambia in aureola di gloria intorno alla faccia augusta che ne è stata colpita".

    Spaventato dal pericolo che minacciava il Papato, il Vescovo di Poitiers si pose in animo di scongiurarlo. Ma a chi rivolgersi? In Francia in quel momento un solo uomo era tutto, e quest’uomo poteva tutto. Monsignor Pie non esitò e se ne andò a quest’uomo, che altronde pur desiderava vederlo. "L’Imperatore mi ha fatto dire, così confidenzialmente diceva il Vescovo a Monsignor d’Angoulême, che io non andava a vederlo; e ha aggiunto, scriveva così un alto personaggio di Stato, parole benevole che mi metterebbero nel torto se andassi a Parigi senza chiedere udienza. L’opuscolo e il discorso imperiale del 7 febbraio, pronunziato all’apertura delle Camere essendo sopravvenuti di poi, tale udienza mi pesa un poco sul cuore; ma in ogni modo spero trarne qualche vantaggio a pro della verità".

    Infatti in vista di tale profitto consentì egli a fare il passo, di cui parlava in questi termini a suoi preti riuniti: "Penetrato dal sentimento del pericolo della Chiesa e della società, io punto non ho esitato, o Signori, a compiere presso il Capo dello Stato il mio dovere di Vescovo e di cittadino. A diverse riprese ho domandato ed accettato una udienza, che tosto mi è stata concessa. Il nostro apostolato ci ordina di recare la verità dinanzi ai Re come ai semplici particolari: Ut portet nomen meum coram Regibus (act. 9. 15.).

    "Né io ho l’onore di essere S. Ilario, né il Principe dinanzi al quale io mi sono presentato ha la disgrazia d’essere Costanzo. Io ho parlato con rispetto, ma con autorità e indipendenza, e per tal modo ho liberato la mia anima".

    L’udienza domandata fu concessa per il 15 di marzo. Durò un’ora meno cinque minuti, e non ebbe altri testimoni all’infuori dei due interlocutori. Ma, immediatamente all’uscire della visita il Vescovo comunicò tutto il colloquio al suo segretario, signore abate Héline, che subito lo scrisse e che pochi giorni dopo il 22 marzo lo fece conoscere a Roma, dove la sua lettera di mano in mano fece il giro del Sacro Collegio.

    — Monsignore, diceva la lettera, ha avuto martedì un’udienza dall’Imperatore, che ha durato un’ora. Dopo scambiate alcune parole sulle cose locali della città di Poitiers, Sua Maestà ha portato la conversazione sul campo politico, in particolare sugli affari d’Italia. — Sarebbe un disconoscere grandemente le sue intenzioni, ha detto l’Imperatore, se si credesse volere egli altro che bene al Governo pontificio. Suo scopo è invece di rendere quel Governo più popolare, e di mostrare all’Europa che la Francia non ha mantenuto a Roma un esercito di occupazione per consacrarvi abusi. —

    A queste ultime parole il Vescovo di Poitiers si è drizzato ed ha chiesto il permesso di spiegarsi su questo proposito con tutta libertà.

    — "Parli, Monsignore, io desidero conoscere tutto intero il suo modo di sentire.

    — "Giacché Vostra Maestà si degna ascoltare quel che io penso, mi permetterà di stupirmi dello scrupolo, che le fa temere di passare per uno che abbia consacrato degli abusi colla presenza del nostro esercito di occupazione a Roma. Certamente non ignoro, o Sire, che da per tutto si infiltrano degli abusi; e quale è il governo che può lusingarsi di sfuggirvi? Ma ardisco affermare che in niun luogo ne esistono meno che nella città e negli Stati governati dal Papa. Al contrario si compiaccia la Maestà Vostra di rammentare Costantinopoli e la Turchia; paragoni Ella e mi permetta di chiederle che cosa ha fatto là la spedizione nostra gloriosa di Crimea? Non è là, piuttosto che a Roma, che la Francia sarebbe andata a mantenere abusi?".

    Gli occhi dell’Imperatore, d’ordinario a metà chiusi, come è noto, si alzarono un momento sull’audace suo interlocutore. Questi continuò:

    — "Ah! Sire, quando si ricorda che per undici secoli la politica dell’Europa cristiana fu di combattere il Turco, come non provare stupore vedendo il Sovrano di un paese cattolico farsi sostegno della potenza ottomana, e andare con grandi sacrifizî a sostenere la sua indipendenza! Ora non sono io nel vero se dico essere quello un vero assicurare abusi? Giacché al postutto chi proteggiamo noi?... Havvi a Costantinopoli un uomo o piuttosto un essere che non voglio qualificare, che mangia in una mangiatoia di oro duecento milioni prelevati sui sudori dei Cristiani. Egli li mangia colle sue ottocento mogli legittime! colle sue trentasei sultane e colle sue settecentocinquanta femmine da Harem, senza contare i favoriti, i generi e le loro femmine! E per perpetuare e consolidare un tale stato di cose siamo andati noi in Oriente! Per assicurarne la integrità noi abbiamo speso due miliardi, sessantotto ufficiali superiori, trecentocinquanta giovani, il fiore delle nostre grandi famiglie, e duecentomila Francesi! Dopo di ciò siamo noi in buon punto per parlare degli abusi della Roma Pontificale?".

    Durante questo discorso, l’Imperatore torceva i suoi lunghi baffi, e il Vescovo notava che li tirava più in giù a mano a mano che la questione diveniva più bruciante. Monsignor Pie proseguiva:

    — "Mi scusi, Sire, ma a codesto Turco, non solamente noi abbiamo detto: — Continua pure a rotolarti come per lo passato nel tuo fango secolare; noi ti garantiamo i tuoi godimenti, noi non tollereremo che si tocchi il tuo Impero... Ma no, abbiamo aggiunto di più: — Gran Sultano, fino ad ora il Sovrano di Roma, il Papa, avea presieduto ai consigli dell’Europa. Ebbene! Noi avremo un consiglio europeo; il Papa non vi sarà; ma tu ci verrai, tu che giammai ci eri venuto. Non solamente tu vi sarai, ma noi faremo dinanzi a te il caso di coscienza di quel vegliardo assente, e ti daremo il gusto di vederci sciorinare e sottomettere al tuo giudizio i pretesi abusi del suo Governo!... — In verità, Sire, non è egli questo quel che si è fatto? E dopo simiglianti tolleranze, per non dir nulla di più, si è egli in dritto di allegare scrupoli, che ci sarebbero venuti intorno agli abusi di un Governo, che è senza dubbio il più dolce, il più paterno, il più economico dei governi di Europa?...".

    L’Imperatore, vedendo l’animazione del Vescovo, si era avvicinato a lui a poco a poco. Egli ascoltava avidamente passandosi la mano sulla fronte. Poi stornando il tema della conversazione, disse:

    — "Ma finalmente, Monsignore, non ho dato io bastanti prove di buon volere a pro della Religione? La stessa Ristaurazione ha ella fatto più di me?".

    Il Vescovo si vedeva portato sulla sua grande tesi, quella dei rapporti necessarî della religione, dei governi e del regno di Gesù Cristo nella società. Egli tosto rispose:

    — "Mi affretto di rendere giustizia alle religiose disposizioni di Vostra Maestà, e so riconoscere, Sire, i servigî da lei resi a Roma e alla Chiesa, particolarmente nei primi anni del suo governo. La Ristaurazione forse non ha fatto più di lei. Ma mi lasci aggiungere che né la Ristaurazione, né Vostra Maestà hanno fatto per Iddio quel che bisognava fare; perché né l’una, né l’altra ha rinnegato i principî della rivoluzione, di cui ella pur combatte le conseguenze pratiche; perché l’evangelo sociale di cui s’ispira lo Stato è sempre la dichiarazione dei diritti dell’uomo, la quale non è altra cosa, Sire, se non la negazione formale dei diritti di Dio. Ora è diritto di Dio il comandare agli Stati come agli individui; Gesù Cristo Signor Nostro non è venuto per altra ragione sulla terra. Egli deve regnarvi ispirando le leggi, santificando i costumi, illuminando l’insegnamento, dirigendo i consigli, regolando le azioni dei governi e dei governati. Dovunque Gesù Cristo non esercita il suo regno vi ha disordine e decadenza...

    "Ora io ho il dovere di dirle che egli non regna tra noi, e che la nostra costituzione è ben lungi dall’essere quella di uno Stato cristiano e cattolico. Il nostro diritto pubblico stabilisce certamente che la Religione cattolica è la religione della maggior parte dei francesi; ma aggiunge che gli altri culti hanno diritto a una eguale protezione: non è egli questo equivalente al proclamare che la costituzione protegge egualmente la verità e l’errore? Ebbene! Sire, sapete voi, che cosa risponde Gesù Cristo ai governi che si rendono colpevoli di tale contradizione? Gesù Cristo, Re del Cielo e della terra risponde loro: "E anch’io, o Governi, che vi succedete rovesciandovi l’un l’altro, anch’io vi accordo un’uguale protezione. Ho accordato questa protezione all’Imperatore vostro zio; ho accordato questa stessa protezione ai Borboni, la stessa protezione a Luigi Filippo, la stessa protezione alla Repubblica: ed anche a voi la stessa protezione sarà accordata...".

    L’Imperatore interruppe qui il Vescovo: — "Ma pure, credete voi che l’epoca in cui viviamo comporti questo stato di cose, e che sia giunto il momento di stabilire questo regno esclusivamente religioso che mi domandate? Non pensate, Monsignore, che sarebbe egli questo uno scatenare tutte le cattive passioni?

    — "Sire, quando grandi politici, come Vostra Maestà, mi obbiettano che il momento non è giunto per Gesù Cristo di regnare non ho che da chinare la testa, perché io non sono un gran politico ma sono un Vescovo, e come Vescovo rispondo loro: — Il momento non è venuto per Gesù Cristo di regnare; ebbene, allora nemmeno è giunto il tempo pei governi di durare". —

    [...].

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    Capo IX. Il Trattato di Zurigo e l’opuscolo "Le Pape et le Congrès"

    Il trattato di Zurigo era parso cosa così poco seria all’istesso Napoleone III, che, non era ancora asciugato l’inchiostro delle eccelse firme, e già proponeva la solita panacea di un Congresso per ricomporre le scompigliatissime cose d’Italia.

    Il Moniteur del 30 novembre 1859 toglieva ogni incertezza su tale proposito colle seguenti secche parole: "Le comunicazioni aventi per iscopo di promuovere la riunione di un Congresso sono state spedite oggi alle diverse Potenze che debbono prendervi parte".

    Ma questa nota, che così decisamente annunziava il Congresso, rimaneva senza eco, e il Congresso stesso, moriva prima di nascere. Napoleone, dopo acconciate alla meglio a Zurigo, sulla carta, le cose italiane, pensava di coglere con un colpo due colombi, e nel Congresso intendeva far sanzionare a tutti i Potentati, che avevano preso parte ai trattati di Vienna, il nuovo ordine di cose inaugurato colla guerra lombarda, e con ciò stesso ferire a morte se non distruggere affatto i medesimi trattati. I Potentati però colsero a volo il pensiero del Bonaparte; e poiché questa volta l’Inghilterra non poteva più essere cogli alleati del Congresso di Parigi pel danno che le ne sarebbe venuto, il nuovo Congresso, quale una bolla di sapone, svanì, rimanendo la triste realtà del deplorevole stato della infelice Italia.

    Intanto gl’intendimenti del Bonaparte venivano fatti palesi da un opuscolo politico, uscito dalla penna del Laguerronière intitolato: Le Pape et le Congrès, opuscolo che, sparso dappertutto a miriadi di copie in tutte le lingue, divenne famosissimo, sia perché fu come il programma delle future gesta della rivoluzione italiana, sia perché ne svelò sempre più il disegno di guerra al Papato e alle sacre ragioni della Chiesa. Infatti per delibarne alcuna cosa ne raccoglieremo qui i principali concetti, dai quali doveva non guari dopo sbocciare fuori il nuovo frutto dell’albero di perdizione per il resto d’Italia. Ognuno altronde rammenta come fosse tuttora l’opuscolo in mano di tutti quando le Marche furono invase dall’esercito regolare piemontese, poiché l’opera delle bande garibaldesche non ebbe approdato a nulla di fronte all’antipatia delle popolazioni e alla fedeltà delle milizie pontificie.

    Nota dominante in tutto l’opuscolo è la più sopraffina ipocrisia; è impossibile di raccogliere più sofismi, più contraddizioni, più assurdità in così poche pagine, e dettarle con maggiore sicumera e confidenza, quasi che il mondo intero fosse composto di esseri senza testa e senza cuore. — L’autore principia col dirsi cattolico, poi si mette a censurare il Papa e la Chiesa; ha per primo editore il Times, massimo dei giornali protestanti inglesi, e raccoglie in Francia e dappertutto gli applausi universali del giornalismo rivoluzionario e settario.

    Proclama poi il potere temporale del Papa indispensabile; ma vuole provarlo impossibile. Esalta il divino carattere del Pontefice; ma solo per ferire il potere del sovrano. "Questo potere non è possibile, dice, se non a patto che sia disgiunto da tutte le condizioni ordinarie del potere, cioè da tutto quello che costituisce la sua attività, il suo svolgimento, il suo progresso". Deve dunque esistere; ma senza le condizioni ordinarie dell’esistenza! — Prima di tutto il potere pontificio deve essere senza esercito: e mentre i Potentati di Europa, distrutta la forza del diritto, hanno bisogno di milioni di soldati per far valere il diritto della forza, si negano al Papa poche migliaia di uomini di buona volontà, raccolti non già per vivere, ma solo per difendersi da chi vuol togliergli quella vita di cui è pieno, mentre che manca agli altri Potentati, che appunto per vivere han bisogno di milioni di forzati al mestiere delle armi.

    "Il potere temporale del Papa, dice, è possibile, solo quando sia senza attività e senza progresso; deve vivere senza magistratura..., e, per così dire, senza codici e senza giustizia... perché sotto un tale Governo i dommi sono leggi". Come se i dommi del Cattolicesimo vietassero di avere leggi, codici, giustizia, e non ne fossero invece la più vera e solida base.

    "Da volere a non volere, aggiunge, le sue leggi saranno incatenate dai dommi, la sua attività infrenata dalla tradizione, il suo patriottismo sarà condannato dalla sua fede" [...].

    "Sarà necessario, continua, a cagione dei dommi che si rassegni all’immobilità". Ma la immobilità dei dommi, come dei principî, non è forse sorgente perenne d’infinite svariatissime conseguenze altrettanto più legittime ed utili per l’umano consorzio quanto più saldi e immutabili sono gli stessi principî? Da solo due principî morali non parte forse tutto intero l’organismo, l’ordine, l’attività, la sicurezza, la forza della società? Non sono forse dommi sociali altamente proclamati dal Papa e dalla Chiesa, come da ogni altra autorità proveniente da Dio, gli inesorabili neminem laedere et suum cuique tribuere, e il quod tibi non vis fieri, alteri ne feceris; che se si fosse più cristiani, aggiungeremmo ancora il caro e divino filioli mei, diligite alterutrum; non sono queste altrettante condizioni, sine quibus non, di una vera, civile e stabile società?

    "Non potrà, insiste l’opuscolo, approfittare delle scoperte scientifiche, dei progressi dello spirito umano; non potrà perché le sue leggi saranno vincolate dai dommi". Ma non fu riconosciuto da ogni uomo di mente perfino dai più perversi rivoluzionarî ed empî, da un Voltaire, per esempio, che "l’Europa deve alla Santa Sede il suo incivilimento, una parte delle sue migliori leggi, e pressoché tutte le arti e le scienze?".

    "In ogni modo, soggiunge, la sua attività sarà infrenata dalla tradizione". E quale tradizione del Cattolicesimo infrenò mai una onesta attività? Certamente, nel Cristianesimo e nella Chiesa v’è una antichissima tradizione che nel commercio e nell’industria, come in ogni altro rapporto umano, vuole rispettate le leggi della giustizia; ma non è ciò tutto a vantaggio dell’industria e del commercio, e utilissimo per il loro tranquillo svolgimento e progresso?

    "Il Pontefice, afferma, è legato dai principî d’ordine divino cui non può rinunziare; il Principe è sollecitato dai principî d’ordine sociale che non può respingere". E quando mai l’ordine sociale e l’ordine divino furono incompatibili? La società non fu creata da Dio? L’ordine sociale non fu voluto da Dio? E questa incompatibilità è scoperta solo dopo 18 secoli di cristiano incivilimento? Strana contraddizione! Rousseau, non meno empio, ma più franco dei presenti corifei della rivoluzione, non esitò di dire: "Che importano le contraddizioni in questi sciagurati secoli, in cui l’universale spossamento degli spiriti permette appena che le contraddizioni trovino un contraddittore?". Dopo di ciò anch’egli prima del libellista imperiale sentenziava: un popolo cristiano essere incapace di progresso.

    Fa poi un addebito al Papato di essere un’autorità che regna in nome di Dio; ma non sta scritto nei santi libri: Per me Reges regnant? Certo, non vi troverete la peregrina aggiunta fatta dalla setta trionfante "e per volontà della nazione". La nazione, la società esistono solo per la grazia di Dio, per la grazia di Dio soltanto, e non per alcuna altra grazia o volere regna chi regna.

    Sentita, ma non confessata dal libellista, l’assurdità dei suoi principî, si affretta di mettere innanzi i mezzi da raggiungere il suo intendimento; e, mentre la rivoluzione viene spinta a far presto il fatto suo e a rovesciare ogni cosa nella povera Italia, invoca con fronte di bronzo l’autorità dei fatti compiuti.

    "La Romagna, dice egli, è separata di fatto, da alcuni mesi in qua, dall’autorità del Papa. Quindi questa separazione ha per sé l’autorità del fatto compiuto". — "Noi conoscevamo la violenza del fatto compiuto, esclama qui il Vescovo d’Orleans, che trionfalmente confutava l’opuscolo, ma, fino al dì d’oggi almeno, non ne conoscevamo l’autorità. L’autorità, questa grande e santa cosa, che è fondata sul diritto, su tutti i diritti, che è il diritto stesso, ecco che cosa ne fate!... Ecco ciò che le date a fondamento ed a base agli occhi di tutta Europa... Dopo che il vostro spirito è disceso fino a questo punto... voi osate indirizzare ad un Congresso Europeo la domanda di consacrare siffatte enormità, dicendogli che il suo compito sarà facile, che avrà solo da registrare... da registrare un fatto compiuto! Così pochi mesi bastano in Europa perché una ribellione si cangi in diritto, intorno al quale nulla havvi da ridire".

    Dopo di ciò, burlandosi della materiale debolezza del Papa, il valoroso libellista, proclama l’onnipotenza del Congresso. Ma se ha ogni potere, perché chi lo compone ha per sé la forza, non ha per ciò tutti i diritti: chi è potente, può ben commettere iniquità, ma non senza infamia. "Voi riconoscete, nota l’eloquente Vescovo, che la ribellione della Romagna è una rivolta contro il diritto; dunque il fatto compiuto è ingiusto. Ebbene, un fatto ingiusto si può subire da chi è onnipotente come il Congresso; ma questo non può registrarlo senza disonorarsi". Lo scrittore invoca la storia e la geografia, e dice che, il territorio della Chiesa non è indivisibile. "E quale è mai sulla terra il territorio che non sia divisibile colla forza, con la ribellione sancita da un Congresso? Havvi una nazionalità, una sovranità, una proprietà qualsiasi, un campo, fosse pure quello di Naboth, che sia indivisibile di sua natura?... E non è forse perché la Polonia non è indivisibile di sua natura che fu divisa, chiede il Vescovo di Orleans?" [...].

    Quanto allo scopo del Congresso, il libellista principia coll’Ave Rabbi! di Giuda. "Dapprima, dice egli, vorremmo che il Congresso riconoscesse come un principio dell’ordine europeo la necessità del potere temporale del Papa; per noi è questo il punto capitale". Ma come se avesse pronunziato una enormezza da attirarsi l’anatema dei framassoni, si affretta subito di aggiungere: "Quanto alla possessione territoriale, la città di Roma ne riassume principalmente l’importanza; il rimanente (nota bene) non è che secondario". Quindi è chiaro, che, non solo le Romagne, ma tutto il rimanente Stato Pontificio erano preda designata della Rivoluzione. La sovranità temporale della Santa Sede, era dunque a priori ridotta a Roma e al suburbio! Perché poi nessuno avesse a prendere abbaglio, continua a dire: "A che servono per la grandezza del Sommo Pontefice le leghe quadrate?... Ha forse bisogno dello spazio per essere amato e rispettato? Più il territorio sarà piccolo, più il Sovrano sarà grande" [...].

    Aggiungendo poi la derisione al danno, dice che il Papa, posto così immobile sulla sua pietra sacra, bisognerà pur vegliare alla sua difesa. Esclusa ogni idea di esercito proprio, bisogna almeno dargli delle guardie affinché sia libero; e il libellista gli assegna subito una eletta di milizie italiane. Per levargli poi il peso e l’incomodo del governo dell’istessa Roma vuole che "una libertà municipale, larga quanto è possibile, liberi il Governo Pontificio da tutti i particolari dell’amministrazione". Così il Comune governerà, il Papa regnerà, e il Piemonte gli legherà le mani; come appunto diceva Voltaire: "Prima di spogliare il Papa e metterlo sotto interdetto, bisogna baciargli i piedi, e legargli le mani".

    A coronamento di questo bell’edificio, il Papa sarà salariato dall’Europa, come i curati di uno Stato; avrà un pingue assegnamento, e trasformato nel primo e grande impiegato del culto europeo in balia di tutta l’Europa settaria, gli si negherà il trimestre al primo incontro, non appena avrà pronunziato il primo non possumus.

    Il libellista, con sonore parole, aveva detto nelle sue pagine: "Dal punto di vista religioso, egli è essenziale che il Papa sia Sovrano; dal punto di vista politico è necessario che il capo di duecento milioni di Cattolici non appartenga a nessuno, che non sia sottomesso a nessuna Potenza, e che la mano augusta che governa le anime, non essendo legata da dipendenza alcuna, possa levarsi al di sopra di tutte le passioni umane. Se il Papa non fosse sovrano indipendente, sarebbe Francese, Austriaco, Spagnuolo o Italiano, ed il titolo di sua nazionalità gli toglierebbe il carattere del suo Pontificato universale. La Santa Sede non sarebbe più altro che l’appoggio d’un trono a Parigi, a Vienna, a Madrid... Importa all’Inghilterra, alla Russia, alla Prussia, come alla Francia e all’Austria, che l’augusto rappresentante dell’unità del Cattolicismo non sia né costretto, né umiliato, né subordinato". E per evitare queste tre brutte cose, il libellista, chiude il Papa nella Città Leonina; lo fa custodire da milizie liberali; dà il Governo di Roma a un Municipio, ed ecco il Papa Sovrano indipendente, e la mano augusta che governa le anime non legata da dipendenza alcuna, levata al di sopra di tutte le passioni umane!...

    Dal deridere il Papa, il libellista passa a burlarsi del Popolo Romano. Fa di Roma una città a parte, una specie di monastero, e dei Romani un popolo di monaci, e dice: "Un popolo sequestrato da tutti gli interessi e da tutte le passioni che agitano gli altri; popolo unicamente devoto alla gloria di Dio, e non avente altra parte per sé, che la contemplazione, le arti, il culto delle grandi reminescenze e la preghiera; un popolo in riposo ed in raccoglimento in una specie d’oasi, ove le passioni e gli interessi della politica non si accosteranno, e che non avrà che le soavi e calme immagini del mondo spirituale; ciascuno di quegli uomini avendo sempre l’onore di dirsi cittadino romano: civis romanus".

    [...].

    Ma lo scopo di questo stoltissimo disegno non era altro che quello di mettere il Papa e i Romani in uno stato di impossibile esistenza, e in una specie di necessità di darsi in braccio quando che sia e da per se stessi al loro implacabile nemico, la rivoluzione.

    "Ecco adunque quel che volete fare!, conchiudeva il Vescovo di Orleans la sua stupenda risposta allo sciagurato opuscolo. Perché nol diceste subito e senza perifrasi?... Siamo certi che siffatto sistema non avrà buon successo nell’imminente Consiglio di Europa; principalmente quando questo Consiglio si tiene a Parigi, e la Francia cattolica e vittoriosa è chiamata all’onore della presidenza. No, la Francia nol vorrà! Non vorrà che sia detto che, per giungere a simile risultamento, essa incontrò i pericoli di una grande guerra, vinse quattro grandi battaglie, sacrificò 50 mila uomini, spese 300 milioni di franchi, scosse sui suoi cardini tutta Europa!... Basta, il vostro scopo è conosciuto; esso è degno dell’enormezza dei vostri principî e della iniquità dei vostri mezzi. Distruggere d’un colpo solo il potere pontificale sarebbe stato un misfatto cui il mondo, non avvezzo, avrebbe ripugnato; strappare il Papa da Roma non può tentarsi una seconda volta; proclamarlo incapace di governare nelle provincie sopprimendo il suo potere, e capace di governare in Roma disonorandolo, è un’invenzione troppo goffa per contendere il primato a chi inventò il modo di arrivare allo scopo medesimo a poco a poco, con passo di formica, ma sicuramente! Ella è questa la stessa politica del 1809, con la sola differenza, che allora il Papa veniva strappato violentemente da Roma, mentre che adesso s’intenderebbe soffocarvelo. Sarebbe una commedia se non fosse un’atrocità... Noi arrochiamo a provar loro che il Papa deve essere libero, indipendente, sovrano: ed essi vi rispondono di sì, e ne fanno una specie d’idolo sordo, muto, incatenato, immobile sulla sua pietra sacra nel centro dell’antica Roma... Empio modo d’interpretare il tu es Petrus et super hanc petram... ma, badate! fu detto eziandio che chi urterà contro questa pietra sarà sfracellato: super quem ceciderat, conteretur!".

    Le ultime parole della risposta del Vescovo di Orleans nel 1860 suonano una predizione, e noi vogliamo citarle a verbo, a salutare lezione dei popoli e dei governanti: "Noi ci arrochiamo a provare Roma, l’Italia, l’Europa non poter stare senza il Papa; e dessi ci rispondono: siamo con voi, e custodiremo così bene il Papa a Roma nel centro dell’Italia e dell’Europa sì che non ci possa più sfuggire; lo abbracceremo sì strettamente che nessuno possa dubitare della nostra tenerezza e della sua forza. Ma v’ha una piccola difficoltà, ed è che i disegni meglio concepiti contro Dio riescono a male. Dio dall’alto dei cieli veglia sulla sua Chiesa, e con imprevisti consigli, con colpi di tuono, se fia necessario, come dice Bossuet, la franca da maggiori pericoli, beffandosi dei sapienti della terra. Illumina quando gli piace la sapienza umana, tanto meschina da sé sola! e quando essa s’allontana da Lui, l’abbandona alla sua ignoranza, l’acceca, la precipita, la confonde, ed essa si avviluppa nelle sue sottigliezze, e le sue precauzioni divengono un laccio per essa. Il tempo della pruova finisce, e la Chiesa dura sempre. Ciò fu veduto, e si vedrà di nuovo. Credete il Papa vinto, perché da tre mesi altri eccitò la ribellione nelle sue provincie; ma i vostri pensieri sono bassi, le vostre precauzioni, permettete che lo dica, sono villane. Noi non ci arrendiamo così presto: i Papi ne hanno vedute altre assai, ed essi durano sempre. Credete il Papa rovinato perché i rivoluzionarî, dopo aver fatto aumentare tutti i pubblici pesi, dichiarano le sue finanze in cattivo stato; e voi gli offrite una pensione a titolo d’alimenti?... Ma no, non la riceverà dalle vostre mani, un giorno gli rinfaccereste il beneficio, o vel fareste pagare troppo caro. Una limosina?... Ah! se il Padre de’ fedeli ne avesse bisogno, la riceverebbe più nobilmente dalla mano dei poveri che non da voi. Cinquecento Vescovi che in tutto il mondo innalzarono la loro voce, saprebbero ancora raccogliere, in caso di bisogno, l’antico denaro di S. Pietro, e il mondo somministrerebbe soldati se fosse necessario".

    Mentre in Francia il Vescovo di Orleans dettava tali parole sullo insensato opuscolo, il Giornale di Roma del 30 decembre 1859, lo stimmatizzava colla seguente nota:

    "È uscito recentemente alla luce un opuscolo anonimo, stampato a Parigi pei tipi Didot, ed intitolato: le Pape et le Congrès. Quest’opuscolo è un vero omaggio reso alla rivoluzione, un’insidia tesa a que’ deboli, i quali mancano di giusto criterio per ben conoscere il veleno che nasconde, ed un soggetto di dolore per tutti i buoni Cattolici. Gli argomenti che si contengono nello scritto, sono una riproduzione di errori ed insulti già tante volte vomitati contro la S. Sede, e tante volte confutati trionfalmente, qualunque sia del resto la pervicacia degli ostinati contradittori della verità. Se per avventura lo scopo propostosi dall’autore dell’opuscolo tendesse ad intimidire colui contro il quale si minacciano tanti disastri, può l’autore stesso esser certo che chi ha in favor suo il diritto ed interamente si appoggia sulle basi solide ed incrollabili della giustizia, e sopratutto è sostenuto dalla protezione del Re dei Re, non ha certamente di che temere dalle insidie degli uomini". Così il Giornale di Roma.

    Giungeva frattanto il primo giorno dell’infaustissimo anno 1860, e tra il malessere e l’agitazione universale in che si trovava Roma pei miserabili effetti del trattato di Zurigo, e per opera degli agitatori subalpini e transalpini, il Generale Conte di Goyon, aiutante di campo di S. M. l’Imperatore Napoleone III, comandante in capo l’esercito francese di occupazione in Roma, con quella pomposa franchezza tutta sua propria, si presentava solennemente al S. Padre coi suoi ufficiali per le solite felicitazioni, e gli diceva:

    "Santissimo Padre, veniamo un’altra volta, e sempre premurosamente, a’ piedi del Vostro duplice trono di Pontefice e di Re, per recare alla Santità Vostra, in occasione del nuovo anno, la nuova assicurazione del nostro profondo rispetto e della nostra devozione. Durante l’anno che è trascorso, grandi avvenimenti sono succeduti. Qui per ordine del nostro valoroso Imperatore, e come luminoso attestato del suo religioso rispetto per Vostra Santità, noi non abbiamo potuto prender parte ai campi dell’onore e della gloria. Noi non abbiamo dovuto, non abbiamo potuto consolarci, che ricordando ognora come qui, presso di Voi, presso la Vostra Santità, e per servirla, noi ci trovavamo sul campo d’onore del Cattolicesimo. Tali sono, Santissimo Padre, i sentimenti dei miei buoni e bravi subordinati, dei quali io mi glorio di essere il felice interprete. Vogliate accoglierli con quella bontà costante colla quale la Santità Vostra si degnò sempre di onorarci".

    A queste pompose parole, Sua Santità rispondeva così:

    "Se in ogni anno furono cari al nostro cuore i voti e i buoni auguri che voi, signor Generale, ci avete presentato a nome dei bravi uffiziali e dell’armata che sì degnamente comandate, in quest’anno ci sono grati doppiamente per gli avvenimenti eccezionali che si sono succeduti, e perché ci assicurate che la divisione francese, la quale trovasi negli Stati Pontificî, vi si trova per la difesa dei diritti della Cattolicità. Che Iddio dunque benedica voi, questa parte e con essa tutta l’armata francese; benedica del pari tutte le clasi di quella generosa Nazione. E, qui prostrandoci ai piedi di quel Dio che fu, è, e sarà in eterno, lo preghiamo nella umiltà del nostro cuore a voler far discendere copiose le sue grazie e i suoi lumi sul capo augusto di quella armata e di quella Nazione, affinché colla scorta di questi lumi possa camminare sicuro nel suo difficile sentiero, e riconoscere ancora la falsità di certi principî, che sono comparsi in questi stessi giorni in un opuscolo, che può definirsi un monumento insigne d’ipocrisia ed un ignobile quadro di contraddizioni. Speriamo che con l’aiuto di questi lumi: no, diremo meglio, siamo persuasi che con l’aiuto di questi lumi egli condannerà i principî contenuti in quell’opuscolo, e tanto più ce ne convinciamo, in quanto che possediamo alcuni documenti, che tempo addietro la M. S. ebbe la bontà di farci avere, i quali sono una vera condanna dei nominati principî. Ed è con questa convinzione che imploriamo da Dio che sparga le sue benedizioni sopra l’Imperatore, sopra l’augusta sua compagna, sul Principe imperiale e su tutta la Francia".

    Le parole del S. Padre giunsero in Francia quale un colpo di fulmine. I giornali semi-officiali erano tuttora occupati a dimostrare la niuna autorità della nota pubblicata dal Giornale di Roma del 30 dicembre sopra l’opuscolo Le Pape et le Congrès; quando videro comparire sul medesimo Giornale di Roma del 3 gennaio, il testo ufficiale della risposta del S. Padre al Generale di Goyon, definendo per lo appunto il famoso opuscolo: un’insigne monumento d’ipocrisia, e un ignobile quadro di contraddizioni.

    A tale inaspettata pubblicazione il grave Moniteur si credette in dovere di entrare in linea al posto dei giornali semi-officiali colla seguente nota:

    "Riproduciamo dal Giornale di Roma del 3 di questo mese una allocuzione fatta nel primo dell’anno dal S. Padre in risposta alle felicitazioni offertegli dal Generale conte di Goyon, comandante supremo della Divisione francese negli Stati Pontificî, alla testa degli uffiziali di quella divisione. Questa allocuzione non sarebbe forse stata pronunziata, se Sua Santità avesse già ricevuto la lettera che S. M. l’Imperatore le indirizzò il 31 dicembre". E, dato quindi il testo dell’allocuzione surriferita, recava la seguente:

    Lettera di Napoleone III a Pio IX

    suoi intendimenti intorno al proposto congresso.

    "Beatissimo Padre,

    "La lettera che Vostra Santità si compiacque scrivermi il 2 dicembre mi toccò vivamente, e risponderò con intera franchezza all’appello fatto alla mia lealtà. Una delle mie più vive preoccupazioni, durante e dopo la guerra, è stata la condizione degli Stati della Chiesa, e, certo, fra le potenti ragioni che m’impegnarono a fare sì prontamente la pace, bisogna annoverare il timore di vedere la rivoluzione prendere tutti i giorni più grande svolgimento. I fatti hanno una logica inesorabile, e nonostante la mia devozione alla Santa Sede, io non poteva sfuggire a una certa solidarietà cogli effetti del movimento nazionale eccitato in Italia dalla lotta contro l’Austria. Conclusa una volta la pace, io mi affrettai di scrivere a V. S. per sottometterle le idee più atte, secondo me, a produrre la pacificazione delle Romagne; e credo ancora che, se fin d’allora V. S. avesse consentito ad una separazione amministrativa di quelle provincie e alla nomina di un governatore laico, esse sarebbero tornate sotto la sua autorità. Sventuratamente ciò non avvenne, e io mi son trovato impotente ad arrestare lo stabilimento del nuovo governo. I miei sforzi non hanno potuto che impedire all’insurrezione di estendersi, e la dimissione del Garibaldi ha preservato le Marche d’Ancona da una invasione certa.

    "Ora il Congresso è per adunarsi. Le Potenze non potrebbero disconoscere gl’incontrastabili diritti della Santa Sede sulle Legazioni; nondimeno è probabile che esse saranno d’avviso di non ricorrere alla violenza per sottometterle. Poiché se questa sottomissione si ottenesse coll’aiuto di forze straniere, bisognerebbe ancora occupare le Legazioni per lungo tempo militarmente. Questa occupazione, manterrebbe gli odî e i rancori di una grande parte del popolo italiano, come la gelosia delle grandi Potenze; sarebbe dunque un perpetuare uno stato d’irritazione, di malessere e di timore. Che resta dunque da fare, poiché finalmente questa incertezza non può durare sempre? Dopo un serio esame delle difficoltà e de’ pericoli che le diverse combinazioni presentavano, lo dico con sincero rammarico, e per quanto sia penosa la soluzione, quello che mi parrebbe più conforme ai veri interessi della Santa Sede, sarebbe di fare il sagrifizio delle provincie ribellate. Se il S. Padre, per il riposo dell’Europa, rinunziasse a quelle provincie, che da cinquanta anni suscitano tanti impacci al suo Governo, e se in cambio domandasse alle Potenze di guarentirgli il possesso del resto, io non dubito dell’immediato ritorno dell’ordine. Allora il S. Padre assicurerebbe all’Italia riconoscente la pace per lunghi anni, e alla S. Sede il pacifico possesso degli Stati della Chiesa.

    "Vostra Santità, mi piace crederlo, farà giusta ragione dei sentimenti che mi animano; comprenderà la difficoltà del mio stato; interpreterà con benevolenza la franchezza del mio linguaggio, ricordandosi di tutto ciò che ho fatto per la Religione Cattolica e per il suo Augusto Capo. Io ho espresso senza riserva tutto il mio pensiero, e l’ho creduto necessario avanti il Congresso. Ma prego Vostra Santità, qualunque siasi la Sua decisione, di credere che essa non muterà in nulla la linea di condotta che ho sempre tenuta verso di Lei. Ringraziando V. S. dell’Apostolica Benedizione che ha mandata all’Imperatrice, al Principe Imperiale e a me, io le rinnovo la protesta della mia profonda venerazione.

    "Di Vostra Santità

    "Palazzo delle Tuileries, 31 decembre 1859.

    "Vostro figlio devoto

    "Napoleone".

    Come ognun vede la lettera imperiale non è che la conferma dei principî e dei disegni svolti nell’opuscolo Le Pape et le Congrès. [...]. Notiamo soltanto che, mentre il Moniteur pubblicava la lettera imperiale al S. Padre, l’imperiale autore della medesima rinnovava a Parigi le solite assicurazioni di rispetto ai diritti riconosciuti, di consolidamento della pace, ecc. ecc., e il primo dell’anno 1860 al Nunzio Pontificio che, alla testa del Corpo diplomatico, gli presentava le felicitazioni dei potenti amici, rispondeva così:

    "Ringrazio il Corpo diplomatico dei voti che m’indirizza al principio del nuovo anno, e sono specialmente felice questa volta di aver l’occasione di ricordare ai suoi rappresentanti che, dal mio avvenimento al potere, ho sempre professato il più profondo rispetto ai diritti riconosciuti. E così, ne siano persuasi, lo scopo costante dei miei sforzi sarà di ristabilire dovunque, per quanto dipenderà da me, la fiducia e la pace" [...].

    Era la solita politica di altalena seguita in tutto il corso del suo regno da Napoleone III. Per isbrigarsi da ulteriori responsabilità circa le cose d’Italia, aveva messo fuori il disegno d’un nuovo Congresso; ma poiché si fu convinto che difficilmente i Potentati europei avrebbero dato a sangue freddo e meditatamente la loro sanzione autorevole alle ribalderie gallo-sarde, così non trovò nulla di meglio che di lasciare abortire il proprio disegno, e di compromettere le Potenze, le quali adunandosi in Congresso, dopo la pubblicazione dell’opuscolo, riconosciuto ormai officialmente quale sua ispirazione, lo avrebbero in certa guisa accettato quale programma del Congresso stesso; dal che sarebbe risultato più o meno intero il riconoscimento officiale di tutta Europa del mostruoso fatto compiuto in Italia. Ciò essendo impossibile, il Congresso fallì. Quindi è che, mentre la lettera imperiale testé riferita assicurava che il Congresso vi sarebbe, tutti i giornali al soldo della rivoluzione presero invece a provare che non vi sarebbe, e parvero non occupati d’altro che di scuoprire le ragioni per le quali il Congresso non si doveva più raunare. Anzi, invece del Congresso, prevedevano una nuova guerra, alla quale peraltro l’Austria, secondo assicurava il Times, non voleva prender parte, e quell’importantissimo fra i giornali inglesi narrava, come avendo la Francia chiesto all’Inghilterra un trattato scritto, con cui questa si obbligasse a difendere colle armi la Francia e la Sardegna contro una coalizione possibile delle Potenze del Nord, l’Inghilterra, che poca voglia sempre ha avuto di spendere per altri più che le sue simpatie, specialmente quando le sorti di una causa appariscono incerte, se la cavò interrogando l’Austria se, dato il caso di una violazione del recente trattato di Zurigo, essa si sarebbe intesa pronta ad opporvisi colle armi; al che l’Austria rispose, si sarebbe contentata di protestare!... La Gazzetta di Vienna dichiarò che l’Austria non aveva nulla risposto di questo, perché di nulla era stata interrogata; ma il Times sapeva quel che diceva, e i fatti successivi pur troppo gli diedero ragione. Il Trattato di Zurigo era violato nel momento istesso che si conchiudeva; fu interamente lacerato e calpestato, in modo affatto nuovo nella storia, pochi mesi dopo: e l’Austria non si mosse, e solo si contentò di protestare come aveva detto il Times!...

    L’attitudine delle Potenze misteriosamente fiacca e codarda, tolse ogni limite alla baldanza dei settarî italiani, e al Conte di Cavour non sembrò più impossibile di gettar loro in faccia la seguente Nota, diretta ai rappresentanti sardi presso le Potenze estere, in quello che riprendeva il Ministero degli Esteri, solo per breve ora e per mera commedia da esso lasciato dopo la pace di Villafranca.

    Nota del Conte di cavour mentre viola il Trattato di Zurigo

    "Signore,

    "Credo conveniente di esporvi brevemente le nuove condizioni in cui l’Italia si trova collocata, ora che la fiducia del Re mi chiama alla direzione degli affari esteri. Le grandi Potenze dell’Europa, riconoscendo la necessità di mettere un termine allo stato incerto e provvisorio delle Provincie dell’Italia centrale, avevano acconsentito, due mesi fa, alla riunione di un Congresso, che si proponeva di deliberare sui mezzi più adatti a fondare la pacificazione e la prosperità dell’Italia su basi solide e durevoli. Il Congresso, che il Governo del Re non aveva cessato di reclamare come il solo mezzo di ovviare ai pericoli del momento, era stato accettato con fiducia dalle popolazioni dell’Italia centrale. Esse speravano che i voti da loro manifestati in una maniera così formale per la loro annessione agli Stati del Re, sarebbero stati presi in considerazione ed approvati dai plenipotenziarî dei principali Stati di Europa. In questa fiducia, le popolazioni dell’Italia centrale ed i loro governi si disponevano ad aspettare tranquilli e ordinati, il giudizio del Congresso, limitandosi ad aumentare e a disciplinare le loro forze, affine di essere in grado di far fronte agli avvenimenti.

    "Ora, in seguito a difficoltà, che io qui non debbo esaminare, il Congresso è stato rinviato ad un’epoca indeterminata, e si ha ciascun giorno più ragione di credere che non si riunirà mai. Mancato una volta il Congresso, tutte le difficoltà, che si trattava di risolvere con questo mezzo, si presentano con carattere di gravità e di urgenza ben più pronunziato che prima. Una impazienza ardente, ma legittima, una determinazione irrevocabile di procedere nella via cominciata, successero, nel centro dell’Italia, alla calma ed alle speranze dell’aspettare. Questi sentimenti che sarebbero già abbastanza giustificati dalla posizione singolare, in cui l’Italia si trova posta da lungo tempo, divennero ancora più profondi e più generali dopo gli ultimi avvenimenti che ebebro luogo in questi ultimi giorni. Infatti, la proroga del Congresso è stata preceduta dalla pubblicazione dell’opuscolo avente per titolo: Il Papa ed il Congresso. Io non mi fermerò ad esaminare l’origine e la portata di questa pubblicazione. Mi limito a constatare che l’opinione pubblica in Europa gli ha dato il carattere e l’importanza di un grande avvenimento. La pubblicazione di questo opuscolo fu seguìta dappresso dalla lettera dell’Imperatore dei Francesi al Papa.

    "Nello stesso tempo l’Europa apprende che l’alleanza anglo-francese, che si credeva scossa dopo la pace di Villafranca, era divenuta più solida e più intima; e questo accordo, constatato primieramente dall’esito felice di importanti negoziati commerciali, lo diventa ora in un modo ben più solenne col discorso di apertura del Parlamento inglese, e colle parole di Lord Palmerston, che, rispondendo al signor Disraeli, dichiarò officialmente che l’accordo più cordiale regna tra l’Inghilterra e la Francia rispetto alla questione italiana. La prorogazione del Congresso, la pubblicazione dell’opuscolo, la lettera al Papa, il ravvicinamento tra la Francia e l’Inghilterra, questi quattro fatti, di cui il minimo sarebbe bastato per precipitare la soluzione delle questioni precedenti, hanno reso una più lunga aspettazione impossibile. Ampiamente commentati dalla stampa dell’Europa essi terminarono di convincere tutti gli spiriti serî: 1°, che bisogna rinunziare all’idea di una ristaurazione, che non sarebbe più possibile a Bologna e a Parma che non a Firenze e a Modena; 2°, che la sola soluzione possibile consiste nell’annessione legale dell’unione già stabilita in fatto nell’Emilia come in Toscana; 3°, che finalmente le popolazioni italiane, dopo aver atteso lungamente ed invano che l’Europa ponesse assetto ai loro affari sulla base dei principî del non intervento e del rispetto dei voti popolari, hanno il dovere di passar oltre e di provvedere da sé stesse al loro governo.

    "Tal’è il significato attribuito in Italia ai fatti che io ho testè enunciati, e tal è pure, ciò che costituisce un altro fatto non meno grave, l’interpretazione che ad essi è stata data dagli organi i più accreditati della stampa europea. I giornali influenti della Francia, della Inghilterra e dell’Alemagna si rendono interpreti delle stesse idee, danno gli stessi consigli, ed esprimono le stesse convinzioni.

    "In presenza di un simile stato di cose le popolazioni dell’Italia centrale sono determinate di giungere ad una soluzione, ed a cogliere la propizia occasione per dare all’annessione un’esecuzione completa e definitiva. Gli è dunque con questo intendimento che i Governi delle dette provincie hanno adottato la legge elettorale del nostro paese e dispongonsi a procedere alle elezioni dei deputati. Il Governo del Re ha fatto uso sino a questo giorno, di tutta l’influenza morale, di cui esso poteva disporre per consigliare ai Governi ed alle popolazioni dell’Italia centrale d’attendere il giudizio dell’Europa. Ora, nell’incertezza della riunione del Congresso ed in presenza dei fatti summenzionati, il Governo di Sua Maestà non è più in potere d’arrestare il corso naturale e necessario degli avvenimenti. — Questo dispaccio non ha altro scopo che quello di constatare l’attuale condizione delle cose in Italia. A suo tempo io v’informerò delle determinazioni che saranno conseguentemente prese. Vi basti di sapere sin d’ora, che il Governo del Re sente tutta la responsabilità che gl’incombe in questi solenni momenti, e che le sue decisioni non saranno inspirate che dalla coscienza del dovere, dagl’interessi della patria italiana e dal sincero desiderio d’assicurare la pacificazione dell’Europa.

    "Gradite, signore, le nuove assicurazioni della mia distintissima considerazione.

    "Torino, 27 gennaio 1860.

    " C. di Cavour".

    Mentre le Potenze europee subivano in silenzio l’oltraggio di un simile documento, e licenziavano la rivoluzione ad ogni altra più ardita impresa a’ danni degli Stati amici d’Italia e d’ogni più legittimo diritto, solo il Papa, abbandonato ormai da tutti, e con gli scorridori sardi alle porte di Roma (non punto spaventati dalla bandiera francese) sollevava la voce a stimmatizzare i fatti scellerati compiuti, e ad avvertire gl’istupiditi Potentati europei del gran pericolo che minacciava essi stessi, permettendo, anzi facendosi essi complici delle incredibili violenze della setta. A tale intendimento Pio IX pubblicava una gravissima Enciclica, che rispondeva ad un tempo alla surrecata lettera di Napoleone al Papa e, implicitamente, alla nuova Nota cavourresca; essa è d’importanza capitale, come quella che, non solo era intesa a tutelare le sacre ragioni della Chiesa, ma sì ancora quelle degli altri Stati Italiani, non meno che d’ogni altro governo regolare e legittimo. Prima però di questo documento, è d’uopo recare l’altra Allocuzione pontificia nel Concistoro del 26 settembre, della quale, come di quella del 20 giugno, è fatta menzione nel medesimo.

    Allocuzione tenuta dalla Santità di Nostro Signore Pio, per divina Provvidenza Papa IX nel Concistoro segreto dei 26 Settembre 1859

    "Venerabili Fratelli.

    "Con grandissimo dolore dell’animo nostro, Venerabili Fratelli, nell’Allocuzione tenutavi il giorno venti del passato mese di Giugno abbiamo lamentato tutto ciò che dai nemici di questa Sede Apostolica si è commesso in Bologna, Ravenna ed altrove contro il civile e legittimo principato nostro e della medesima S. Sede. Inoltre in quella stessa Allocuzione abbiamo dichiarato che essi tutti sono incorsi nelle censure ecclesiastiche e nelle pene inflitte dai sacri canoni, e che tutti i loro atti sono irriti e nulli. E ci confortava la speranza che questi ribelli nostri figliuoli, eccitati e commossi da queste nostre voci, sarebbero tornati al dovere, specialmente essendo a tutti noto quanto sia sempre stata la nostra mansuetudine e dolcezza, fin dal principio del nostro Pontificato, e con quanta alacrità e studio, fra le gravissime difficoltà dei tempi, non abbiamo mai lasciato di adoperare ogni nostra cura e ogni nostro pensiero a promuovere anche la temporale utilità e tranquillità dei nostri popoli. Ma questa nostra speranza andò pienamente fallita. Giacché essi, confortati specialmente da consigli, istigazioni e ogni sorta di aiuti forastieri, e fatti perciò più audaci, ogni cosa tentarono a fine di perturbare tutte le provincie dell’Emilia soggette alla nostra dominazione, e separarle dal principato di questa S. Sede. Quindi in quelle stesse provincie, innalzato il vessillo della ribellione e della defezione, e abolito il Governo Pontificio, in prima si stabilirono Dittatori del Regno Subalpino, i quali poi furono chiamati Commissarî straordinarî, e dopo Governatori generali, i quali arrogandosi temerariamente i diritti del supremo nostro Principato, rimossero dai pubblici ufficî coloro che, per la loro specchiata fede verso il legittimo Principe, sospettavansi a non consentire coi loro pravi consigli. Non dubitarono poi essi medesimi d’invadere ancora la potestà ecclesiastica, avendo pubblicate nuove leggi sopra gli spedali, gli orfanotrofî ed altri luoghi e istituti pii. Né temettero di vessare ancora alcuni ecclesiastici e di espellerli, ed anche gettarli in carcere. Mossi poi apertissimamente dall’odio verso quest’Apostolica Sede, ardirono di riunirsi in Bologna, il giorno sei di questo mese, in assemblea, da loro detta nazionale, dei popoli dell’Emilia, ed in essa promulgare un decreto pieno di false accuse e falsi pretesti, in cui, mendacemente asserendo l’unanimità dei popoli contro i diritti della Chiesa, dichiararono di non voler più oltre sottostare, al Governo Pontificio. E nel giorno seguente dichiararono parimente, siccome ora è la moda, di volersi unire ai dominî e alla obbedienza del Re di Sardegna.

    "Contemporaneamente a questi lamentevoli ardimenti, non lasciano i capi di questa fazione di impiegare ogni loro arte nel corrompere i costumi del popolo, col mezzo specialmente dei libri e dei giornali stampati in Bologna ed altrove, coi quali si favorisce la universale licenza, e il Vicario di Cristo in terra si lacera d’ingiurie, e gli esercizi di pietà e di religione si pongono in ludibrio, e si deridono le preghiere dirette ad onorare l’immacolata e santissima Madre di Dio Vergine Maria, e ad invocarne il potentissimo patrocinio. Negli spettacoli teatrali poi si offende l’onestà dei costumi, il pudore e la virtù, e le persone sacre si espongono al pubblico disprezzo ed alla comune derisione.

    "E queste cose si fanno da coloro che si dicono cattolici, e cultori e veneratori della suprema spirituale potestà ed autorità del Romano Pontefice. Ognuno vede quanto sia fallace questa loro dichiarazione; giacché essi, così adoperando, cospirano con tutti coloro che guerreggiano crudamente il Romano Pontefice e la Chiesa Cattolica e fanno ogni sforzo perché, se fosse possibile, la nostra religione e la sua salutare dottrina sia svelta e sradicata dall’animo di tutti.

    "Per le quali cose, voi specialmente, Venerabili Fratelli, che siete partecipi delle nostre fatiche e molestie, ben facilmente intendete in qual dolore Noi siamo immersi, e di quale lutto e indegnazione siamo compresi insieme con voi e con tutti i buoni.

    "Ma in mezzo a tanto dolore ci consoliamo col sapere che la massima parte dei popoli dell’Emilia, dolente di simili macchinazioni e sommamente abborrente da chi le commette, si conservi in fede del suo legittimo Principe e costantemente aderisca al civile principato Nostro e di questa Sede, e che l’universo Clero delle stesse provincie, degno certamente di somme lodi, nulla abbia avuto tanto a cuore, quanto di compiere diligentemente il suo dovere in mezzo a tanto moto e tumulto di cose, e di apertamente mostrare quanto sia fedele ed ossequente verso di Noi e questa Apostolica Sede, sprezzando e non curando ogni benché durissimo pericolo.

    "E dovendo Noi, pel dovere del nostro gravissimo ufficio e per l’obbligo di solenne giuramento, propugnare intrepidamente la causa della nostra santissima Religione, e fortemente difendere i diritti ed i possessi della Chiesa Romana da ogni violazione, e costantemente sostenere il Principato di questa Apostolica Sede, e trasmetterlo intero a’ nostri successori come Patrimonio di S. Pietro, non possiamo non innalzare di nuovo l’Apostolica Nostra voce, affinché tutto il mondo cattolico specialmente, ed in prima tutti i venerabili fratelli nostri Vescovi, da’ quali, tra le grandissime nostre angustie, ricevemmo, con somma consolazione dell’animo nostro, tante esimie ed illustri testimonianze della loro fede, sollecitudine ed amore verso Noi, questa S. Sede ed il Patrimonio di S. Pietro, conoscano quanto altamente da Noi si condanni quanto osarono commettere costoro nelle provincie dell’Emilia soggette al pontificio Nostro dominio. Pertanto, in quest’amplissimo vostro consesso, nuovamente riproviamo e dichiariamo irriti e nulli gli atti dei ribelli già commemorati e tutti gli altri, comunque essi si chiamino, commessi contro la potestà e l’immunità ecclesiastica, e la suprema Nostra e di questa S. Sede civile dominazione, principato, potestà e giurisdizione.

    "Niuno poi ignora che tutti coloro, i quali nelle predette provincie diedero ai detti atti la loro opera, consiglio, od assenso, od in qualunque altro modo lo favorirono, sono caduti nelle censure e pene ecclesiastiche, le quali, nella predetta Nostra Allocuzione, abbiamo rammentare.

    "Del resto, Venerabili Fratelli, ricorriamo con fiducia al trono della grazia per ottenere l’aiuto divino e la fortezza in circostanze sì aspre: né lasciamo di umilmente e caldamente pregare e supplicare, con assidue e fervorose preghiere, Dio ricco di misericordia, perché, coll’onnipotente sua virtù riduca a migliori consigli e alle vie della giustizia, della Religione e della salute tutti gli erranti, dei quali alcuni forse, miseramente ingannati, non sanno quello che si fanno".

    [...].

    E ora riportiamo la gravissima Enciclica, noi accennata più sopra, con la quale la s. m. del Pontefice Pio IX condannava gli atti tutti empiamente iniqui compiti fino allora dalla rivoluzione anticristiana d’Italia.

    Enciclica Pontificia

    che condanna le usurpazioni piemontesi

    "Venerabili Fratelli, salute ed Apostolica Benedizione.

    "Noi non possiamo certamente esprimervi a parole, o Venerabili Fratelli, quanto gaudio e quanta letizia, fra le nostre gravissime amarezze, ci abbia arrecato per parte di Voi tutti e sì dei fedeli commessi alle vostre cure la singolare e meravigliosa fede, pietà ed osservanza inverso di Noi e di questa Sede Apostolica, e l’egregio consentimento, l’alacrità, il fervore e la costanza nel difendere i diritti della medesima Sede e nel patrocinare la causa della giustizia. Imperciocché come prima dalle Nostre lettere encicliche a voi spedite nel dì 18 giugno dell’anno scorso, e quindi dalle due Nostre Allocuzioni concistoriali, con sommo dolore del vostro animo, conosceste i gravissimi mali, onde erano miseramente colpite le cose sacre e civili in Italia; e come prima comprendeste gl’iniqui moti e ardimenti di ribellione contro i legittimi Principi della stessa Italia, e contro il sacro e legittimo principato Nostro e di questa Santa Sede; Voi secondando tosto i Nostri voti e le Nostre cure, non frapponendo verun indugio, vi affrettaste con ogni studio ad ordinare nelle vostre diocesi pubbliche preghiere. Quindi non solo colle vostre lettere, piene di profondo ossequio e carità a Noi inviate; ma ancora, sia colle epistole pastorali, sia con altre scritture dotte e religiose, diffuse nel popolo, alzaste l’episcopale vostra voce, con lode insigne del vostro Ordine e del vostro nome, a propugnare strenuamente la causa della santissima nostra Religione e della giustizia, e a detestare con ogni vigore i sacrileghi attentati commessi contro il civile principato della Chiesa Romana. E, difendendo costantemente questo principato, vi siete recato a gloria di professare ed insegnare che esso, per singolare consiglio di quella divina Provvidenza, che regge e governa ogni cosa, fu dato al Romano Pontefice, acciocché questi, col non essere mai soggetto a nessun potere civile, possa esercitare sopra l’universo mondo, con libertà pienissima e senza niun impedimento, il supremo ufficio dell’Apostolico Ministero, a Lui dallo stesso Signor Nostro Gesù Cristo divinamente affidato.

    "Dalle quali vostre dottrine ammaestrati, e dall’egregio esempio eccitati, i figliuoli a Noi carissimi della Chiesa Cattolica, con sommo studio gareggiano di significarci per parte loro i medesimi sentimenti. Conciosiacché da tutte le regioni dell’intero orbe cattolico ricevemmo quasi innumerevoli lettere sì di ecclesiastici e sì di laici d’ogni dignità, ordine, grado e condizione, e perfino lettere sottoscritte da centinaia di migliaia di Cattolici, colle quali tutte essi manifestano e confermano la loro venerazione e figliale devozione verso di Noi e verso la Cattedra di Pietro, e, detestando fortemente la ribellione e gli attentati commessi in alcune nostre provincie, sostengono che il patrimonio del Beato Pietro debba onninamente conservarsi intero ed inviolato, e difendersi da ogni offesa; e ciò non pochi tra loro dimostrarono con dottrina e sapienza in libri appositamente dati alla luce. Ora queste preclare manifestazioni sì vostre, e sì dei Fedeli, meritevoli certamente di ogni lode ed encomio, e degne che vengano iscritte nei fasti della Chiesa Cattolica a caratteri d’oro, talmente ci commossero, che non ci potemmo astenere dallo sclamare lietamente: Benedetto sia Dio e il Padre del Signor Nostro Gesù Cristo, Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione, che così ci consola in sì aspro travaglio. Imperocché in mezzo alle gravissime angustie, dalle quali veniamo oppressi, nulla poteva riuscirci più grato, nulla più giocondo, nulla più desiderato, che il vedere di qual concorde ed ammirabile premura voi tutti, o Venerabili Fratelli, siete animati ed accesi per difendere i diritti di questa Santa Sede, e con quale egregia volontà i Fedeli consegnati alle vostre cure in ciò vi secondano. Quindi Voi assai agevolmente potete da per voi stessi pensare quanto altamente la paterna Nostra benevolenza verso di Voi e verso gli stessi Cattolici ognidì di buon dritto e meritatamente si accresca.

    "Senonché, mentre il nostro dolore veniva alleggerito da un così stupendo impegno ed amore sì vostro e sì dei Fedeli verso di Noi e di questa Santa Sede, una nuova cagione di tristezza ci venne da altra parte. Il perché noi vi scriviamo queste lettere, affinché in cosa di tanta importanza siano principalmente a Voi di bel nuovo manifestissimi i sentimenti del Nostro animo. Non ha guari, siccome la più parte di Voi già conoscerà, venne dal giornale di Parigi intitolato Moniteur, divulgata una lettera dell’Imperatore dei Francesi, colla quale egli rispondeva a una Nostra epistola, in cui con ogni calore pregavamo la Maestà Sua Imperiale a volere col validissimo suo patrocinio nel Congresso di Parigi mantenere intero ed inviolabile il temporale dominio Nostro e di questa Santa Sede, e rivendicarlo dalla iniqua ribellione. Or nell’anzidetta sua risposta quel supremo Imperatore, ricordando certo suo consiglio propostoci poco tempo innanzi intorno alle provincie ribelli del nostro dominio pontificio, Ci esorta a voler rinunziare al possedimento di quelle provincie, sembrando a lui che solo così possa ora rimediarsi al presente perturbamento delle cose.

    "Ciascuno di Voi, Venerabili Fratelli, intende benissimo che Noi, memori del gravissimo nostro dovere, non abbiamo potuto tacere dopo ricevuta una tale lettera. Perciò senza frapporre dimora ci affrettammo a rispondere allo stesso Imperatore, dichiarando limpidamente e apertamente con Apostolica libertà dell’animo Nostro, che in nessun modo affatto Noi potevamo annuire al suo consiglio: perché esso presenta insuperabili difficoltà, avuta ragione della dignità Nostra e di questa Santa Sede, e del Nostro sacro carattere e dei diritti della Santa Sede, i quali non appartengono alla successione di qualche reale famiglia ma bensì a tutti i Cattolici; ed insieme abbiamo professato non potersi da Noi cedere ciò che non è Nostro, e bene da Noi intendersi che la vittoria, che si vorrebbe concessa ai ribelli nell’Emilia, sarebbe di stimolo agl’indigeni ed ai forestieri perturbatori delle altre provincie a fare il medesimo, vedendo la prospera fortuna toccata a quei primi. E fra le altre cose al medesimo Imperatore manifestammo non poter Noi rinunziare alle dette provincie dell’Emilia, appartenenti al Nostro pontificio dominio, senza violare i solenni giuramenti dai quali siamo legati, senza eccitare querele e moti nelle altre nostre provincie, senza recare ingiuria a tutti i Cattolici; in fine senza debilitare i diritti non solo dei Principi d’Italia, che furono ingiustamente spogliati dei loro dominî, ma ancora di tutti i Principi del mondo cristiano, i quali non potrebbero con indifferenza vedere introdotti certi perniciosissimi principî. Né abbiamo tralasciato di notare, che la Maestà Sua non ignorava per quali uomini, con quale pecunia, e con quali aiuti i recenti attentati di rivolture a Bologna, a Ravenna ed in altre città erano stati eccitati e compiuti; mentre la massima parte di quei popoli quasi attonita si rimase dal partecipare a quegli scompigli inaspettati, e si mostrò del tutto aliena dal volerli seguire. E poiché il Serenissimo Imperatore credeva che Noi dovessimo cedere quelle provincie pei moti di ribellione ivi di quando in quando suscitati, abbiamo risposto a tal proposito: questo argomento, siccome quello che prova troppo, non provar nulla. Imperocché moti non dissimili sì negli Stati d’Europa e sì altrove accaddero spessissimo; e niuno è che non vegga, non potersi da ciò ritrarre motivo di diminuire il civile dominio di un legittimo Principe. E non abbiamo omesso di esporre al medesimo Imperatore che dalla ultima sua lettera era molto diversa la prima, scritta a Noi avanti la guerra d’Italia e che ci recava non afflizione, ma consolazione. Avendo poi giudicato, per certe parole di codesta lettera imperiale, pubblicata nella mentovata effemeride, di dover temere che le predette Nostre provincie dell’Emilia già s’avessero a riguardare come staccate dal pontificio Nostro dominio; perciò abbiamo pregato, in nome della Chiesa, la Maestà Sua, di fare in modo, anche pel suo proprio bene e vantaggio, che tale nostro timore fosse pienamente dileguato. E con quella paterna carità, con cui dobbiamo provvedere alla eterna salute di tutti, gli abbiamo richiamato alla mente, che da ciascuno si dovrà un giorno dare stretta ragione di sé al tribunale di Cristo, ed incontrare giudizio severissimo; e perciò dover ciascuno attesamente studiarsi di aver a provare gli effetti della misericordia anziché della giustizia.

    "Queste sono le cose precipue che fra le altre abbiamo risposte al supremo Imperatore dei Francesi; le quali abbiamo giudicato di dover al tutto manifestare a Voi, o Venerabili Fratelli, affinché voi in prima, ed anche tutto l’Orbe Cattolico viemmeglio sappia che Noi, aiutandoci Dio, pel gravissimo debito dell’uffizio nostro, senza timore veruno facciamo ogni sforzo, e non tralasciamo verun tentativo per difendere fortemente la causa della religione e della giustizia, ed il civile principato della Chiesa Romana; e mantenere costantemente intere ed inviolate le sue possessioni temporali e i suoi diritti, i quali interessano tutto l’Orbe Cattolico; e provvedere altresì alla giusta degli altri Principi. Ed avvalorati dal divino aiuto di Colui che disse: Nel mondo sarete angustiati; ma abbiate fidanza, io ho vinto il mondo (Io: c. XVI V. 33); e beati quei che soffrono persecuzione per la giustizia (Matth: c. V, V. 10); siamo preparati a seguire le illustri vestigia de’ nostri Predecessori, ad emularne gli esempî, e patire ogni cosa aspra ed acerba, ed anche a dare la vita, anziché disertare in alcun modo la causa di Dio, della Chiesa e della giustizia. Ma ben di leggieri potete argomentare, Venrabili Fratelli, da quanto dolore siamo trafitti, vedendo da quale atrocissima guerra la santissima nostra Religione, con grandissimo detrimento delle anime, è combattuta, e da quali tribuni veementissimi è conquassata la Chiesa e questa Santa Sede. E facilmente ancora comprendete come gravissima sia la nostra angoscia, ben sapendo quanto è grande il pericolo delle anime in quelle sconvolte Nostre provincie; dove, per opera specialmente di pestiferi scritti diffusi nel pubblico, la pietà, la Religione, la fede e l’onestà dei costumi di giorno in giorno vengono scrollate.

    "Voi dunque, Venerabili Fratelli, i quali siete chiamati a parte della Nostra sollecitudine, e che con tanta fede, costanza e virtù vi accendeste a propugnare la causa della Religione, della Chiesa e di questa Sede Apostolica, continuate con maggior animo e impegno a difendere la medesima causa, ed ogni giorno infiammate viemmaggiormente i Fedeli commessi alle vostre cure, acciocché essi sotto il vostro indirizzo non cessino mai di porre ogni opera ed ogni studio ed ogni consiglio per la difesa della Cattolica Chiesa e di questa Santa Sede, e per la conservazione del civile principato della medesima e del patrimonio del Beato Pietro, la tutela del quale appartiene a tutti i Cattolici.

    "Quello però che massimamente, quanto sappiamo e possiamo, chiediamo da Voi, o Venerabili Fratelli, si è che insieme con Noi e unitamente ai Fedeli commessi alle vostre cure, porgiate senza intermissione fervidissime preghiere a Dio Ottimo Massimo, acciocché Egli comandi ai venti ed al mare, e col Suo potentissimo aiuto assista a Noi, assista alla sua Chiesa, e sorga e giudichi la causa Sua; ed oltreciò colla celeste sua grazia voglia, propizio, illuminare tutti i nemici della Chiesa e di questa Apostolica Sede, e colla onnipotente Sua virtù si degni di ridurli nelle vie della verità, della giustizia e della salute.

    "Ed acciocché Iddio, supplicato da Noi, più facilmente porga l’orecchio alle preghiere Nostre e Vostre e di tutti i Fedeli, domandiamo sopra tutto, o Venerabili Fratelli, l’intercessione dell’Immacolata e Santissima Madre di Dio, Maria Vergine, la quale è di tutti noi amantissima madre e speranza fidissima, e potente tutela e sostegno della Chiesa, e del cui patrocinio niente è più valido presso Dio. Imploriamo altresì il suffragio del beatissimo Pietro, Principe degli Apostoli, che Cristo Signor nostro stabilì qual pietra fondamentale della sua Chiesa, contro cui le porte dell’Inferno non potranno mai prevalere; e chiediamo ancora il suffragio del suo coapostolo Paolo e di tutti i Santi che con Cristo regnano in Cielo. Non dubitiamo, Venerabili Fratelli, che Voi, atteso la vostra esimia religione e zelo sacerdotale, in che siete sommamente prestanti, vorrete secondare solertissimamente questi Nostri voti e queste Nostre richieste. E frattanto, come pegno dell’ardentissima Nostra carità verso Voi, impartiamo amantissimamente l’Apostolica Benedizione; la quale muove dall’intimo del Nostro cuore, sì a Voi, o Venerabili Fratelli, come a tutto il Clero, ed ai Fedeli laici commessi alla vigilanza di ciascun di Voi.

    "Dato in Roma, presso S. Pietro, il dì 19 Gennaio 1860.

    "Del Nostro Pontificato, Anno Decimoquarto".

    [...].

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    Comunicato n. 123/05 del 17 dicembre 2005, San Lazzaro



    Il bicentenario mazziniano (1805-2005)


    Mazzini aveva chiaro quello che voleva: l¹unità della penisola, come primo passo verso l¹unità d¹Europa, fino all¹unità del mondo intero in una bella Repubblica universale. Mazzini non è stato solo il teorico dell'italianità e di certo europeismo apolide, ma anche di quello che oggi si chiama mondialismo.


    Tra le altre sciagure, ci tocca anche il bicentenario mazziniano. Dei quattro padri della patria, Mazzini è quello più imbarazzante. Sicuramente era con Cavour il più intelligente, di gran lunga era anche il più colto (non era difficile superare in classifica Vittorio e Garibaldi), ed è stato a tutti gli effetti il vero ideologo di tutto l'ambaradan risorgimentale.
    A lui si deve in realtà l¹invenzione dell¹Italia unita nella forma che ha assunto. Cavour, come tutti i patrioti della prima generazione aveva in mente un Regno dell¹Italia superiore. Garibaldi aveva poche idee e molto confuse, a Vittorio andava bene tutto, anche il trono di Bulgaria se qualcuno gliel¹avesse procurato. Famiglia duttile quella dei Savoia: suo nipote farà il re di Albania senza fare un plissé.
    Mazzini invece aveva fin troppo chiaro quello che voleva: l¹unità della penisola, come primo passo verso l¹unità d¹Europa, fino all¹unità del mondo intero in una bella Repubblica universale. Mazzini non è stato solo il teorico dell'italianità e di certo europeismo apolide, ma anche di quello che oggi si chiama mondialismo. Voleva un mondo in cui ³sparirà dalla favella degli uomini la parola straniero e l¹uomo saluterà l¹uomo, da qualunque parte gli si muoverà incontro, col dolce nome di fratello². Come Agnoletto, come McDonald¹s.
    Nato a Genova nel 1804, studente in Legge, il Mazzini si scopre fin da giovanissimo repubblicano e rivoluzionario, aderisce alla Carboneria fra il 1827 e il 1829, e alla Massoneria, nella quale farà una discreta carriera: il Supremo Consiglio di Palermo gli accorda il 33 grado, il 3 giugno 1868 è proclamato Venerabile Perpetuo della loggia Lincoln di Lodi. Il 24 luglio 1868 viene nominato membro onorario della loggia La Stella d¹Italia di Genova e il 1 ottobre 1870 della loggia La Ragione. Con Pike, è stato uno dei fondatori del New and Reformed Palladian Rite, centro di quel Palladismo da molti associato al ³culto di Satana Lucifero, considerato come l¹Angelo della Luce, il Dio umano e benefico².
    È membro del Comitato rivoluzionario Internazionale di Londra (guidato da Henry John Temple, terzo visconte di Palmerston, ministro della regina Vittoria), l¹organismo che sta dietro a tutte le macchinazioni internazionali dell¹epoca, a complotti, guerre e rivoluzioni che hanno per obiettivo la distruzione di ogni struttura tradizionale e, in particolare, della Chiesa cattolica. Mazzini è un instancabile fondatore di associazioni: nel 1831 costituisce la Giovane Italia, nel 1834 fonda in Svizzera la Giovine Europa. Nel 1867 costituisce l¹Alleanza repubblicana universale, con sede a New York.
    Il suo impegno satanista non gli impedisce di rivolgersi a Pio IX. Nel 1847 gli scrive: ³Crediamo che Dio è Dio e che l¹Umanità è il suo Profeta²; nel 1865 gli ribadisce sicuro: ³Noi crediamo in Dio, Intelletto e Amore, Signore ed Educatore² e ³Noi fonderemo un governo unico in Europa, che distruggerà l¹assurdo divorzio fra il potere spirituale e il temporale². Idee che gli guadagnano il soprannome di ³Secondo Maometto². Inventa slogan di successo come ³Dio, Patria e Famiglia² e ³Dio e popolo², che avranno tanto successo nell¹Italia fascista e antifascista. Allo stesso modo la sigla ³Giovane Italia² andrà bene per i giovani missini e per Stefania Craxi.
    Mazzini è il vero inventore dell¹Italia unita, è lui che organizza il mito dell¹unità e che dà dignità storica all¹invenzione risorgimentale. È lui che ordisce tutte le macchinazioni e i complotti da cui la vicenda risorgimentale comincia e trae energia. È straordinario come i suoi imbrogli abbiano avuto successo nonostante la sua totale incapacità organizzativa, i suoi catastrofici errori di valutazione e la sua fin troppo evidente applicazione della regola dell¹ ³armiamoci e partite!².
    Comincia organizzando una fantozziana rivolta in Savoia (con a capo il funesto Girolamo Ramorino) e a Genova (con il solitario debutto di Garibaldi sulla scena patriottica): lui se ne sta al sicuro in Svizzera in compagnia di una graziosa vedovella lombarda, Giuditta Bellerio Sidoli (da cui avrà un figlio che entrambi abbandoneranno). Alla frontiera di Annemasse sviene sentendo un colpo di fucile e poi se la squaglia a Londra affidandosi alle affettuose cure della figlia sedicenne dei suoi incauti ospiti. Nel 1848 si presenta al raduno della Legione di Garibaldi e si fa assegnare il ruolo di alfiere, alla prima occasione prende la strada dell¹amata Svizzera per ³poter organizzare meglio la guerra².
    Ricompare a Roma a fare il Triumviro: all¹arrivo dei francesi si traveste da cuoco e si invola con un passaporto americano intestato a George Moore. All¹imbarco dei Mille a Quarto fa in modo di arrivare due ore dopo che le navi erano partite, con sollievo di tutti: ormai la sua fama di menagramo si è diffusa. Sbarca a Napoli dopo l¹arrivo di Garibaldi ma non trova grande audience (garibaldini e agenti cavouriani sono uniti nell¹organizzare manifestazioni ostili sotto le finestre dell¹albergo dove alloggia) e preferisce tornarsene a Londra, dove partecipa alla raccolta e all¹impiego piuttosto disinvolto dei circa due miliardi di euro (in valuta attuale) raccolti tramite il Garibaldi italian unity committee.
    Non cessa di lanciare proclami dal suo esilio dorato, circondato da esuli, rivoluzionari e dame giovani e attempate che trovano fascinoso il suo aspetto di intellettuale sofferto e patibolare. Oltre che della teorizzazione della granitica unità statuale dell'Italia, Mazzini è stato anche l¹inventore di un paio di altre pietre miliari dell¹italico patriottismo.
    Nel giugno del 1831 aveva adottato il tricolore come bandiera del suo movimento politico, il cui Statuto stabiliva all¹articolo 8: ³I colori della Giovane Italia sono il bianco, il rosso, il verde. La bandiera della Giovane Italia porta su quei colori, scritte da un lato, le parole: Libertà, Uguaglianza, Umanità; dall¹altro: Unità, Indipendenza². Si trattava perciò di un simbolo di partito, preso dalla bandiera impiegata in un preciso e limitato contesto geografico e temporale, per giunta di evidenti origini giacobine e massoniche. In tutti i moti liberali che si erano fino ad allora svolti erano stati impiegati vessilli di altra fattura, come il rosso-verde-blu di Santarosa o il nero-rosso-blu carbonaro della rivolta di Alessandria. Lo stesso Garibaldi aveva sempre impiegato una stravagante bandiera nera. Da quella Giovane è passata come bandiera dell¹Italia tout-court.
    È stato anche l¹inventore del mito della ³Terza Roma². Aveva scritto: ³No; Roma non è dei romani: Roma è dell¹Italia: Roma è nostra perché noi siamo suoi. Roma è del Dovere, della Missione, dell¹Avvenire². Con tutto questo, a Mazzini non piaceva l¹Italia nata dal Risorgimento. Negli ultimi anni ha scritto disgustato: ³Veder sorgere quest¹Italia servile, opportunista, cieca e immorale, era peggio che non vederla sorgere². Nelle sue ultime ore di vita è stato sentito dire: ³L¹Italia che ho sognato? È soltanto un fantasma? Una parodia?². Se lo ha detto lui...

    (Articolo di Gilberto Oneto, da Il Federalismo del 29 luglio 2005)


    ____________________________________


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    Segnalazione – I grembiulini brecciaioli esaltano il gran maestro Garibaldi

    “Garibaldi fu forse il Massone italiano dell’Ottocento più noto e autorevole. La sua adesione alla Massoneria fu una scelta meditata e vincolante, che egli maturò a metà della sua esistenza e che mantenne in modo consapevole fino alla morte. Un’adesione che divenne ancor più convinta nel 1862, dopo i fatti di Aspromonte, quando gli obiettivi di costruire uno stato laico e democratico e di liberare Roma dal dominio temporale dei Papi si identificano, di fatto, con quelli della Massoneria”.
    Così il Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia di Palazzo Giustiniani, Gustavo Raffi, traccia la figura di Garibaldi massone che sarà ricordata nel corso della Gran Loggia Pedagogia delle libertà, in programma a Rimini dal 13 al 15 aprile. (…) (Da il Giornale del 6 aprile 2007).

    1807-2007, bicentenario della nascita del Gran Maestro Giuseppe Garibaldi:
    http://www.webroom.it/goi/popup.htm

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