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    Capo II. Il Congresso di Parigi

    [...] La guerra d’Oriente suscitata nemmeno un lustro dopo gli accennati fatti, non vogliamo dire appositamente, ma certo per un fine indefinito e tutto settario, ed anche per compromettere l’Austria, mentre si combatteva la sua potente alleata la Russia * [La Russia era infatti la naturale alleata dell’Austria in quel momento, avvegnaché, se non andiamo errati, una delle mire principali della politica Moscovita da oltre un secolo, sembri essere l’umiliazione dell’Austria, come lo fu dell’infelice Polonia, nazioni cattoliche ambedue. La rettitudine e bontà personale di Paolo e di Alessandro I. arrestarono per qualche tempo quella politica per combattere il comune nemico, siccome avvenne egualmente sotto Nicolò I, nel 1848 e 1849, epoca di universale rivoluzione che minacciava la Russia, siccome scuoteva tutti gli altri Potentati; ma prima e dopo delle indicate epoche, La Russia lavorò e lavora ancora coi Ruteni, Czechi ed altri Slavi, come già fece colla misera Polonia, a danno dell’Austria], offrì eccellente occasione ai Frammassoni di Francia e d’Inghilterra per sollevare, come accennammo, il piccolo Piemonte trascinandolo seco loro alla spedizione di Crimea. Per tal modo infatti venivagli dato voce e ardire nel futuro Congresso, che necessariamente era per adunarsi, tosto che le due Grandi Potenze occidentali, insieme coi due accoliti, la Turchia e il Piemonte (delizioso connubio!) avessero vinto il colosso del Nord, lasciato solo dall’Austria, la quale, senza punto contentare i collegati di Occidente, perdeva così nel più grave momento, forse per sempre, l’appoggio di Pietroburgo.

    Ed in vero, finita la guerra per l’immatura morte dell’Imperatore Niccolao, con la presa di Sebastopoli, dopo il famoso assedio che diede l’istruttivo spettacolo di una resistenza durata pressoché un anno, in un’epoca in cui le fortezze più munite reggono appena qualche giorno, subito s’intimò un Congresso a Parigi, che si tenne per lo appunto, con iscarso vantaggio degli interessi cristiani in Oriente, con incredibile danno di quelli di Occidente, e con uno spostamento di cose e una confusione di idee, che ben si parve essere stata quella guerra effetto di una occulta causa mossa dalle società segrete.

    Tutti convengono, scriveva su questo proposito l’Armonia (23 Febbr. 1856), che la questione d’Oriente fu il pretesto della gran lotta, non la causa. [...] La Russia e la Turchia somministrarono la occasione di prendere le armi [...]. Ma le file dei combattenti restarono confuse, e si videro amici e nemici pugnare ai fianchi. Si combatteva e non se ne sapeva dire la causa. Ora era pei Luoghi Santi, ora per la libertà religiosa, ora per l’indipendenza della Turchia, ora contro la preponderanza Russa. Ad ogni fatto d’arme la guerra mutava nome. Cattolici e Protestanti uscivano congiunti in campo; i primi volevano proteggere i Franchi, i secondi colla diffusione delle bibbie tentavano di pervertire i soldati; si cercava di sostenere l’Impero Musulmano e se ne minavano le [...] fondamenta; oggi si accarezzava la nazionalità polacca, domani regalavasi un manrovescio alla nazionalità greca; rivoluzionarii e conservatori si univano, si abbracciavano, combattevano, e ciascuno credeva di fare il suo vantaggio. Volevasi fiaccare il Russo invasore, e s’invadeva il suo territorio; volevasi impedire la preponderanza russa, e favorivasi la preponderanza britannica; volevasi mantenere l’equilibrio europeo, e pretendevasi distruggere la marina russa che ne era uno dei principali elementi. L’Inghilterra, rea di cento usurpazioni, combatteva le usurpazioni altrui; e il Piemonte, che incatenava i Cattolici in casa propria, muoveva per liberare i Cristiani d’Oriente! Fu una serie di contraddizioni non mai più udite, che in certuni destarono il riso, in molti il pianto; perché gettavasi l’oro, il sangue scorreva, e il perché s’ignorava. Quella guerra fu veramente effetto dell’Europa disordinata per le continue transazioni, per i principii accettati a metà, per le soverchie condiscendenze, per le mezze convinzioni, le mezze religioni, le mezze empietà, le mezze misure! —

    Non poteasi meglio caratterizzare, né meglio definire la fatalissima guerra di Oriente, causa premeditata del famoso Congresso di Occidente, apertosi a Parigi il 25 Febbr. 1856, a danni della Chiesa cattolica, e dei legittimi governi italiani.

    Dodici poltrone, nella sala degli Ambasciatori delle Tuilleries, accoglievano altrettanti Plenipotenziarii, incaricati in apparenza di riordinare il mondo, ma in sostanza per disordinarlo più che mai * [I Plenipotenziarii che presero parte al Congresso di Parigi furono; per l’Austria, Conte di Buol di Schawenstein e Barone di Hübner; per la Francia, Conte Colonna Walewski e Barone di Bourqueney; per l’Inghilterra, Conte di Clarendon e Barone Cowley; per la Russia, Conte Alessio Orloff e Barone Filippo di Brunow; per la Sardegna, Conte Camillo Benso di Cavour e Marchese Salvatore di Villamarina; per la Turchia, Mohamed Emid Auli pascià e Mehemmed-Diamil Bey. — Posteriormente, ai 13 di Marzo, furono introdotti anche Plenipotenziarii prussiani, e furono: il Barone di Manteuffel e il Conte di Startzfoldt, di guisa che, dal 10 Marzo in poi, sette furono le Potenze rappresentate al Congresso]. Il 30 Marzo 1856 si sottoscriveva il trattato di pace e si poneva fine al Congresso. [...] Quel trattato di pace non fu che una dichiarazione di guerra più terribile della passata, perché guerra di principii; e dalla sala degli Ambasciatori non uscirono se non carnefici e vittime, destinate a saziare le scellerate brame della setta, nemica di Dio, e condannata le tante volte dalla Chiesa. Ma quali i carnefici, quali le vittime? Uno sguardo ai fatti del Congresso basterà per riconoscerli.

    Non appena finita la illustre adunanza, le Segreterie di Stato delle alte parti contraenti davano fuori un volume officiale, intitolato: Traitè de paix signé à Paris le 30 Mars 1856 entre la Sardaigne, l’Autriche, la France, le Royaume uni de la Grande Brettagne et d’Irlande, la Prusse, la Russie et la Turquie, avec les conventions qui en font partie, les protocoles de la Conference, et la déclaration sur les droits maritimes en temps de guerre.

    Nelle 168 pagine, delle quali si componeva il volume, non una parola era fatta del famoso Memorandum del Conte di Cavour; anzi non una parola sola che lasciasse sospettare dello scopo ultimo e vero di quel Congresso... Durante le trattative della pace, dal 25 Febbraio al 30 Marzo, dell’Italia sembrò parlarsi solo per incidens, sebbene la presenza stessa dei Plenipotenziarii del piccolo Piemonte in quell’adunanza delle grandi Potenze europee valesse meglio che un protocollo, nelle circostanze in cui avveniva.

    [...] Conchiuso il trattato, insieme con le convenzioni accessorie, nelle tornate ulteriori che seguirono, più chiari apparivano gl’intendimenti dei settarii occidentali. In quella degli 8 di Aprile, quando tutto sembrava finito, il Conte Walewski parlò dell’Italia; ma, a velar meglio i suoi intendimenti, ne parlò in guisa che sembrasse non volerne parlare, involgendo le cose d’Italia insieme con quelle della Grecia e del Belgio. Infatti nel protocollo XXII il risultato di quella discussione è così riassunto dal Conte Walewski.

    "1. Nessuno ha negato la necessità di attendere seriamente al miglioramento delle condizioni della Grecia, e le tre Corti protettrici riconobbero la importanza di accordarsi su questo punto.

    "2. I Plenipotenziarii dell’Austria si associarono al voto espresso dai Plenipotenziarii della Francia, di vedere gli Stati Pontificii evacuati dalle milizie francesi ed austriache appena si potrà fare senza inconvenienti per la tranquillità del paese, e il consolidamento dell’autorità della S. Sede.

    "3. La maggior parte dei Plenipotenziarii non negarono la efficacia che avrebbero misure di clemenza, abbracciate in una maniera opportuna dai Governi della Penisola italica, e soprattutto da quello delle Due Sicilie.

    "4. Tutti i Plenipotenziarii, ed anche quelli che credettero di fare riserve sul principio della libertà di stampa, non esitarono a condannare altamente gli eccessi, che i giornali del Belgio impunemente commettono, riconoscendo la necessità di rimediare agli inconvenienti reali che risultano dalla libertà sfrenata, di cui si fa tanto abuso nel Belgio".

    Due incidenti però, abbastanza gravi, sebbene soffocati subito in sul nascere, sorsero a fare accorti i meno di buona fede, dell’agguato che celavasi nell’adunamento stesso del Congresso. Prima di venire infatti alle conclusioni, fuvvi un battibecco tra il Conte di Cavour e i Plenipotenziarii austriaci. Il Ministro sardo volle dire della occupazione degli Stati Pontificii da parte delle milizie austriache, come di uno scandalo in mezzo alla civile Europa, che durava già da sette anni, e che non pareva avvicinarsi al termine. Il Barone di Hübner rispose, facendo notare che il Plenipotenziario sardo parlava soltanto della occupazione austriaca, e taceva della francese; pure le due occupazioni erano incominciate alla medesima epoca e col medesimo scopo. Rammentò poi come gli Stati della S. Sede, non fossero i soli occupati da milizie straniere, mentre i Comuni di Mentone e Roccabruna, e parte del Principato di Monaco, da otto anni erano occupati dal Piemonte! la sola differenza che passava tra le due occupazioni essendo, che gli Austriaci e i Francesi vennero chiamati dal legittimo Sovrano del Paese, mentre che le milizie sarde erano entrate nel territorio del Principe di Monaco contro il suo voto, e vi restavano ad onta dei suoi reclami. Fu questa una buona lezione; il Cavour soggiunse poche parole, e tacque.

    Nella tornata del 14, di nuovo si trattò dell’Italia, e di nuovo Cavour ne andò colla peggio. Il Conte Clarendon propose che, ad evitare quinci innanzi la guerra, dovessero gli Stati ricorrere alla mediazione delle Potenze amiche per finire i loro litigi, come già si era fatto per riguardo alla Sublime Porta nell’articolo VII del trattato di pace. Cavour, prima di dire il suo avviso, chiese se nella intenzione dell’illustre proponente, il voto che fosse per emettere il Congresso dovesse stendersi agli interventi armati contro i Governi di fatto, citando ad esempio l’intervento dell’Austria nel Regno di Napoli nel 1821. Lord Clarendon e il Conte Walewski risposero, più o meno seriamente, alla dimanda del Ministro sardo; ma il Conte di Buol, Plenipotenziario austriaco, chiuse la bocca al Cavour dicendo, che il Conte di Cavour, nel parlare in altra tornata della presenza delle milizie austriache nelle Legazioni pontificie, aveva dimenticato altre milizie straniere chiamate egualmente negli Stati della Chiesa; e parlando della occupazione austriaca del Regno di Napoli nel 1821, dimenticava essere stata quella il risultato di un accordo tra le cinque Grandi Potenze riunite nel Congresso di Laybach. Simili casi potersi nuovamente presentare; ed il Conte di Buol non ammetteva che un’intervento effettuato in seguito di un’accordo stabilito tra le cinque grandi Potenze potesse divenire argomento di richiamo per parte di uno Stato di second’ordine; conchiuse, esprimendo il desiderio, che il Congresso, sul punto di chiudersi, non fosse obbligato a trattare questioni irritanti capaci di turbare il buon accordo, che non aveva mai cessato di regnare fino allora, tra i Plenipotenziarii. E il Conte di Cavour dichiarava essere pienamente soddisfatto delle spiegazioni che aveva provocato [...]!...

    E qui è da notare, che il Conte Orloff, Rappresentante della Russia, si astenne dal prendere alcuna parte nella disputa, dichiarando che il suo mandato aveva per unico oggetto il ristabilimento della pace. Quanto al Rappresentante della Prussia, Barone di Manteuffel, a proposito degli ammonimenti che intendevansi dare al Governo delle Due Sicilie, non rappresentato al Congresso, e quindi non ascoltato, si contentò di osservare "che sarebbe stato conveniente esaminare, se ammonimenti di tale natura non fossero per suscitare in quel Reame uno spirito di opposizione e conati rivoluzionarii, piuttosto che rispondere alle idee che si volevano vedere realizzate, certamente con benevole intenzioni". Così chiudevasi il Congresso di Parigi, dal quale doveva uscire quella sconcia e disgraziata cosa, che si chiama l’Europa liberale, che tutti vediamo e che ogni onesto deplora ed abbomina.

    [...] Del resto, il Congresso parve compìto in piena armonia, presto e bene! e il Bonaparte sel sapeva a priori; quando a chi poco prima metteva innanzi dubbii sulla buona riuscita e sulla utilità di quel Congresso, diceva con affettata sicurezza "On se prèoccupe de la manière de proceder qu’adopteront les plénipotentiaires; on a tort. Les choses iront vite et bien. On abordera les questions franchement. Je ne souffrirai pas que l’on s’amuse dans des difficultés puèriles". Infatti non si avvocatò, si fece presto, e bene in apparenza; il trattato si sottoscrisse per non parlarsene più, se non quando la Russia poi lo annullò, almeno nella parte più importante, con una semplice Nota, nel 1871, approfittandosi della guerra franco-prussiana. Ma se i protocolli ufficiali erano destinati a passare subito nel dimenticatoio, altri atti meno ufficiali ma più reali, rimanevano frutto del famoso Congresso.

    Le Note dei Plenipotenziarii sardi, appoggiate dai Plenipotenziarii inglesi e francesi, dal Clarendon e dal Walewski, ne rimanevano imperituro monumento, come programma della rivoluzione italiana e della nuova guerra, che stava per intraprendersi contro la Santa Sede.

    Ecco pertanto codesti Atti, che rechiamo qui raccolti insieme [...]. E sia pel primo la Nota Verbale diretta dal Conte Camillo Benso di Cavour e dal suo Collega Marchese di Villamarina ai Governi francese ed inglese (coi quali tutto era stato disposto precedentemente in perfetto fratellevole accordo), non appena conchiuso il trattato di pace con la Russia. Questa Nota dalla prima all’ultima parola non è altro che un libello contro la S. Sede e contro il Papa, cui si fa comparire in faccia al Congresso quale uno stupido e testardo tiranno, incapace di reggere i suoi popoli, i quali pur nondimeno da mille anni sapientemente sono da Esso governati, in mezzo alle più svariate e difficili vicende. Con insigne malafede, passa poi sotto silenzio l’unica e vera causa dell’agitazione degli Stati della Chiesa, quale fu appunto la influenza straniera, e dissimula pur come allora soltanto vi si manifestassero segni di malcontento e di ribellione, quando i sanguinarii repubblicani di Francia, nel 1797, invasero armata mano quelle tranquille provincie, inoculando loro, con la violenza, le proprie utopie e la [...] empietà. — Ma ecco questo famoso [...] Documento:

    Memorandum ossia Nota verbale dei Plenipotenziarii sardi.

    "In un momento in cui i gloriosi sforzi delle Potenze occidentali tendono ad assicurare all’Europa i beneficii della pace, lo stato deplorabile delle provincie sottoposte al Governo della S. Sede, e soprattutto delle Legazioni , richiama tutta l’attenzione di S. M. Britannica, e di S. M. l’Imperatore de’ Francesi. Le Legazioni sono occupate da milizie austriache dal 1849. Lo stato d’assedio e la legge marziale vi sono in vigore da quell’epoca, senza interruzione. Il Governo Pontificio non vi esiste che di nome, poiché al disopra de’ suoi Legati un Generale austriaco prende il titolo ed esercita le funzioni di Governatore civile e militare.

    "Nulla fa presagire che questo stato di cose possa terminare: poiché il Governo Pontificio, tal quale vi si trova, è convinto della sua impotenza a conservare l’ordine pubblico, come nel primo giorno della sua restaurazione; e l’Austria non chiede niente di meglio che di rendere la sua occupazione permanente. Ecco dunque i fatti tali quali si presentano; situazione deplorabile, e che sussiste sempre, di un paese nobilmente fornito, e nel quale abbondano gli elementi conservatori; impotenza del Sovrano legittimo a governarlo; pericolo permanente di disordine e di anarchia nel centro d’Italia; estensione del dominio austriaco nella Penisola al di là di ciò che i trattati del 1815 gli hanno accordato.

    "Le Legazioni prima della rivoluzione francese erano sotto l’alta Sovranità del Papa; ma esse godevano dei privilegi e delle franchigie che le rendevano, almeno nell’amministrazione interna, quasi indipendenti. Frattanto il dominio clericale vi era fin d’allora talmente antipatico, che gli eserciti francesi vi furono ricevuti nel 1796 con entusiasmo.

    "Distaccate dalla S. Sede, per effetto del trattato di Tolentino, quelle provincie formarono parte della Repubblica, poscia del Regno italico, sino al 1814. Il genio organizzatore di Napoleone mutò come per incanto il loro aspetto. Le leggi, le istituzioni, l’amministrazione francese vi svilupparono, in brevi anni, il benessere e l’incivilimento.

    "Per la qual cosa, in queste provincie tutte le tradizioni e le simpatie si riattaccarono a questo periodo. Il Governo di Napoleone è il solo che abbia sopravvissuto nella memoria, non solo delle classi illuminate, ma del popolo. La sua memoria richiama una giustizia imparziale, un’amministrazione forte, uno stato insomma di prosperità, di ricchezza e di grandezza militare.

    "Al Congresso di Vienna si esitò lungamente a riporre le Legazioni sotto il Governo del Papa. Gli uomini di Stato che vi sedevano, quantunque preoccupati di ristabilire dappertutto l’antico ordine di cose, sentivano tuttavia che si lascerebbe in questa guisa un focolare di disordini nel bel mezzo d’Italia. La difficoltà nella scelta del Sovrano a cui si dovessero dare queste provincie, e le rivalità, che nascerebbero per il loro possedimento, fecero propendere la bilancia in favore del Papa, ed il Cardinale Consalvi ottenne, ma solamente dopo la battaglia di Waterloo, questa concessione insperata.

    "Il Governo Pontificio, alla sua restaurazione, non tenne verun conto del progresso delle idee e dei profondi cangiamenti che il regime francese aveva introdotto in questa parte de’ suoi Stati. Da ciò una lotta tra il Governo e il popolo era inevitabile. Le Legazioni sono state in preda ad una agitazione più o meno celata, ma che ad ogni opportunità prorompeva in rivoluzioni. Tre volte l’Austria intervenne co’ suoi armati per ristabilire l’autorità del Papa, costantemente disconosciuta da’ suoi sudditi.

    "La Francia risponde al secondo intervento austriaco colla occupazione di Ancona; al terzo colla presa di Roma. Tutte le volte che la Francia si è trovata in presenza di tali avvenimenti ha sentito la necessità di por fine a questo stato di cose, che è come uno scandalo per l’Europa, ed un’immenso ostacolo alla pacificazione d’Italia.

    "Il Memorandum del 1831 constatava lo stato deplorabile del paese, la necessità e l’urgenza di riforme amministrative. Le corrispondenze diplomatiche di Gaeta e di Portici portano l’impronta dello stesso sentimento. Le riforme che Pio IX da sé medesimo aveva iniziate nel 1846, erano il frutto del suo lungo soggiorno in Imola, dove aveva potuto giudicare co’ propri occhii intorno agli effetti del regime deplorabile imposto a queste provincie.

    "Disgraziatamente, i consigli delle Potenze, ed il buon volere del Papa sono venuti ad infrangersi contro gli ostacoli che l’organizzazione clericale oppone a qualunque specie di rinnovamento. Se vi ha un fatto che risulta chiaramente dalla storia di questi ultimi anni, è la difficoltà, diciamolo meglio, l’impossibilità di una riforma compiuta dal Governo Pontificio, che risponda ai bisogni del tempo e ai voti ragionevoli delle popolazioni.

    "L’Imperatore Napoleone III, con quel colpo d’occhio giusto e fermo che lo caratterizza, aveva perfettamente affermato e rettamente indicato, nella sua lettera al Colonnello Ney, la risoluzione del problema, Secolarizzazione, Codice napoleonico.

    "Ma chiaroè, che la Corte di Roma combatterà sino all’estremo, e con tutti i mezzi che ha, l’esecuzione di questi due disegni. Ben si capisce che possa adagiarsi in apparenza ad accettare riforme civili ed eziandio politiche, salvo a renderle illusorie in prattica; ma essa anche troppo si avvede, che la Secolarizzazione ed il Codice napoleonico introdotti in Roma stessa, là ove l’edificio di sua possanza temporale tien le fondamenta, la scalzerebbero dalle radici e la farebbero cadere togliendone i principali sostegni: privilegi clericali e diritto canonico. Tuttavia se non puossi sperare d’introdurre una vera riforma per l’appunto in quel centro, ove i congegni dell’autorità temporale sono di tal guisa intrecciati con quelli del potere spirituale, che non sarebbe dato di disgiungerli compiutamente senza correr pericolo di spezzarli, non potrebbesi almeno pervenirvi in una parte che si mostra meno rassegnata al giogo clericale, che è fomite permanente di turbolenze e di anarchia, che fornisce pretesto all’occupazione permanente degli Austriaci, suscita complicazioni diplomatiche, e perturba l’equilibrio europeo?

    "Noi siamo d’avviso che lo si possa, ma a condizione di separare, almeno amministrativamente, questa parte dello Stato di Roma. Di tal guisa formerebbesi delle Legazioni un Principato Apostolico sotto l’alto dominio del Papa, ma retto da proprie leggi, avendo suoi tribunali, sue finanze, suo esercito. Stimiamo che, rannodando, per quanto fosse possibile, cotesto ordinamento alle tradizioni del Regno napoleonico, si sarebbe sicuri di ottenere subitamente un effetto morale considerevolissimo, e si sarebbe fatto un gran passo per ricondurre la calma frammezzo a coteste popolazioni.

    "Senza lusingarci, che combinazioni di cotesto genere possano eternamente durare, nonpertanto stimiamo che per lungo tempo bastar potrebbe al fine proposto: pacificare coteste provincie e dare una soddisfazione ai bisogni dei popoli, e appunto con ciò assicurare il Governo temporale della S. Sede, senza uopo di una permanente occupazione straniera.

    "Indicheremo sommariamente i punti essenziali del progetto e i modi di metterlo ad effetto.

    "1. Le provincie dello Stato Romano situate tra il Po e l’Adriatico e gli Appennini (dalla provincia di Ancona fino a quella di Ferrara), pur rimanendo soggette all’alto dominio della S. Sede, saranno completamente secolarizzate, e organizzate sotto il rapporto amministrativo, giudiziario, militare e finanziario, in guisa affatto separata, indipendente dal rimanente dello Stato. Tuttavia le relazioni diplomatiche e religiose resterebbero esclusivamente di spettanza della Corte Romana.

    "2. L’organamento territoriale ed amministrativo di questo Principato sarebbe stabilito nella forma in cui era sotto il Regno di Napoleone I, fino al 1814. Il Codice napoleonico vi sarebbe promulgato, salvo le modificazioni necessarie ne’ titoli riguardanti le relazioni tra la Chiesa e lo Stato.

    "3. Un Vicario Pontificio laico governerebbe coteste provincie, con de’ Ministri e un Consiglio di Stato. La posizione del Vicario, nominato dal Papa, sarebbe garantita dalla durata dell’ufficio, che continuerebbe almeno per dieci anni. I Ministri, i Consiglieri di Stato e tutti gl’impiegati indistintamente sarebbero nominati dal Vicario Pontificio. Il loro potere legislativo ed esecutivo non potrebbe estendersi mai alle materie religiose né alle materie miste, che sarebbero preventivamente determinate, né infine a checchessia di ciò che tocca alle relazioni politiche internazionali.

    "4. Queste provincie dovrebbero concorrere, in giusta proporzione, al mantenimento della Corte di Roma ed al servizio del debito publico attualmente esistente.

    "5. Un esercito indigeno verrebbe organizzato immediatamente, per mezzo della coscrizione militare.

    "6. Oltre i Consigli comunali e provinciali, sarebbevi un Consiglio generale per l’esame e la compilazione del bilancio.

    "Ora, se considerar si vogliono i mezzi di esecuzione, si vedrà che non presentano tante difficoltà, come a prima vista si potrebbe supporre. Anzitutto codesta idea di una separazione amministrativa delle Legazioni non è cosa nuova per Roma. Fu messa innanzi parecchie volte dalla Diplomazia ed eziandìo propugnata da qualche membro del S. Collegio, sebbene in termini più ristretti di quelli che occorrono per farne un’opera seria e durevole.

    "Il volere irrevocabile delle Potenze e la loro deliberazione di por termine, e senza indugio, all’occupazione straniera, sarebbero due motivi che determinerebbero la Corte di Roma ad accettare cotesto disegno, che in fondo rispetta il suo potere temporale, e lascia intatta la organizzazione attuale al centro e nella massima parte de’ suoi Stati. Ma, ammesso una volta il principio, conviene che la esecuzione del progetto sia confidata ad un’alto Commissario nominato dalle Potenze. È dunque evidentissimo che, se questo compito fosse lasciato alla S. Sede, troverebbe nel suo governo tradizionale i mezzi di non venirne a capo, e di falsare interamente lo spirito delle nuove istituzioni.

    "Ora non si può dissimulare, che se l’occupazione straniera cessar dovesse, senza codeste riforme francamente eseguite, e senza che una forza pubblica fosse stabilita, vi sarebbe ogni argomento di temere il prossimo rinnovellamento di sedizioni, susseguìte ben tosto dal ritorno degli eserciti austriaci. Un tale avvenimento sarebbe tanto più deplorevole, in quanto che gli effetti parrebbero condannare preventivamente ogni prova di miglioramento.

    "Egli è dunque solo alle condizioni sopra enunciate che noi stimiamo possibile la cessazione della occupazione straniera che potrebbe farsi in questa guisa.

    "Il Governo Pontificio ha attualmente due reggimenti di Svizzeri e due altri indigeni, insomma otto mila uomini all’incirca. Cotesta soldatesca è bastevole pel mantenimento dell’ordine a Roma e nelle provincie che non sono comprese nella divisione amministrativa, di cui si è testè parlato. La nuova milizia indigena, che si organizzerebbe per mezzo della coscrizione nelle provincie secolarizzate, ne assicurerebbe la tranquillità. I Francesi potrebbero lasciar Roma, gli Austriaci le Legazioni. Tuttavia le milizie francesi, ritornando nel proprio paese per la via di terra, dovrebbero, nel passaggio, soffermarsi temporaneamente nelle provincie staccate. Esse vi rimarrebbero per un tempo prestabilito, strettamente necessario alla formazione della nuova milizia indigena, che si organizzerebbe col loro concorso". — Fin qui la Nota sarda.

    L’Inghilterra aderì pienamente alla Nota; la Francia fece riserve nelle applicazioni della medesima, per riguardi verso la S. Sede; l’Austria oppose la questione pregiudiziale, non essendo stata prevenuta che nel Congresso si sarebbe trattato anche delle cose d’Italia. Intanto si andò innanzi nell’intrigo estralegale combinato tra i Plenipotenziarii sardo-anglo-franchi.

    Dopo sottoscritto il trattato, siccome dicemmo, continuarono per alcuni giorni le conferenze, e il dì 8 di Aprile venne registrato nel protocollo il seguente [...] Atto, già da noi accennato:

    Dichiarazione del Conte Walewski

    "Il primo Plenipotenziario della Francia rammenta che gli Stati Pontificî sono in una situazione anormale, che la necessità di non abbandonare il paese in preda all’anarchia ha determinato la Francia, nonché l’Austria, ad acconsentire alla domanda della S. Sede, facendo occupare Roma dalle sue milizie, nell’atto che le austriache occupavano le Legazioni. Egli espone, che la Francia aveva un doppio motivo di deferire senza esitazione alla domanda della S. Sede, come Potenza cattolica, e come Potenza europea. Il titolo di Figlio primogenito della Chiesa, di cui il Sovrano di Francia si gloria, fa un dovere all’Imperatore di prestare aiuto e sostegno al Sovrano Pontefice. La tranquillità degli Stati Pontificii e quella di tutta Italia tocca troppo da vicino il mantenimento dell’ordine in Europa, perché la Francia abbia un interesse maggiore a concorrervi con tutti i mezzi che ha in suo potere. Ma, dall’altro canto, non si potrebbe disconoscere ciò v’ha di poco onorevole nella situazione di una Potenza, che per mantenersi ha bisogno di essere sostenuta da milizie straniere.

    "Il Conte Walewski non esita punto a dichiarare, e spera che il Conte Buol si associerà per quel che concerne l’Austria a tale dichiarazione, che non solamente la Francia è pronta a ritirare le sue milizie, ma che affretta con tutti i suoi voti il momento in cui essa lo possa fare senza compromettere la tranquillità interna del paese e l’autorità del Governo Pontificio, alla prosperità del quale l’Imperatore, suo augusto Sovrano, non cesserà mai di prendere il più vivo interessamento.

    "Il primo Plenipotenziario della Francia rappresenta come egli è a desiderare, nell’interesse dell’equilibrio europeo, che il Governo Romano si consolidi abbastanza fortemente, perché le milizie francesi ed austriache possano sgombrare senza inconvenienti gli Stati Pontificii: ed egli crede che un voto espresso in questo senso potrebbe non essere senza utilità. Egli non dobita in ogni caso, che le assicurazioni che sarebbero date dalla Francia e dall’Austria circa le loro intenzioni a questo riguardo non producano da per tutto una impressione favorevole.

    "Proseguendo lo stesso ordine d’idee, il Conte Walewski dimanda a sé stesso, se non è da augurare che certi Governi della Penisola italiana, richiamando a sé con atti di clemenza bene intesi, gli spiriti traviati e non pervertiti, mettano termine a un sistema che va direttamente contro il suo scopo, e che, invece di estinguere i nemici dell’ordine, ha per effetto di indebolire i Governi e di accrescere partigiani alla demagogia.

    "Nella sua opinione, sarebbe rendere un segnalato servigio al Governo delle Due Sicilie, nonché alla causa dell’ordine nella Penisola italiana, con illuminare quel Governo sulla falsa via nella quale si è posto. Egli pensa, che avvertimenti concepiti in questo senso, e provenienti dalle Potenze rappresentate al Congresso, sarebbero tanto meglio accolti, in quanto che il Gabinetto napolitano, non potrebbe mettere in dubbio i motivi che li avrebbero dettati".

    Alla dichiarazione del Francese, nella quale la causa del Re delle Due Sicilie veniva una volta di più congiunta a quella della S. Sede, Lord Clarendon rispondeva in questi termini:

    Dichiarazione di Lord Clarendon

    "Noi abbiamo provveduto allo sgombro dei varî territorî occupati dalle milizie straniere durante la guerra; abbiamo fatto premura solenne di effettuare questo sgombro nel più breve termine; come potremmo non preoccuparci delle occupazioni che ebbero luogo prima della guerra, e d’astenerci dal cercare modo di porvi fine?

    "La Gran Bretagna non crede utile lo investigare le cause che condussero eserciti stranieri in molti punti d’Italia; ma è d’avviso che, ammesse pure queste cause legittime, non è men vero, che ne conseguita uno stato anormale irregolare che non può essere giustificato se non se da una estrema necessità, e che debba cessare appena tale necessità non si faccia più sentire imperiosamente; che tuttavia se non si cerca a por fine a tali bisogni, essi continueranno ad esistere. Che se si sta paghi ad appoggiarsi alla forza armata, in luogo di cercar rimedio ai giusti motivi di mal contento, è certo che si renderà permanente un sistema poco onorevole pei Governi e disgustoso pei popoli. Pensa che l’amministrazione degli Stati romani offre inconvenienti, donde possono sorgere pericoli, che il Congresso ha diritto di cercar modo di prevenire; che non porvi mente sarebbe esporsi a lavorare a profitto della rivoluzione, che tutti i Governi biasimano e vogliono evitare. Il problema che è urgente risolvere, consiste nel combinare il ritiro delle milizie straniere col mantenimento della tranquillità: e questa soluzione sta nell’organare un’amministrazione che, facendo rinascere la fiducia, rendesse il Governo indipendente dall’aiuto straniero. Quest’appoggio non essendo giammai capace a sostenere un Governo al quale l’opinione pubblica è contraria, ne conseguirebbe, secondo la sua opinione, una posizione che la Francia e l’Austria non vorranno accettare per i loro eserciti. Pel benessere degli Stati Pontificii, come nell’interesse dell’autorità sovrana del Papa, sarebbe dunque utile, secondo il suo parere, di raccomandare la secolarizzazione del Governo e l’organizzazione di un sistema amministrativo in armonia colle tendenze del secolo, ed avente per iscopo la felicità del popolo. Ammette che questa riforma può presentare forse a Roma, in questo momento, alcune difficoltà; ma crede che potrà facilmente effettuarsi nelle Legazioni.

    "La Gran Bretagna fa notare, che da otto anni a questa parte Bologna è in istato d’assedio, e che le campagne sono invase dai briganti; puossi sperare, ei crede, che collo stabilirsi in questa parte degli Stati Romani un regime amministrativo e giudiziario laico e separato, e coll’organizzarsi una forza armata nazionale, la sicurezza e la confidenza si ristabilirebbero rapidamente, e che le milizie austriache potrebbero ritirarsi fra poco, senza che abbiansi a temere novelle agitazioni; se non altro, a suo parere, è una esperienza che si potrebbe tentare: e questo rimedio offerto a mali incontestabili dovrebbe essere sottoposto alla seria considerazione del Papa.

    "Per quanto concerne il Governo di Napoli, la Gran Bretagna desidera imitare l’esempio del Conte Walewski, tacendo atti che ebbero una sì spiacevole eco. Essa pensa che dee senza dubbio riconoscersi in massima, che niun Governo ha diritto d’ingerirsi negli affari interni degli altri Stati; ma crede esservi casi, nei quali la eccezione a questa regola diventa un diritto e un dovere. Il Governo napolitano pare che abbia conferito questo diritto e imposto questo dovere all’Europa; e poiché i Governi rappresentati al Congresso vogliono tutti, collo stesso impegno, sostenere il principio monarchico e respingere la rivoluzione, deesi alzar la voce contro di un sistema, che tiene accesa tra le masse l’effervescenza rivoluzionaria, invece di spegnerla.

    "Noi non vogliamo che la pace sia turbata, e non vi ha pace senza giustizia; noi dobbiamo dunque far giungere al Re di Napoli il voto del Congresso, perché migliori il suo sistema di Governo, voto che certo non può rimanere sterile; noi dobbiamo inoltre chiedergli una amnistìa per le persone che furono condannate, o che sono in carcere senza giudizio per colpe politiche". — Così la Nota inglese.

    Ai 16 di Aprile, chiusosi il Congresso, il Conte di Cavour e il Marchese di Villamarina emisero una nuova Nota più grave della prima, benevolmente accolta dalla Francia e dall’Inghilterra. Eccola:

    Nota comunicata dai Plenipotenziarî sardi a quelli di Francia e d’Inghilterra nell’atto di lasciare il Congresso.

    "I sottoscritti Plenipotenziarii, pieni di fiducia nei sentimenti di giustizia dei Governi di Francia e d’Inghilterra, e nell’amicizia che professano pel Piemonte, non hanno cessato di sperare, dopo l’apertura delle conferenze, che il Congresso di Parigi non si separerebbe senza aver preso in seria considerazione lo stato dell’Italia, ed avvertito ai mezzi di recarvi rimedio, ripristinando l’equilibrio politico, turbato dalla occupazione di gran parte delle provincie della Penisola dalle milizie straniere. Sicuri del concorso dei loro alleati, essi ripugnavano a credere, che niuna altra Potenza, dopo avere attestato un interessamento sì vivo e sì generoso per la sorte de’ Cristiani di Oriente appartenenti alla razza slava ed alla greca, rifiuterebbe di occuparsi dei popoli di razza latina ancor più infelici, poiché, a ragione del grado di civiltà avanzata che hanno raggiunto, essi sentono più vivamente le conseguenze di un cattivo governo.

    "Questa speranza è venuta meno. Malgrado del buon volere della Francia e dell’Inghilterra, malgrado dei loro benevoli sforzi, la persistenza dell’Austria a chiedere che le discussioni del Congresso rimanessero strettamente circoscritte nella sfera delle questioni che era stata tracciata prima della sua riunione, è cagione che questa assemblea, sulla quale sono rivolti gli occhi di tutta Europa, sta per isciogliersi non solo senza che sia stato arrecato il menomo alleviamento ai mali dell’Italia, ma senza aver fatto splendere al di là delle Alpi un bagliore di speranza nell’avvenire, atto a calmare gli animi, ed a far loro sopportare con rassegnazione il presente.

    "La posizione speciale occupata dall’Austria nel seno del Congresso rendeva forse inevitabile questo deplorevole risultato. I sottoscritti sono costretti a riconoscerlo. Quindi, senza rivolgere il menomo rimprovero ai loro alleati, credono debito loro di richiamare la seria attenzione dei medesimi sulle conseguenze spiacevoli che esso può avere per l’Europa, per l’Italia, e specialmente per la Sardegna.

    "Egli sarebbe superfluo di tracciare quì un quadro preciso dell’Italia. Troppo notorio è ciò che avviene da molti anni in quelle contrade. Il sistema di compressione e di reazione violenta, inaugurato nel 1848 e 1849, che forse giustificavano alla sua origine le turbolenze rivoluzionarie che erano state in allora compresse, dura senza il menomo alleviamento. Si può anche dire che, tranne alcune eccezioni, esso è seguito con raddoppiamento di rigore. Giammai le prigioni ed i bagni non sono stati più pieni di condannati per cause politiche; giammai il numero dei proscritti non è stato più considerevole; giammai la polizia non è stata più duramente applicata. Ciò che succede a Parma lo prova anche troppo.

    "Tali mezzi di Governo debbono necessariamente mantenere le popolazioni in uno stato di costante irritazione e di fermento rivoluzionario.

    "Tale è lo stato dell’Italia da sette anni i poi.

    "Tuttavia in questi ultimi tempi l’agitazione popolare sembrava essersi calmata. Gli Italiani vedendo uno de’ Principi nazionali coalizzato colle grandi Potenze occidentali per far trionfare i principii del diritto e della giustizia, e per migliorare la sorte dei loro correligionarii in Oriente, concepirono la speranza che la pace non si sarebbe fatta senza che un sollievo fosse recato ai loro mali. Questa speranza li rese calmi e rassegnati. Ma quando conosceranno i risultati negativi del Congresso di Parigi, quando sapranno che l’Austria, non ostante i buoni officî e l’intervento benevolo della Francia e dell’Inghilterra, si è rifiutata a qualsiasi discussione, che essa non ha voluto nemmeno prestarsi all’esame dei mezzi opportuni a portar rimedio a un sì triste stato di cose, non v’ha alcun dubbio che l’irritazione assopita si sveglierà fra essi in modo più violento che mai. Convinti di non aver più nulla ad attendere dalla diplomazia e dagli sforzi delle Potenze che s’interessano alla loro sorte, ricadranno con un ardore meridionale nelle file del partito rivoluzionario e sovversivo; l’Italia sarà di nuovo un focolare ardente di cospirazioni e di disordini, che forse saranno compressi con raddoppiamento di rigore; ma che la minima commozione europea farà scoppiare nella maniera la più violenta. Uno stato di cose così spiacevole, se merita di fissare l’attenzione dei Governi della Francia e dell’Inghilterra, interessati ugualmente al mantenimento dell’ordine e allo sviluppo regolare della civiltà, deve naturalmente preoccupare nel più alto grado il Governo del Re di Sardegna.

    "Lo svegliarsi delle passioni rivoluzionarie in tutti i paesi che circondano il Piemonte, per effetto di una causa di tale natura che eccita le più vive simpatìe popolari, lo espone ai pericoli di una eccessiva gravità, che possono compromettere quella politica ferma e moderata che ha avuto sì felici risultati, e gli ha valso la simpatìa e la stima dell’Europa illuminata.

    "Ma questo non è il solo pericolo che minaccia la Sardegna. Un pericolo più grande ancora è la conseguenza dei mezzi che l’Austria impiega per comprimere il fermento rivoluzionario in Italia, chiamata dai Sovrani dei piccoli Stati italiani impotenti a contenere il malcontento dei loro sudditi. Questa Potenza occupa militarmente la maggior parte della valle del Po e dell’Italia centrale, e la sua influenza si fa sentire in una maniera irresistibile nei paesi stessi in cui essa non ha soldati. Appoggiata da un lato a Ferrara e a Bologna, le sue truppe si stendono sino ad Ancona, lungo l’Adriatico, divenuto in certo modo un lago austriaco; dall’altro, padrona di Piacenza, che, contrariamente allo spirito, se non alla lettera dei trattati di Vienna, lavora a trasformare in piazza forte di prim’ordine; essa ha guarnigione a Parma e si dispone a spiegare le sue forze in tutta la estensione della frontiera sarda, dal Po sino alla cima degli Appennini.

    "Queste occupazioni permanenti per parte dell’Austria di territorii che non le appartengono, la rendono padrona assoluta di quasi tutta Italia, distruggono l’equilibrio stabilito dal Trattato di Vienna, e sono una minaccia continua per il Piemonte.

    "Circondato in qualche modo da ogni parte dagli Austriaci, vedendo svilupparsi nel suo confine orientale completamente aperto le forze di una Potenza, che sa non essere animata da sentimenti benevoli a suo riguardo, questo paese è tenuto in uno stato costante di apprensione, che l’obbliga a rimanere armato e a misure difensive eccessivamente onerose per le sue finanze, oberate già in seguito degli avvenimenti del 1848 e 1849, e dalla guerra a cui ora ha preso parte.

    "I fatti che i sottoscritti hanno esposto bastano per far apprezzare i pericoli della posizione, nella quale il Governo del Re di Sardegna si trova collocato.

    "Perturbato all’interno dalle passioni rivoluzionarie, suscitate tutto intorno a lui da un sistema di compressione violenta e dall’occupazione straniera, minacciato dall’estensione della potenza dell’Austria, egli può da un momento all’altro essere costretto da una necessità inevitabile ad adottare misure estreme, di cui è impossibile calcolare le conseguenze.

    "I sottoscritti non dubitano, che un tale stato di cose non ecciti la sollecitudine dei Governi di Francia e d’Inghilterra, non solo a cagione dell’amicizia sincera e della simpatia reale che queste Potenze professano per il Sovrano, che solo fra tutti, nel momento in cui il successo era il più incerto, si è dichiarato apertamente in loro favore; ma soprattutto perché costituisce un vero pericolo per l’Europa.

    "La Sardegna è il solo Stato dell’Italia che abbia potuto elevare una barriera insormontabile allo spirito rivoluzionario (!?) e rimanere nello stesso tempo indipendente dall’Austria; è il solo contrappeso alla sua influenza, che tutto invade.

    "Se la Sardegna avesse a soccombere spossata di forze, abbandonata dai suoi alleati; se fosse costretta essa medesima a subìre la dominazione austriaca, allora la conquista dell’Italia per parte di questa Potenza sarebbe compiuta.

    "E l’Austria, dopo aver ottenuto, senza che le costasse il minimo sacrifizio, l’immenso beneficio della libertà della navigazione del Danubio e della neutralizzazione del Mar Nero, acquisterebbe una influenza preponderante in Occidente.

    "Questo è quello che la Francia e l’Inghilterra non potrebbero volere: questo è quello che esse non permetterebbero mai.

    "Però i Plenipotenziarî Sardi sono convinti che i Gabinetti di Parigi e di Londra, prendendo in seria considerazione la situazione dell’Italia, avviseranno, d’accordo con la Sardegna, ai mezzi di recarvi un efficace rimedio * [Traité de paix, signé á Paris le 30 Mars 1856. Turin imprimerie royale, 1856]".

    Con questa nota ebbe termine il [...] Congresso di Parigi, che fu, come a dire, la introduzione della sanguinosa commedia, in cui i gerofanti della setta anticristiana prelusero a tutto il tema dell’opera scellerata, che era per rappresentarsi sul teatro della civile Europa, in presenza di Governi e di popoli indegnamente traditi. Una cosa sola rimase chiaramente constatata in quel Congresso, cioè il totale isolamento dell’Austria, il perfetto accordo delle tre Potenze Occidentali e la insipiente indifferenza dei Potentati del Nord, che nella ruina dell’Austria e nella proclamazione dei nuovi principii d’un inaudito diritto, non seppero o non vollero scorgere l’elemento di distruzione di tutti i troni. Era la solita guerra delle Potenze massoniche contro gli Stati cattolici, mentre la Russia e la Prussia spingevano da pezza l’Austria verso la sua ruina: testimonio il trattato di divisione della Polonia del 1772, opera dell’empia Caterina e dell’incredulo Federigo, siccome fu anche poi quello del 1795. [...].

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    [Capo III]

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    Capo IV Intrighi

    [...] Il Lamartine nel suo periodico mensile intitolato: Cours familier de littérature — un entretien par mois, fascicolo del mese di Agosto 1860, trattando delle tristizie politiche dei libri di Niccolò Macchiavelli, giudica nel seguente modo il Congresso di Parigi:

    "Alla voce di un Ministro piemontese il Congresso del 1856, contro tutti i principii di diritto pubblico internazionale, s’arrogò illegalmente un diritto di intervento arbitrario nel regime interno delle sovranità straniere. Napoli, Roma, Parma, la Toscana, l’Austria, furono denunziate siccome volgari colpevoli davanti al tribunale del Piemonte, della Francia e dell’Inghilterra. Un simile sbaglio contro il diritto non poteva fare a meno di generare il disordine al di fuori; era questo il principio del caos europeo.

    "L’indipendenza e la responsabilità dei Sovrani in faccia ai loro popoli essendo distrutte, ognuno aveva diritto di comandare in casa altrui, ma non in casa propria. Il diritto di consiglio creava il diritto di reciproco intervento militare, da questo diritto d’intervento reciproco derivava e deriva tuttavia il timore di continua guerra tra i vicini; all’opposto del diritto di civiltà, che è l’indipendenza dei popoli in casa loro.

    "Il Piemonte, che dalla compiacenza o dalla sorpresa, nel Congresso del 1856 aveva ottenuto un simile principio, non tardò a servirsene. La guerra detta dell’indipendenza scoppiò perciò in Italia. Questa guerra per contiguità si estese dal Piemonte a Parma, a Modena, alla Toscana, agli Stati del Papa, ed ora si sta deliberando a Parigi ed a Londra nei consigli della Gallia e della Gran Brettagna su ciò che sarà tolto o conservato del Principato temporale del Papa e degli altri Stati in Italia! Questa sola deliberazione è un intervento chiarissimo, distruggitore d’ogni diritto pubblico e d’ogni indipendenza italiana; quindi qualunque cosa voi pronunzierete, pronunzierete male. Perché voi, o Europa, al Congresso del 1856 a Parigi, vi siete arrogata, alla voce di un Ministro piemontese, il diritto di deliberare sull’interno regime dei popoli! Questa sola deliberazione sull’ultimo villaggio italiano è una usurpazione o sulla sovranità dei governi, o sopra la libera volontà dei sudditi.

    "Non c’ingannammo nel 1856 leggendo questo irregolare intervento concesso al Piemonte negli affari interni del Papa, del Re di Napoli e delle altre Potenze italiane; lo dissi a me stesso: è una dichiarazione di guerra sotto la forma di una sottoscrizione di pace. Noi discutiamo oggidì sulle conseguenze di questa linea inserita nel protocollo del Congresso del 1856. Che diverrà il Potere temporale del Papato se l’Europa è conseguente? Che diverrà l’Italia se l’Europa si ritratta? Questo diritto d’intervento reciproco, emanato dal Congresso di Parigi nel 1856, è la fine del diritto pubblico europeo. Il Diplomatico piemontese ha teso un tranello al Congresso, e il Congresso vi è caduto dentro. Non ne uscirà se non riconoscendo il diritto contrario".

    E il Lamartine giudicava rettamente: ma a comprovare quali e quanti intrighi adoperasse il famoso Conte di Cavour in quella circostanza, a fine di ottenere l’ingrandimento del Piemonte a danno degli altri Stati italiani, giova riportare una serie di documenti, prolissa se vuoi, ma efficace mezzo di convinzione.

    I. Ai 28 dicembre 1855 Cavour indirizzava una nota verbale ai Rappresentanti di Francia e Inghilterra a Torino ai quali diceva che: "dopo aver divisi pericoli e gloria nella guerra di Crimea, la Sardegna spera di avere la sorte che nelle prossime conferenze si rivolga l’attenzione dei grandi Potentati sul lagrimevole stato d’Italia, dove in alcuni luoghi si è perduta ogni idea di giustizia e di equità" * [Nicomede Bianchi. Documenti editi ed inediti di Cavour. Torino 1863].

    II. Nel gennaio 1856 l’istesso Cavour dirigeva all’Imperatore dei Francesi un memorandum sulla situazione d’Italia, nel quale tra le altre cose diceva: "esser necessario di forzare il Re di Napoli a non più scandalezzare l’Europa civile con un contegno contrario a tutti i principii di giustizia * [È da ricordare in questo luogo che il Card. Wiseman, di venerata memoria, Arciv. di Westmister, prese in Inghilterra le difese del Re di Napoli, tanto calunniato da Palmerston e da giornali del suo colore, affermando che la vita del povero ma parco Napoletano, contento del suo governo, era preferibile le mille volte alla miseria delle classi industriali inglesi ed irlandesi].

    III. Nello stesso mese di gennaio, avviate le prime prattiche diplomatiche a Parigi, Cavour scrive a Rattazzi in Torino: "ho avuto lunga conversazione con Lord Cowley, e ne son rimasto soddisfatto. Egli si è mostrato disposto a secondare i quattro punti della mia lettera: 1° indurre l’Austria a far giustizia al Piemonte; 2° a concedere riforme alla Lombardia e Venezia; 3° a sgombrare dalle Romagne e Legazioni, per le quali è da destinarsi un Principe secolare, e ristabilire così l’equilibrio in Italia; 4° forzare il Re di Napoli a mutare regime governativo, che egli crede andare a genio anche all’Imperatore Napoleone".

    IV. Ai 29 febbraio del medesimo anno altra lettera del Cavour a Rattazzi: "Ho reso conto, dicevagli, in un dispaccio riservato, della conversazione che ho avuta ieri coll’Imperatore. — Non ho molto da aggiungere a quanto in essa ho detto. Solo posso assicurarla, che realmente l’Imperatore avrebbe volontà di fare qualche cosa per noi. Se possiamo assicurare l’appoggio della Russia otterremo qualche cosa di reale".

    In questo mentre si stabiliva su alcuni punti principali una piena ed intera intelligenza tra Napoleone III e Cavour. Da un dispaccio riservatissimo di costui al Conte Cibrario, Ministro degli affari esteri a Torino (24 Marzo 1856), risulta aver egli convenuto coll’Imperatore dei Francesi, che la questione italiana sarebbe posta in campo nelle conferenze, sotto l’aspetto restrittivo di due questioni speciali: questione delle Romagne e questione napolitana; che la prima di queste sarebbe più specialmente mossa dal Piemonte, la seconda dalla Francia. Ciò quanto all’attualità; riguardo all’avvenire poi, il Governo di Torino promette favoreggiare con ogni suo mezzo i maneggi di Murat, cui passerebbe a suo tempo il regno di Napoli. Napoleone assicura in massima la formazione, a tempo opportuno, di un gran regno al settentrione d’Italia a favore di Casa Savoia verso compensi territoriali alla Francia. Il Piemonte era disposto a cedere le due Sicilie a Murat, posto che ottenesse per se il Lombardo-veneto * [È strano vedere come da scrittori piemontesi venga affermato essersi promossa per insinuazione di Napoleone la questione italiana da presentarsi al Congresso di Parigi. "Cavour, scrive Brofferio, al Congresso di Parigi, pensava tanto a fare l’avvocato d’Italia, come a cantar vespero col Patriarca di Costantinopoli. Fu l’Imperatore Napoleone che gli rivelò primiero i suoi progetti a favore d’Italia, e lo eccitò a presentare il famoso Memorandum che era tutto opera dell’istesso Napoleone" (Brofferio — I miei tempi — Torino 1860, vol. XIV. pag. 77). E in conferma di ciò un altro scrittore piemontese aggiungeva: "Non fu il Conte di Cavour a suscitare la questione Italiana al Congresso di Parigi, dove nulla si disse che l’Imperatore di Francia non avesse prima voluto; e le parole dello Inviato piemontese non furono che l’eco di ciò che a Napoleone piacque per le sue mire future, e giovava che si dicesse fin d’allora" (Opuscolo pubblicato a Torino nel 1860 dalla Unione tipografica da G. S., col titolo: Cavour e la Opposizione). — Napoleone III mentre sentiva la necessità di obbedire alla frammassoneria, cui aveva giurato fedeltà, voleva consolidare sul Trono la propria dinastia facendo cogl’intrighi diplomatici quello che Napoleone I, aveva fatto colle armi. Ad ogni modo, per imparzialità di storici, notiamo la contraddizione tra cotesti autorevoli scrittori piemontesi e i documenti che stiamo recando].

    Al quale dispaccio il ministro Cibrario risponde ai 24 marzo al Cavour, dicendo: "Accuso ricevimento dei vostri dispacci n. 22 e 23 e della vostra lettera confidenziale de’ 24. Apprendo da questa ultima tutte le difficoltà che avete dovuto superare per ottenere che il Congresso s’intrattenesse della questione degli Stati romani, questo minimum, ove ostacoli insormontabili hanno forzato di ridurre per ora l’opera di rigenerazione in Italia. Se le Grandi Potenze potessero determinarsi a portare le loro vedute al di là degli interessi e dei timori del momento, noi non avremmo a dubitare del felice esito di queste proposte. Ma, con la premura che si è manifestata per la pace, vi ha luogo a temere che il desiderio di riposo, la tendenza ad evitare ogni soggetto di discussione coll’Austria, non facciano soprassedere a questi progetti pure come agli altri. Lodo che siate riuscito a fare penetrare l’Imperatore del pericolo che vi sarebbe, abbandonando l’Italia al suo stato attuale, come de’ motivi sì possenti per lo equilibrio di Europa e gli interessi medesimi della Francia, i quali consigliano di fare al Piemonte una posizione abbastanza forte da potere conservare un’attitudine indipendente rispetto all’Austria e controbilanciare la sua influenza. Si può sperare che l’Imperatore, di cui la saggezza e la tenacità sono conosciute, saprà preparare le vie per la realizzazione dei disegni che egli si sarebbe in qualche modo appropriati * [Noi abbiamo arrecato più sopra l’autorità di due importanti scrittori piemontesi, che attribuiscono a Napoleone l’iniziativa della questione italiana. Questo dispaccio del Cibrario sembra però infermare quella opinione quando dice "che egli (Napoleone) si sarebbe in qualche modo appropriati i disegni di Cavour"; ma pur troppo Napoleone era il vero depositario del segreto della Frammassoneria fin da quando, in contracambio dei suoi giuramenti contro la Chiesa, ne aveva formale promessa del ristauramento dell’Impero dello Zio, con lui alla testa]" (Delle recenti avventure d’Italia del Conte Ernesto Ravvitti. — Venezia 1865 Tom. I. pag. 144).

    V. Al Congresso di Parigi, ai 27 marzo 1856, i Plenipotenziarii sardi, Cavour e Villamarina, cominciano col presentare una Nota verbale ai Rappresentanti di Francia e d’Inghilterra (i soli che davano loro ascolto, mentre quelli di Russia, di Austria e di Prussia non li curavano) "per chiamare la loro speciale attenzione sullo stato d’Italia" (Atti uff. della Camera n. 257 pag. 964). [...]

    VI. Ai 9 di Aprile 1856, da Parigi Cavour dà conto a Rattazzi della tempestosa tornata del giorno precedente, quando essendosi firmato il trattato di pace con la Russia, egli principia le sue mene contro i Principi italiani, e dice: "Walewski è stato esplicito in quanto a Napoli, parlandone con biasimo severo. Clarendon ha mostrato grande energìa sullo stesso proposito contro il Papa, il cui Governo ha definito essere una honte pour l’Europe, e contro il Re di Napoli ha usato parole che solo Massari avrebbe saputo pronunziare; egli ha creduto far uso di un linguaggio estraparlamentare, convinto di non poter altrimenti arrivare ad un risultato pratico. Uscendo dalla seduta, ho detto a Clarendon: — Milord, voi vedete che nulla vi è a sperare dalla Diplomazia; sarebbe tempo di ricorrere ad altri mezzi, almeno per ciò che riguarda il Re di Napoli. — Clarendon mi ha risposto: — Certamente bisogna tosto occuparsi di Napoli. [*...] — Nel lasciarlo ho detto che sarei andato a parlargliene in casa. Penso proporgli di gettare per aria il Bomba; bisogna fare qualche cosa; l’Italia non può restare come è: Napoleone ne è convinto, e se la diplomazia è impotente, dobbiamo ricorrere a mezzi estralegali. Io sono propenso alle misure estreme e temerarie: oggi l’audacia è la miglior politica" (A. P. p.281).

    Rattazzi gli risponde: — "Avete ragione; talvolta i mezzi estremi sono necessarii. Ma non temete voi, che l’Inghilterra non vi abbandoni quando si tratterà di marciare contro l’Austria? In quanto a Napoli, quale che sia la soluzione, sarà sempre un gran passo fatto se si cacciano i Borboni" (Nicomede Bianchi p. 39).

    VII. Il giorno 11 dell’istesso mese, così scriveva di nuovo a Rattazzi: "...Ieri ho avuta la seguente conversazione con Clarendon: — Milord, da ciò che si è trattato nel Congresso emergono due cose: I°. Che l’Austria è decisa a persistere nel sistema di oppressione e di violenza verso l’Italia; 2°. che gli sforzi della Diplomazia sono impotenti a modificare il suo sistema. Conseguenze rincrescevoli ne risultano pel Piemonte, il quale ha due soli partiti a prendere: o riconciliarsi col Papa e con l’Austria o prepararsi a dichiarare la guerra a questa; la quale ipotesi è la migliore. Io ed i miei amici non temeremo di prepararci ad una guerra terribile, una guerra a coltello, the war to the Knife, e mi arrestai in questo punto. — Clarendon, mi rispose: — Credo che abbiate ragione; la vostra posizione è difficile; capisco che uno scoppio è inevitabile; non è però giunto ancora il momento per parlarne a voce alta. — E io replicai: — Vi ho dato pruove della mia moderazione e della mia prudenza; credo che in politica bisogna esser molto riservato in parole, ed eccessivamente deciso nello agire; vi son posizioni nelle quali vi è men pericolo in una mossa di audacia, che in un eccesso di prudenza: io son persuaso, con Lamarmora, esser noi in istato di cominciare questa guerra, e per poco che duri voi sarete costretti ad aiutarci. — Al che Clarendon ripigliò con vivacità: — Oh! certamente, se vi troverete in imbarazzo, potrete contare su noi e vedrete con quale energia correremo ad aiutarvi * [Tardiva, ma sempre autorevole rivelazione è quella del giornale inglese il Times dei 24 marzo 1864, quando dice: "La sorte che toccò ai Borboni di Napoli ed al Papa nella perdita de’ loro dominii fu in non lieve grado promossa dalle denuncie di Lord Palmerston e dal signor Gladstone". — Tra i frenetici applausi con che nell’aprile 1864 è stato accolto nella Inghilterra Garibaldi, questi francamente ha proclamato nei ricevimenti officiali: 1° "Nel 1860 senza l’aiuto della Inghilterra sarebbe stato impossibile compiere ciò che facemmo nelle Sicilie" (4 aprile 1864, risposta allo indirizzo del Major di Southampton). II° "Senza l’aiuto di Palmerston, Napoli sarebbe ancora Borbonica, e senza l’Ammiraglio Mondy non avrei potuto giammai passare lo stretto di Messina" (ai 16 detto, nel palazzo di cristallo a Londra). [...]]. — Non mi spinsi oltre, e mi limitai a poche espressioni di simpatia per lui e per l’Inghilterra. Potrete giudicare da voi stesso della importanza delle parole pronunziate da un Ministro che è riputato prudente e circospetto.

    "L’Inghilterra, che vede di mal occhio la pace, son certo che coglierebbe con piacere la opportunità di una guerra, e di una guerra così popolare come quella della liberazione d’Italia * [La pace infatti fu conchiusa in modo inatteso e malgrado dell’Inghilterra, che fin d’allora voleva andare al fondo della questione d’Oriente e finirla con la Russia. Ma Napoleone, che faceva assegnamento su di questa pel compimento dei suoi disegni sull’Italia, e dei suoi progetti muratteschi sulle Due Sicilie; isolata l’Austria, stese la mano, come a dire al di sopra dei tetti, al mezzo vinto di Pietroburgo, obbligando gli alleati, di buona o di cattiva voglia non importa, a far la pace con lui]. Perché dunque non profittiamo di questa sua disposizione, e tentare uno sforzo per compiere i destini di Casa Savoia e del nostro paese? Trattandosi intanto di una questione di vita o di morte, bisogna procedere con circospezione; ond’è che credo conveniente recarmi a Londra per conferire con Palmerston e con gli altri capi del Governo. Se costoro partecipano al modo di vedere di Clarendon, bisogna prepararsi segretamente; fare un prestito di 30 milioni, ed al ritorno dirigere un ultimatum all’Austria, tale che non possa accettarlo e sia costretta a cominciare la guerra; alla quale l’Imperatore non saprebbe opporsi, anzi in cuor suo la desidera: egli certamente ci aiuterà se vedrà l’Inghilterra disposta ad entrare in lizza. D’altronde io prima di partire gli terrò un discorso analogo a quello che ho già tenuto a Clarendon. Le ultime conversazioni, che ho avute con lui e con i suoi Ministri, erano di natura a preparare la via ad una dichiarazione di guerra. — L’unico ostacolo è il Papa: che fare di esso in caso di una guerra italiana? Spero che, leggendo questa lettera, non mi crederete colpito da una febbre cerebrale: al contrario la mia intellettuale sanità è eccellente e non mi son mai sentito così calmo da acquistarmi la riputazione di moderato [*...]. Spesso me lo dice Clarendon: il Principe Napoleone mi rimprovera di mollezza ed anche Walewski mi accusa di riservatezza. In verità son persuaso potersi azzardare un passo audace con gran probabilità di successo ecc. * [I fatti posteriori han confermato queste espressioni di Cavour. Nel famoso discorso del Principe Napoleone, alla seduta del Senato francese 1 marzo 1861, si dice: "Io non farò che un rimprovero al mio onorevole amico il Conte di Cavour, ed è di non essere stato abbastanza franco a fronte delle Due Sicilie: egli avrebbe dovuto forse gridare pubblicamente, e lealmente ripetere ciò che diceva in segreto; cioè "non posso oppormi al movimento delle Due Sicilie, non posso impedire la partenza di Garibaldi", egli avrebbe dovuto confessarlo apertamente e non l’ha osato". — L’oratore non può d’altronde fare a meno in questo discorso, comunque favorevolissimo al Piemonte, di convenire che "la condotta politica del Governo di Torino verso quello di Napoli non ha evidentemente rispettato il diritto"]" (De la Rive pag. 354).

    In seguito, come abbiam veduto, Lord Clarendon smentì in parte la iattanza di questa lettera; ma il fece quando Cavour era morto, né poteva più rispondere.

    VIII. Ai 14 di Aprile 1856 altra lettera di Cavour a Rattazzi. "Ieri, scrive egli, lunga conversazione al pranzo del Principe Napoleone. Costui e Clarendon mi han detto di aver parlato a pieno coll’Imperatore Napoleone sugli affari d’Italia, dichiarandogli che l’Austria metteva il Piemonte in una difficile posizione, e bisognava ritrarnelo. Clarendon affermava apertamente che il Piemonte potrebbe essere spinto a dichiarare la guerra all’Austria, nel qual caso bisognerebbe necessariamente prender parte per lui. L’Imperatore si è mostrato colpito da questa osservazione, rimanendone impensierito; dopo di che ha espresso il desiderio di conferir meco. Spero convincerlo di essere impossibile rimanere nella posizione in cui siamo, per la condotta ostinata ed irritante dell’Austria. — Io son prevenuto delle sue simpatie per l’Italia e per noi, e penso che darà pruove della risoluzione e della fermezza, che lo distinguono. Se il Governo inglese divide la opinione di Clarendon, non ci mancherà anche l’aiuto dell’Inghilterra. Il Principe Napoleone fa meglio che può per noi, e manifesta apertamente il suo odio per l’Austria ecc." (De la Varenne, pag. 255).

    IX. In altra lettera del dì seguente lo stesso Conte dice così:

    "Ho visto l’Imperatore e gli ho parlato, come feci con Clarendon, ma con minor veemenza. Mi ha udito in modo benevolo; ma mi ha risposto che sperava persuadere l’Austria ad accettar consigli più concilianti. Egli mi ha narrato che nel pranzo ultimo aveva detto al Conte Buol, rincrescergli di doversi trovare in opposizione diretta con l’Imperatore d’Austria sulla questione italiana; per lo che Buol erasi recato da Walewski per esprimergli la premura dell’Austria di render contento Napoleone in tutto, aggiungendo di non avere l’Austria altra alleata che la Francia, alla cui politica intendeva uniformarsi. Io mi son mostrato incredulo, ed ho insistito sulla necessità di prendere una decisiva attitudine, e per intavolare la questione nel domani, avrei consegnata una protesta a Walewski. L’Imperatore si mostrò perplesso, e mi consigliò recarmi a Londra, spiegarmi nettamente con Palmerston, e riveder lui al ritorno. Sembra vero che l’Imperatore avesse parlato a Buol (tanta era la fede che si aveva alle parole di Napoleone); perché costui dopo l’ultima sessione mi si è avvicinato facendomi infinite proteste sulle buone intenzioni dell’Austria verso di noi, sul desiderio di conservare la pace, ed altre corbellerie. Io gli ho risposto, di non aver egli dato prove di questo suo desiderio durante il suo soggiorno a Parigi, ed esser io convinto che le nostre relazioni fossero peggiori di prima, concludendo rincrescermi che nell’atto di separarci divenissero non buoni i nostri rapporti; ma che avrei conservata memoria del nostro personale incontro. Buol mi strinse affettuosamente la mano dicendo: — Spero che anche politicamente non saremo sempre nemici. — Da queste parole ho capito che Buol è spaventato dalle manifestazioni della pubblica opinione a nostro favore. Il russo Orloff mi ha fatto mille proteste di amicizia: ha riconosciuto essere intollerabile la posizione, e mi permette quasi di sperare che il suo Governo si presterebbe volentieri a mettervi un termine. Il Prussiano ha del pari imprecato contro l'Austria. In breve ancor quando nulla avessimo guadagnato in pratica, la nostra vittoria, in quanto alla opinione pubblica, è sicura" (De la Varenne. Lettres inédites de Cavour. Paris 1862. p. 258).

    X. Cavour scriveva di nuovo a Rattazzi, giovedì alle ore 6 di sera: — "In punto di partire per Londra vi scrivo per informarvi di una mia lunga conversazione con Clarendon, stato due ore prima presso l’Imperatore, che al suo rammarico sugli infruttuosi tentativi a favore d’Italia, aveva risposto: Vi autorizzo a dichiarare al Parlamento di aver io la intenzione di richiamare le mie milizie da Roma, ed obbligare l’Austria a richiamare le sue dalle Legazioni; e che io ne parlerò in tuono alto quando occorrerà. — L’Imperatore aveva aggiunto: esserglisi fatte da Buol le più solenni promesse; e che egli s’impegnava ad unirsi all’Inghilterra per chiedere un’amnistia al Re di Napoli in tale tono da non ammettere rifiuto, vale a dire con la minaccia di far partire una squadra. Clarendon mi ha soggiunto esser egli sicuro che, se l’Austria non ismettesse, o che almeno non modificasse il suo sistema in Italia, la Francia e l’Inghilterra ve la costringerebbero fra un anno,ed occorrendo, anche colle armi".

    XI. In altra lettera al Rattazzi Cavour diceva: "Sono a Londra da tre giorni senza nulla conchiudere * [Ritornato Cavour a Torino si ritenne come abbandonato dall’Inghilterra. Questa non poteva non essersi avveduta delle mene murattiste di Napoleone III col Piemonte]. Ho trovato Palmerston molto addolorato per la morte di Lord Cooper suo figliastro. Tutte le combinazioni di d’Azeglio son dunque fallite. Ho visitato Palmerston, ma in verità non potevo troppo avanzarmi sul soggetto pel quale dovevo intrattenerlo. Mi ha detto di aver ricevuto lettere recenti di Clarendon con migliori notizie, e che egli non trovava ragione per disperare. Veggo non potersi azzardare una seria conversazione fino al ritorno di Clarendon. Ho veduto varii uomini politici che si pronunziano tutti a favore della nostra causa. I Tories non sembrano meno benevoli dei Wighs, ed i protestanti effervescenti col loro capo Lord Shaftesbury sono i più entusiasti; a sentire i quali, voi direste che l’Inghilterra è pronta ad una crociata contro l’Austria" (De la Varenne p. 264).

    XII. Ai 24 di Aprile altra lettera di Cavour a Rattazzi: "Vi scrivo due righe per dirvi che domani parto per Parigi. Se posso ottenere una udienza dall’Imperatore per sabato, partirò nel domani per Torino. Non ho riveduto Palmerston, ed oggi soltanto vedrò Clarendon; ma ho parlato a’ membri più influenti della opposizione, tanto Tories che radicali. Ho trovato che sono ben disposti a nostro riguardo" (De la Varenne, pag. 267).

    XIII. Ai 16 di Aprile veniva emessa la seconda Nota diplomatica di Cavour e di Villamarina, da noi arrecata, onde, in continuazione della precedente dei 27 marzo, ricorrono a più pressanti argomenti per ispingere il Congresso ad intervenire nelle cose interne d’Italia. Intanto la favilla accesa dall’astuzia bonapartesco-cavourriana era causa immediata di nuove e più violenti agitazioni in Italia. Basta consultare il giornalismo torinese di quell’epoca per convincersene.

    Il Risorgimento, giornale di Cavour, diceva: "Il protocollo del Congresso sarà la scintilla d’irresistibile incendio".

    L’Opinione di Torino esclamava: "Per la prima volta un Congresso diplomatico ha riconosciuto i torti dei Governi, e giustificati i fremiti delle popolazioni".

    Il Cittadino d’Asti soggiungeva: "Marciamo di nuovo avanti la rivoluzione. Il Conte di Cavour nel Congresso ha dato un impulso vigoroso all’agitazione in Italia, ed ora non ci rimane altro che a mettere in opera tutti i mezzi possibili, perché la si mantenga e duri... fino a che giunga il giorno decisivo".

    Il Diritto, N. 98, diceva: "Se gl’Italiani pensano potersi riconciliare, che lo facciano, altrimenti che si rivoltino".

    L’Italia e Popolo, N. 113, aggiungeva: "Che gl’Italiani si sollevino, e sappiano di non transiger mai coi Governi contro i quali si rivoltano".

    Da quel momento l’odio rivoluzionario scatenava i suoi furori per le istruzioni venute da Torino e da Genova contro la Dinastia di Napoli. Tutti gli organi di pubblicità venduti alla setta incominciavano a vomitare, con inaudito cinismo, le maggiori calunnie contro quel Governo, convertendone in altrettanti torti gli stessi meriti; e la Diplomazia vi dava alimento coll’autorità dei suoi atti. Altrettanto facevasi, nelle stabilite proporzioni, contro i minori Stati italiani.

    Ai 19 di maggio 1856 il Ministro degli affari esteri della Gran Brettagna esponeva in faccia al mondo stupefatto i motivi sui quali il Governo inglese si fondava per raccomandare a quello delle Due Sicilie di accordare un’amnistia generale, e di operare talune riforme e miglioramenti: affermando tali sue premure derivare dal profondo convincimento del pericolo imminente che corre l’Italia, a causa del minaccioso aspetto degli affari di Napoli. Protestava i suoi sentimenti di amicizia pel Re, al quale intendeva dare avvisi amichevoli, per provare la sincerità di quei sentimenti, per disporre il Re ad accogliere favorevolmente quei consigli, e per comprovargli "che nessuna potenza straniera ha diritto d’intervenire negli affari interni di un altro regno". — Il Ministro suddetto parla del regime interno delle Due Sicilie, e senza esitare, prende il tono di rimprovero e la parte di accusatore; ne censura l’amministrazione interna come sistema di rigore e di ingiuste persecuzioni, condannato da tutte le nazioni civilizzate, ed insiste sulla necessità di dare garanzie per la debita amministrazione della giustizia, e per far rispettare le libertà personali e le proprietà. Insomma il Ministro esige, che si adotti una politica più in armonia allo spirito del secolo * [Altrettanto si chiedeva non ha guari, e ben con altra ragione, dalla Russia contro la Turchia; ma l’Inghilterra, quella che venti anni orsono chiedeva garanzie al Re di Napoli per torti immaginarii, le negava ora per favorire il Turco, che sgozza impunemente i Cristiani nei proprii paesi, e ammazza in una pubblica Moschea di Salonicco i Rappresentanti stessi di due delle principali Potenze europee].

    Il Walewski ministro di Napoleone III faceva altrettanto, e anche in modo più impudente, in una sua Nota del 21 maggio [...].

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    Capo V Rivelazioni

    [Parea, scrive l’Unità Cattolica del 15 febbraio 1874, che ormai non ci potessero più rivelare nulla di nuovo sul conte di Cavour, dopo ciò che ce ne dissero Domenico Berti, Nicomede Bianchi e Carlo Persano. Eppure] la Lombardia ha saputo [ancora] scoprire una lettera, da cui risulta che Adelaide Ristori fu riguardata dal conte di Cavour come l’Apostolo del Regno d’Italia, perché si adoperò molto alla conversione dei diplomatici a Pietroburgo e a Parigi. [Più innanzi riferiamo la lettera; ma poiché, non tutti i nostri lettori hanno usato od usano a’ teatri, parecchi ignorano chi sia la Ristori, così ne daremo un breve cenno biografico.

    Nacque nel 1821 a Cividale del Friuli, e i suoi genitori, che comparivano sulle scene, vi posero pure la figlia, ancora bambina di due mesi, nella commedia di Giraud, L’Aio nell’Imbarazzo. Fatta grandicella proseguì in quella carriera, e fu allieva ed emula della Marchionni e della Robotti. Nel 1844 era già uno degl’idoli sollevati dalla Rivoluzione per raccogliere ed entusiasmare le masse popolari, come la ballerina Cerrito ed altrettali. Finché nel 1847 Giuliano Capranica, marchese del Grillo, se la tolse in moglie, e la Ristori allora abbandonò, per poco, il teatro.

    Vi tornò più tardi, consacrandosi principalmente alla tragedia, e studiando i capolavori dell’Alfieri, che rappresentò la prima volta in Roma nel 1849, quando i Francesi assediavano l’eterna Città. Poi andò in Torino, e girò la Penisola riscuotendo frenetici applausi nella Mirra, nella Francesca da Rimini e nella Maria Stuarda. Nel 1855, poco prima del celebre Congresso, andò a Parigi, e riportava su que’ teatri i più splendidi trionfi, oscurando la famosa Rachel. Il nome della Ristori era sulle bocche di tutti, si dava alle diverse foggie dei mantelli, leggevasi su tutti i negozi ed in ogni giornale. Lamartine le dedicò i suoi versi, e il Governo del Bonaparte la voleva incorporata alla Comédie Française.

    Ma essa amò meglio dimostrarsi nelle maggiori capitali d’Europa. Alla fine del 1857 era in Ispagna, applaudita col solito entusiasmo; durante la guerra d’Italia tornava a Parigi; nel 1860 fu in Olanda, e sul cominciare del 1861 a Pietroburgo. Dalla lettera che le scrisse il conte di Cavour impariamo, che la Ristori a Pietroburgo cercò di convertire il principe di Gorschakoff, il quale avea trovato nell’ingresso de’ Piemontesi nelle Marche, nell’Umbria e nel Regno di Napoli, una solenne infrazione del diritto delle genti, richiamando perciò da Torino il Rappresentante della Russia.

    Ai 20 di aprile del 1861 il principe di Gorschakoff non s’era ancora convertito, e il conte di Cavour scriveva alla Ristori: "Conviene che esso sia un peccatore impenitente, giacché gli argomenti che ella seppe con tanta abilità adoperare per sostegno della nostra causa mi paiono irresistibili". Confidava tuttavia che le parole della Ristori "avessero lasciato nell’animo del Gorschakoff un germe, che si svilupperà e darà buoni frutti". Diffatto, il 12 di luglio del 1862, la Russia riconosceva il Regno d’Italia, come appare dalla Gazzetta Ufficiale, numero 164.

    Seguendo l’avviso del conte di Cavour, che eccitava la Ristori "a continuare il suo patriottico apostolato", nel 1862 essa andava a Berlino, dove erano altri increduli da convertire, e, in capo a tutti, il Sovrano. E la missione della tragica italiana ottenne anche là frutti copiosi, giacché Guglielmo I le decretava la medaglia destinata ai benemeriti delle scienze e delle arti; ed ai 21 di luglio dello stesso anno riconosceva il Regno d’Italia (Gazzetta Ufficiale, 28 luglio 1862).

    Noi veggiamo sempre Adelaide Ristori là dove si agita la Rivoluzione e, con essa, le sorti italiane. Andata a Costantinopoli nel 1864, torna presto a Parigi, e vi si trova nel 1866 durante la guerra della Prussia e dell’Italia contro l’Austria. Il libro del generale la Marmora, Un po’ più di luce ecc., ci racconta quanto importasse a que’ dì aver amici a Parigi, e noi siamo certi che Adelaide Ristori si sarà adoperata per l’acquisto della Venezia. Dopo viaggiò agli Stati Uniti d’America, dove dicono che in una sola serata guadagnasse meglio di ottanta mila lire; quindi percorse l’America del Sud, il Brasile, la Plata, la Confederazione Argentina. Ma sul cominciare del 1870 trovavasi di bel nuovo a Parigi pel suo apostolato, che finì colla catastrofe del Governo Napoleonico e colla presa di Roma, dove la Ristori corse subito a rappresentare commedie nel profanato palazzo apostolico del Quirinale.

    Noi speriamo, conchiude l’articolo dell’Unità Cattolica, che riassumiamo, che più tardi essa vorrà stendere le sue memorie politiche o diplomatiche, da cui risulterà quanti diplomatici, che non credevano al Papa, si arrendessero poi alla autorità irresistibile di Adelaide Ristori. [In attesa di queste memorie, noi] rechiamo [per ora] la lettera del conte di Cavour [, che è la seguente]:

    Torino, 20 aprile 1861.

    Cara signora marchesa,

    Le sono gratissimo dell’interessante lettera che ella mi scrisse ritornando da Pietroburgo. Se ella non ha convertito il principe di Gorschakoff, conviene che esso sia un peccatore impenitente, giacché gli argomenti, che ella seppe con tanta abilità adoperare per sostegno della nostra causa, mi paiono irresistibili. Ma mi lusingo che, se il Principe non volle in sua presenza mostrarsi ricreduto, le sue parole avranno lasciato nell’animo suo un germe, che si svilupperà e darà buoni frutti.

    Continui a Parigi il patriottico suo apostolato. Ella deve trovarsi in mezzo ad eretici da convertire, giacché mi si assicura essere la plebe dei saloni a noi molto ostile. È di moda ora in Francia l’essere papista, e l’esserlo tanto più che si crede meno ai principii che il Papato rappresenta. Ma, come tutto ciò che è moda e non riposa sul vero (?!), questi pregiudizi non dureranno, massime se le persone, le quali, come lei, posseggono in grado eminente il dono di commuovere e persuadere, predicheranno la verità in mezzo a quella società, che, ad onta di molti difetti, più d’ogni altra sa apprezzare il genio e la virtù.

    Mi congratulo dello splendido successo, che ella ha ottenuto sulle scene francesi. Questo nuovo trionfo (il trionfo di una commediante!) le dà un’autorità irresistibile sul pubblico di Parigi, che deve esserle gratissimo del servizio che ella rende all’arte francese. Se ne serva di questa autorità a prò della nostra patria, e io applaudirò in lei non solo la prima artista d’Europa, ma il più efficace cooperatore dei negozii diplomatici.

    Mi voglia bene e mi creda

    Suo devotissimo,

    C. Cavour.

    Ma la Ristori non era il solo istrumento di tal genere al servizio della Rivoluzione. In un raro libro, stampato in poche copie a Firenze nel 1872 dallo stabilimento di Giuseppe Civelli, intitolato: Il Conte Luigi Cibrario e i tempi suoi; memorie storiche di Federico Odorici, dedicato alla Repubblica di S. Marino, citato anche dalla Unità Cattolica e dal Diritto Cattolico [...], troviamo alcuni documenti, dai quali stralciamo i più interessanti [...].

    Uno dei primi documenti raccolti riguarda il famoso Congresso di Parigi, [...] nel quale ebbe principio l’ultima guerra mossa al Papa e ai Principi legittimi d’Italia. La importantissima lettera del Cavour al Caro Cibrario [...] dice abbastanza chiaramente, come s’incominciasse l’opera d’instaurazione dell’ordine morale negli Stati del Papa, e in quelli degli altri Principi italiani. Dice abbastanza, come si combattesse Pio IX, e, prima di ottenere l’intervento francese in Lombardia, quale [...] intervento si usasse in Francia. Svela ancora altre ciurmerie della diplomazia piemontese di quei tempi. Il conte di Cavour partiva da Torino il 20 di febbraio, e sui primi di marzo scriveva a Luigi Cibrario la lettera, che trovasi nel citato libro di Federico Odorici, p. 116, e dice così:

    "Caro Cibrario,

    "Sono nove giorni che ho lasciata Torino, e vi ho già scritto tre volte, spediti dispacci senza fine, ecc. Spero che srete soddisfatto della mia corrispondenza. Credo bene, a discarico della vostra e mia responsabilità, di consegnare ne’ miei dispacci tutti i fatti interessanti, che mi vien fatto di constatare. Ho scritto al Re, riferendogli la conversazione, che m’ebbi ieri sera coll’Imperatore. Onde mostrargli la necessità del segreto, lo pregai di non farne parola al Consiglio. Potete però parlargliene in particolare. Rimandatemi al più presto Armillad coi documenti che ho chiesti a voi e a Rattazzi. Lunedì andiamo in iscena: se non piacevole, la cosa sarà curiosa. Intanto sono cominciati i pranzi ufficiali, e, se non le intelligenze, gli stomachi sono posti a dura prova. Vi avverto che ho arruolata nelle file della diplomazia la bellissima contessa di ... invitandola a coqueter (civettare) ed a sedurre, se fosse d’uopo, l’Imperatore. Le ho promesso, che, ove riesca, avrei richiesto per suo padre il posto di segretario a Pietroburgo. Essa ha cominciato discretamente la sua parte nel concerto delle Tuileries di ieri.

    "Vostro aff.mo

    Cavour"

    [...] L’8 di settembre del 1855 cadeva Sebastopoli. Allora il conte di Cavour, non era più Ministro degli affari esteri, ma solo presidente del Ministero, giacché ai 31 di maggio del 1855 il portafogli degli affari esteri era stato affidato a Luigi Cibrario, che lo tenne fino ai 29 di aprile 1856. Cavour scriveva dopo la caduta di Sebastopoli il seguente biglietto al ministro Cibrario.

    Torino, 15 Settembre 1855.

    "Penso che avrete diretto felicitazioni ad Hudson ed a Grammont per la presa di Sebastopoli. Vedete coi colleghi se non sia il caso di far cantare un Te Deum. Quando non fosse altro, avrebbe il risultato di fare arrabbiare i clericali ecc.

    C. Cavour.

    Fu allora pensato ad un viaggio di re Vittorio Emanuele in Francia ed in Inghilterra, e ve lo accompagnò il conte di Cavour, essendo Rappresentante sardo presso la Corte inglese il marchese Emanuele D’Azeglio. Vittorio Emanuele giunse in Londra il 5 dicembre del 1855, e fu accolto dalla Regina nel castello di Windsor. Il conte di Cavour scriveva al Cibrario la seguente lettera:

    "dal castello di Windsor, 6 dicembre 1855,

    "La cerimonia d’oggi superò la mia aspettativa. Il Re fu ricevuto in Londra nel modo più soddisfacente. Lesse mirabilmente il discorso, che Azeglio aveva preparato, e si comportò quale perfetto gentiluomo. Io mi lusingo che l’impressione, che la condotta e le parole del Re hanno prodotta sul popolo inglese, non si cancellerà così presto e sarà produttrice di buoni risultati per il nostro paese. Non ho perduto il mio tempo avendo avuto cura di parlare ai capi di tutti i partiti. Li ho trovati tutti unanimi per l’Italia. Ma... ed è il ma che vi spiegherò. Il Re aderisce alle vive istanze dell’Imperatore, e rimarrà un giorno di più a Parigi: non saremo quindi a Torino che mercoledì venturo, ecc.

    C. Cavour."

    Frattanto si facevano gli apparecchi per il Congresso di Parigi, dove il Regno di Sardegna veniva rappresentato dal conte di Cavour e dal marchese Salvatore di Villamarina. Il ministro Cibrario desiderava che il Piemonte guadagnasse qualche cosa in quel Congresso, e quindi aveva ideato di trasferire il Duca di Modena Francesco V nei Principati Danubiani.

    Il 21 febbraio 1856 giungeva in Parigi il conte di Cavour, e per prima cosa arruolava nelle file della diplomazia la bellissima contessa, di cui abbiamo parlato. [...] Federico Odorici, a pagina 116 del citato suo libro, scrive: "Le attrattive della contessa di ... pare non riportassero sulle prime gli sperati trionfi; poiché, avendo Cavour posto dinanzi lo scambio del territorio dal Cibrario suggerito, aggregando alla Sardegna i ducati di Parma e di Piacenza, fu dagli austriaci Legati, duramente respinto". Allora il conte di Cavour inventò un’altra proposta, e fu di dare al principe di Carignano in moglie la Duchessa di Parma, e mandarli ambedue a comandare nella Moldavia e nella Valachia. Ecco la lettera su questo argomento, che il conte di Cavour scriveva al ministro Cibrario:

    "Parigi, marzo 1856.

    "Faccio partire il corriere Armillad, per poter informare il Re e voi delle fasi della nostra negoziazione. Vedrete che, spaventato dalle difficoltà che il traslocamento del Duca di Modena ne’ Principati può sollevare, ho messo avanti un nuovo progetto, nel quale figura il Principe di Carignano. Ne scrivo direttamente al Re, e spero che S. M. non lo biasimerà. Non si tratta di esaminare quale dei due progetti sia da preferire, ma di vedere qual sia di meno impossibile esecuzione. Non conviene però tacere, che sì l’uno che l’altro incontrano gravissimo ostacolo nell’opposizione recisa della Turchia, e nella ripugnanza dell’Inghilterra ad esercitare la coazione necessaria per farla cedere. Avrei bisogno di essere ben chiarito sulla questione della reversibilità del Ducato di Modena. Non saprei ritrovare le regole che stabiliscono i diritti reciproci degli Arciduchi d’Austria. Discendenti da Beatrice, che portò alla Casa di Lorena i diritti di Casa d’Este e della Casa Cibo Malaspina, sovrana dei Ducati di Modena e di Carrara, non vi sono che il Duca regnante e il suo pro-zio, entrambi senza prole. Morendo questi, chi eredita? Carutti ha, credo, esaminata la questione. Fate d’illuminarmi su d’essa al più presto possibile.

    "C. Cavour."

    Dalla risposta, che il ministro Cibrario mandò da Torino al conte di Cavour, il 10 marzo 1856, risulta che l’Imperatore Napoleone III avea fatto realmente la proposta di mandare il Duca di Modena nei Principati danubiani; ma che vennero sollevate tre difficoltà, la terza delle quali non ammetteva replica. Quali fossero non dice il Cibrario.

    Il conte di Cavour rispondeva al ministro Cibrario con una lettera del 12 marzo del 1856, la quale fa cenno di altra lettera, che non conosciamo, ed anche di una, scritta allo stesso Cavour, tolta dall’Archivio Cibrario e riferita dall’Odorici a pag. 118, che è la seguente.

    "Parigi, 12 marzo 1856.

    "Ho ricevuta una vostra particolare, come pure una lettera del Re sulla questione parmense. Capisco quanto difficile sarebbe l’indurre il principe di Carignano ad andare in Valachia, conducendo prima all’altare quella tenera zitella della Duchessa di Parma. Nullameno parmi l’ostacolo non del tutto insuperabile; ma temo purtroppo che non avremo ad occuparcene, giacché i turchi si dimostrano feroci nella questione dei Principati. Non solo ricusano di abbandonare il supremo dominio, ma insistono per avere in mano le fortezze, che la Russia cede sulla sinistra sponda del Danubio. L’Inghilterra dice di non poter dispogliare i Turchi violentemente. La Francia quindi si trova sola, ad onta del suo buon volere. L’Imperatore non sa che cosa fare. Pure, essendo uomo di propositi tenacissimi, non ha dimesso il pensiero di far trionfare il primitivo progetto.

    "Per non perdere tempo, metto in campo la questione delle Romagne. Per questa avremo caldi ausiliarii negl’Inglesi, i quali sarebbero assai lieti di mandare il Papa al diavolo; ma troveremo un ostacolo nel desiderio dell’Imperatore di non mettersi male col Sovrano Pontefice. (Era atteso dall’Imperatore il suo primogenito che il Papa doveva tenergli al sacro Fonte.) Intanto sarà già un passo se otteniamo si parli dell’Italia, e che le Potenze occidentali reclamino la necessità di riformare lo stato di cose in essa esistente. — Basta, se non raccoglieremo gran che, avremo seminato per l’avvenire.

    "C. Cavour".

    Lo stesso conte di Cavour, sotto la data del 4 di marzo, aveva già scritto un’altra lettera al ministro Cibrario, ed anche questa merita di essere riferita:

    "Parigi, 4 marzo 1856.

    "La pace, come ve lo scrissi, è fatta a metà. Delle cose nostre non si è ancora parlato: spero se ne parlerà tosto, ma con quale esito nol so. La manìa di conciliare il Papa e di averlo a padrino ha tutto guastato. Le difficoltà che incontra la combinazione del Duca di Modena sono immense, onde in definitiva non ho grandi speranze. Non ho ancora voluto trattare la questione dei sequestri, per non impicciare le grosse colle piccole questioni: solo ne dissi alcune parole al segretario di Bourqueney; ma lo trovai più austriaco di Buol. Quest’ultimo, col quale mantenni sempre le più cortesi riserve, mi pregò ieri d’assegnargli un’ora per conferire insieme. Vedrò cosa mi dirà. Scriverò al Re relativamente al battesimo del nascituro Cesare. L’Imperatrice vuole assolutamente farlo benedire (vedi ignoranza d’un diplomatico: benedire per battezzare!) dal Papa. Spero che il Re sarà rimasto soddisfatto dal paragrafo del discorso dell’Imperatore, che lo riflette. Fu molto bene accolto. Arese mi ha scritto per lagnarsi che gli fosse stata aperta una lettera col suggello imperiale. La cosa mi pare impossibile: vi prego di verificarla. Il Governo non può certamente volere sorprendere i secreti di Arese, col quale io sono in intima relazione. Monale, col suo colorito di polizia, ci troverebbe un gran gusto nello stabilire un cabinet noir; ma assolutamente non lo dovete permettere.

    "C. Cavour".

    [...] Curiosa è pure la lettera che il Conte di Cavour, da Parigi, scriveva a Cibrario per ricusare un Legato a latere. Eccola come la riferisce l’Odorici a pagina 122:

    "Parigi, aprile 1856.

    "Vi ho scritto per telegrafo per pregarvi di affidare ad Arese l’incarico di portare la sua lettera di felicitazione all’Imperatore. Ne scrivo pure direttamente a Sua Maestà. Aggiungo poi che a niun patto mandi il ... Non lo potrei tollerare. Ditelo pure a Sua Maestà. Un inviato del Re sarebbe in certo modo mio collega, e non voglio a nessun conto il ... Ne faccio questione ministeriale. Non posso avere accanto a me nelle riunioni diplomatiche in questo momento un retrogrado, un nemico del Governo. Lavoro notte e giorno in mezzo ad inaudite difficoltà; ma se queste crescessero pel fatto di S. M., non potrei reggere più oltre. Ve lo ripeto. Dichiarate al Re nel modo più rispettoso, ma il più positivo, che se il ... si presenta all’Imperatore in nome suo, io parto da Parigi. Il ... non può venire: sarebbe in questo momento un vero scandalo. Spero che i miei colleghi approveranno la mia risoluzione; ma, comunque, ella è irremovibile.

    "Vostro aff.mo Cavour."

    Frattanto tornato Cavour da Parigi, [...] Luigi Cibrario dovette cedergli il portafoglio degli affari esteri, e l’Odorici a pag. 125 riferisce i seguenti appunti particolari, che si trovarono tra le carte di Luigi Cibrario:

    "1855, 27 aprile. — In seguito alla proposta fatta dai Vescovi in Senato sopra la legge della soppressione di alcune comunità religiose, il Ministero si ritira. Richiesto di continuare nel nuovo Ministero, ricuso, essendo stanchissimo, per non dir peggio, della vita ministeriale."

    Nota autobiografica, cui vengono appresso le consecutive:

    "1855, 31 maggio. — Sua Maestà, ricomponendo il Gabinetto, mi nomina Ministro degli affari esteri."

    "1856, 9 aprile. — Supplico il Re perché mi dia la dispensa della carica di Ministro degli affari esteri. Dissimulo al Re le vere cause, che sono i mali tratti del Cavour, cause per altro occasionali, essendo io di mala voglia Ministro. — Il Re promette di contentarmi. Cavour manda Casati con lettere di scuse. Accetto le scuse, ma sono stanco del Ministero".

    "29 aprile. — Torna Cavour, e io insisto pel mio ritiro immediato".

    "9 maggio. — Ultima udienza ministeriale del Re, il quale mi dà titolo, grado ed onorificazione di primo Presidente della Corte d’appello. Sarebbe inoltre disposto a darmi il titolo di barone o conte, grazia che non accetto. Mi stringe a visitarlo spesso, e ad andare in villa con lui. Vuol porre a disposizione della mia famiglia il Castello di Verduno, ecc. Abbonda insomma di tratti di squisita bontà e particolare benevolenza. Il cuore mi brilla d’essere evaso dalla galera ministeriale!"

    [...].

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    Capo VI Dopo il Congresso

    Ritornato a Torino il Conte di Cavour, ai 5 di Maggio, fu nominato Ministro degli Affari esteri. Quindi nei due giorni seguenti rese conto alla Camera dei Deputati di quanto avevano operato i Plenipotenziarî sardi nel trattato di Parigi, e fra le altre cose disse:

    "La missione dei Plenipotenziarî sardi aveva un doppio scopo. In primo luogo dovevano concorrere coi loro alleati all’opera della pace colla Russia, e alla consolidazione dell’Impero Ottomano; in secondo luogo era debito loro di fare ogni sforzo onde attirare l’attenzione dei loro alleati e dell’Europa sulle condizioni d’Italia, e cercar modo di alleviare i mali che affliggono questa Nazione". Disse delle conseguenze possibili del Trattato e dei vantaggi materiali, che erano per derivarne allo Stato; quindi aggiunse: "Ma più che ai vantaggi materiali stimo che dobbiamo badare a quelli morali, che dalle conferenze abbiamo ricavato. Io ritengo che non sia poca cosa per noi l’essere stati chiamati a partecipare a’ negoziati, e prendere parte alla soluzione di problemi, i quali interessano non tanto questa o quell’altra Potenza, ma sono questioni di un’ordine europeo. È la prima volta, dopo molti e molti anni, dopo forse il trattato di Utrecht, che una Potenza di second’ordine sia stata chiamata a concorrere con quelle di primo ordine alla soluzione di questioni europee. Così venne meno la massima stabilita dal Congresso di Vienna a danno delle Potenze minori. Questo fatto è tale da giovare non solo al Piemonte, ma a tutte le nazioni che si trovano in identiche condizioni. Certamente esso ha di molto innalzato il nostro paese nella stima degli altri popoli, e gli ha procacciato una riputazione, che il senno del Governo, la virtù del popolo, non dubito, saprà mantenergli.

    "Vengo ora alla Questione italiana.

    "Lo stato attuale dell’Italia non è conforme alle prescrizioni dei trattati vigenti. I principii stabiliti a Vienna e nei susseguenti Trattati sono apertamente violati; l’equilibrio politico, quale fu stabilito, trovasi rotto da molti anni.

    "Quindi i Plenipotenziarii della Sardegna credettero dovere specialmente rivolgere l’opera loro a rappresentare questo stato di cose, a chiamare sopra di esso l’attenzione della Francia e dell’Inghilterra, invitandole a prenderlo in seria considerazione.

    "Quì non incontrarono serie difficoltà; giacché i loro alleati, sin dai primordî delle loro istanze, si dimostrarono altamente ad esse favorevoli, e manifestarono un sincero interessamento per le cose d’Italia. La Francia e l’Inghilterra, riconoscendo lo stato anormale in cui si trovava l’Italia in forza dell’occupazione di una gran parte delle sue contrade per parte di una Potenza estera, (e la Francia non era estera?) manifestarono, lo ripeto, il desiderio di veder cessata questa occupazione e ritornate le cose allo stato normele.

    "Ma un’obiezione veniva mossa alle nostre istanze. Quali saranno le conseguenze dello sgombro delle truppe estere, se le cose rimangono nelle attuali condizioni? I Plenipotenziarii della Sardegna non esitarono a dichiarare che le conseguenze di tale sgombro, senza preventivi provvedimenti, sarebbero state di un carattere il più grave, il più pericoloso, e che perciò non sarebbero stati giammai per consigliarlo; ma soggiunsero che essi ritenevano, come, mercé l’adozione di alcuni acconci provvedimenti, quello sgombro si sarebbe reso effettuabile.

    "Invitati a far conoscere la loro opinione, essi pensarono di dover formulare, non già un memorandum, ma una memoria, che, sotto forma di nota verbale, venne consegnata alla Francia e all’Inghilterra.

    "L’accoglienza fatta a questa nota fu molto favorevole. L’Inghilterra non esitò a darvi la più intera adesione; la Francia, ammettendo la proposta in principio, stimò di dover fare un’ampia riserva all’applicazione che per noi si chiedeva.

    "Fu deciso dal Governo Francese con quello dell’Inghilterra, che la questione sarebbe sottoposta al Congresso di Parigi; e ciò fu nella tornata degli otto Aprile.

    "I Plenipotenziarii dell’Austria opposero alla proposta della Francia e dell’Inghilterra una questione pregiudiziale, affinché non fosse ricevuta. Essi dissero, e, diplomaticamente parlando, con ragione, che il loro Governo non essendo stato prevenuto prima della riunione del Congresso che si avrebbe a trattare delle cose d’Italia, essi non avevano né istruzioni, né poteri all’uopo.

    "Nessun risultato positivo si può dire essersi ottenuto. Tuttavia io tengo essere un gran frutto questa proclamazione che si fece, per parte della Francia e dell’Inghilterra, della necessità di far cessare l’occupazione dell’Italia centrale, e dell’intendimento per parte della Francia, di prendere tutti i provvedimenti a quest’uopo necessarii.

    "Io vi ho esposto, o Signori, il risultato delle negoziazioni alle quali abbiamo parteciapato.

    "Rispetto alla questione italiana non si è, per dir vero, arrivati a grandi risultati positivi. Tuttavia si sono guadagnate, a mio parere, due cose: la prima, che la condizione anormale ed infelice dell’Italia è stata denunziata all’Europa, non già da demagoghi, da rivoluzionarii esiliati, da giornalisti appassionati, da uomini di partito; ma bensì da Rappresentanti delle Primarie Potenze di Europa, da statisti che seggono a capo dei loro Governi, da uomini insigni, avvezzi a consultare assai più la voce della ragione, che a seguire gl’impulsi del cuore.

    "Ecco il primo fatto che io considero come di una grandissima utilità.

    "Il secondo si è, che quelle stesse Potenze hanno dichiarato essere necessario, non solo nell’interesse dell’Italia, ma in un interesse Europeo, di arrecare ai mali d’Italia un qualche rimedio. Non posso credere che le sentenze profferite, che i consigli predicati da nazioni, quali sono la Francia e l’Inghilterra, siano per rimanere lungamente sterili.

    "Sicuramente, se da un lato abbiamo da applaudirci di questo risultato, dall’altro debbo riconoscere che esso non è scevro d’inconvenienti e di pericoli. Egli è sicuro che le negoziazioni di Parigi non hanno migliorato le nostre relazioni coll’Austria. Noi dobbiamo confessare, che i Plenipotenziarii della Sardegna e quelli dell’Austria, dopo di aver seduto due mesi a fianco, dopo di aver cooperato insieme alla più grande opera politica che siasi compiuta in questi ultimi quarant’anni, si sono separati senza ire personali, ma con l’intima convinzione esser la politica dei due paesi più lontano che mai dal mettersi d’accordo, essere inconciliabili i principii dall’uno e dall’altro paese propugnati.

    "Questo fatto è grave, non conviene nasconderlo; questo fatto può dar luogo a difficoltà, può suscitare pericoli; ma è una conseguenza inevitabile, fatale, di quel sistema leale, liberale, che il Re Vittorio Emanuele inaugurava salendo sul trono, di cui il Governo del Re ha sempre cercato di farsi l’interprete, al quale avete voi sempre prestato fermo e valido appoggio. Né io credo che la considerazione di queste difficoltà, di questi pericoli, sia per farvi consigliare al Governo del Re di mutar politica.

    "La via che abbiamo seguìta di questi ultimi anni ci ha condotto ad un gran passo. Per la prima volta nella storia nostra la Questione italiana è stata portata e discussa avanti ad un Congresso europeo, non come le altre volte, non come al Congresso di Lubiana e al Congresso di Verona, coll’animo di aggravare i mali d’Italia e di ribadire le sue catene; ma coll’intenzione altamente manifestata, di arrecare alle sue piaghe un qualche rimedio, col dichiarare altamente la simpatìa che sentivano per essa le grandi Nazioni.

    "Terminato il Congresso, la causa d’Italia è portata ora al tribunale della pubblica opinione; a quel tribunale, a cui, a seconda del detto memorabile dell’Imperatore de’ Francesi, spetta l’ultima sentenza, la vittoria definitiva.

    "La lite potrà essere lunga, le peripezìe saranno forse molte; ma noi, fidenti nella giustizia della nostra causa, aspettiamo con fiducia l’esito finale" * [Atti della Camera dei Deputati. Tornata 6 Maggio 1856, fog. 254].

    Discorsero in vario modo varii deputati, in favore o contro il Trattato; Cavour diede alcune spiegazioni; Cadorna propose, e la Camera, "udite le spiegazioni date dal presidente dal Consiglio dei ministri, approva la politica nazionale del Governo del Re, e la condotta dei Plenipotenziarii sardi nel Congresso di Parigi; e, confidando che il Governo persevererà fermamente nella stessa politica, passa all’ordine del giorno" * [Atti della Camera, 6 e 7 Maggio 1856, fog. 254-257].

    Il 10 di Maggio, il trattato di Parigi veniva presentato al Senato, al quale Massimo d’Azeglio faceva la seguente proposta:

    "Il Senato, convinto delle felici conseguenze che dovrà arrecare il Trattato di Parigi, sì per promuovere la civiltà universale, come per stabilire sulle sue vere basi l’ordine e le tranquillità della Penisola italiana; riconoscendo altresì l’onorevole parte che ebbe ad ottenere questo desiderato effetto la politica del Governo del Re, unita all’opera dei suoi Plenipotenziarî al Congresso, esprime un voto di piena soddisfazione".

    Il Senato approvò ad unanimità la proposta, e le tribune applaudirono * [Atti del Senato, 1856, fol. 56].

    Conosciute tali cose a Vienna, per mezzo degli atti del parlamento di Torino, il Conte Buol, Ministro austriaco, senza perder tempo, indirizzava ai Rappresentanti austriaci a Roma, a Napoli e agli altri Stati italiani la seguente Nota:

    "Il Conte di Cavour dichiarò, che i Plenipotenziarî dell’Austria e della Sardegna al Congresso di Parigi si erano divisi coll’interna persuasione, che i due paesi erano più lungi che mai dall’accordare la loro politica, e che i principii rappresentati dai due Governi erano inconciliabili. Dopo presa cognizione delle spiegazioni date dal Conte di Cavour al parlamento piemontese, non possiamo, io lo confesso apertamente, che soscrivere a tale dichiarazione da esso fatta sulla immensa distanza che ci divide da lui sul terreno dei principii politici.

    "Fra gli allegati del Presidente del Consiglio dei Ministri, assoggettati all’esame della Camera, ci sembrò degna di particolare attenzione la nota portante la data del 16 Aprile, presentata dai Plenipotenziarî piemontesi ai capi dei Gabinetti di Londra e di Parigi. Ridotto alle più semplici espressioni, quest’atto non è altro che un appassionato libello contro l’Austria. Il sistema di compressione e reazione violenta, inaugurato nel 1848 e 1849, asserisce il Conte di Cavour, deve necessariamente mantenere le popolazioni in uno stato d’irritazione costante e di fermento rivoluzionario; e i mezzi dall’Austria impiegati onde comprimere un tale fermento, l’occupazione permanente di territorii che non le appartengono, annullano, secondo il Presidente del Consiglio dei Ministri, l’equilibrio ristabilito dal Trattato di Vienna, e sono una incessante minaccia pel Piemonte. I pericoli che sorgono pel Piemonte dall’estensione delle forze dell’Austria, sono, agli occhi del Conte di Cavour, sì grandi, che essi potrebbero costringere da un’ora all’altra il Piemonte ad appigliarsi a partiti estremi, le cui conseguenze è impossibile valutare. In tal guisa i timori, che il contegno dell’Austria in Italia inspira al capo del Gabinetto sardo, servono di pretesto per lanciare contro di noi una minaccia, a mala pena velata, da nulla certamente provocata.

    "L’Austria dal suo canto non può in verun modo aderire alla missione assunta dal Conte di Cavour, a nome della Corte di Sardegna, di alzare la sua voce a nome d’Italia. V’hanno sù questa Penisola diversi Governi, pienamente l’uno dall’altro indipendenti, e come tali riconosciuti dal diritto pubblico di Europa. Questo diritto pubblico d’Europa, d’altro canto, nulla sa della specie di protettorato che il Gabinetto di Torino sembra voler assumersi in suo confronto. Per quanto riguarda noi, sappiamo apprezzare l’indipendenza dei diversi Governi esistenti nella Penisola, e crediamo dar loro nuova pruova di questo apprezzamento, appellandoci in questo affare al loro imparziale giudizio. Voi non ci taccerete di menzogneri, ne siamo altamente persuasi, ove asseriamo che il Conte di Cavour si sarebbe molto più avvicinato alla verità, qualora avesse invertito il suo ragionamento e avesse asserito tutto il contrario di quello che fece.

    "Giudicando dalle sue parole, soltanto il prolungato soggiorno delle milizie ausiliarie in alcuni Stati italiani mantiene il malcontento e il fermento degli animi. Non sarebbe stato infinitamente più giusto il dire: la continuazione dell’occupazione non è soltanto resa necessaria dalle incessanti manovre del partito dello sconvolgimento, e nulla è più adatto a incoraggiare le sue colpevoli speranze ed eccitare le sue ardenti passioni, dei discorsi incendiarii che tuonarono, non ha molto, sotto le volte del Parlamento piemontese? Il Conte di Cavour asserì: la Sardegna, gelosa della indipendenza degli altri Governi, non permette che una Potenza qualsiasi possa avere il diritto d’intervento in altro Stato, quando anche questo l’abbia formalmente invitata. Spingere tanto oltre il rispetto per l’indipendenza di altri Governi, da loro contestare il diritto di chiamare in soccorso una Potenza amica, nell’interesse della loro conservazione, ella è una teoria, alla quale l’Austria rifiutò costantemente la sua approvazione. I principii che l’Austria professa in proposito sono troppo conosciuti per indurci quì ad esporli di nuovo.

    "L’Imperatore e i suoi augusti antecessori, nell’esercizio del loro incontestabile diritto di sovranità, prestarono più di una volta soccorso armato ai vicini, che lo avevano chiesto contro interni o esterni nemici. Questo diritto l’Austria vuol mantenerlo inalterato, e riservarsi la facoltà di farne uso all’uopo. Del resto, è egli permesso a chiunque siasi di nutrire dubbii sulle intenzioni predominanti nelle intervenzioni dell’Austria in diversi tempi, quando sta dinanzi aperto il libro della storia per mostrare che noi, in tal modo agendo, mai non seguimmo secondi fini o mire d’interesse, e che le nostre milizie si ritirarono immediatamente, allorché le competenti autorità dichiararono essere esse in istato di mantenere la tranquillità senza aiuto straniero? E sempre si confermerà un tal fatto.

    "Appunto come le nostre milizie abbandonarono la Toscana, appena fu sufficientemente consolidato l’ordine legale, elleno saranno pronte a sgombrare gli Stati pontificii, appena il Governo non avrà più bisogno di loro per difendersi contro gli attacchi del partito rivoluzionario. Del resto, non è nostra intenzione di escludere dal novero dei mezzi addotti al più facile raggiungimento di questo risultato sagge riforme interne, che noi abbiamo incessantemente raccomandate ai Governi della Penisola, nei limiti di una sana prattica e con tutti i riguardi dovuti alla dignità e alla indipendenza degli Stati; in riguardo alle quali non riconosciamo nel Gabinetto di Torino il diritto di erigersi a censore privilegiato. D’altro canto noi siamo persuasi che gli uomini dello sconvolgimento non cesseranno dal dirigere le loro macchine di guerra contro l’esistenza dei legali Governi d’Italia, sino a tanto che vi saranno paesi che loro accordano appoggio e protezioe e vi avranno uomini di Stato che non rifuggano di diriggere un appello alle passioni ed agli sforzi tendenti allo sconvolgimento.

    "In breve, lungi dal lasciarci deviare dalla direzione del nostro procedere da un inqualificabile attacco, che vogliamo ammettere sia stato provocato dal bisogno di una vittoria parlamentare, attendiamo di piè fermo gli avvenimenti, convinti che il contegno dei Governi italiani, che furono, come noi, oggetto degli attacchi del Conte di Cavour, non differirà dal nostro.

    "Pronti ad applaudire ogni ben intesa riforma, pronti ad incoraggiare ogni utile miglioramento, che parta dal libero e spregiudicato volere dei Governi italiani, pronti ad offrire loro la nostra morale e zelante cooperazione per lo sviluppo delle loro fonti di prosperità e del loro benessere, l’Austria è pur anco fermamente risoluta di mettere in opera tutta la sua forza per respingere qualsiasi ingiusto attacco, da qualunque parte esso provenga, e di cooperare dovunque si estende la sfera della sua attività, perché vadano ad arenarsi i tentativi dei fomentatori di disordini e dei fautori dell’anarchia" * [Gazzetta di Vienna, 11 Giugno 1856].

    [...] Tale nota [...] provava ancora la impotenza dell’Austria, che il giorno dopo del Congresso sentiva già gli effetti disastrosi della sua politica durante la guerra. Abbandonata dalla Russia, trovavasi alla sua volta sola in faccia alla coalizione delle tre Potenze massoniche occidentali, succeduta a quella delle tre Potenze del Nord, e distrutta dalla guerra d’Oriente. Disprezzata fin d’allora dai settarii, l’Austria non si sentiva più forte abbastanza da chiedere conto dell’inqualificabile operato dei Plenipotenziarii gallo-anglo-sardi: trovavasi quindi costretta a difendere la propria dignità in una nota diplomatica [...].

    A corroborare le quali asserzioni servono mirabilmente le lettere del La Ferina, uno dei più importanti uomini della rivoluzione dopo Cavour, dal quale era stato messo a parte delle segrete cose della sua politica. Rechiamo alcune di queste lettere, e per la prima la seguente diretta a Giuseppe Oddo, a Malta:

    Torino, 29 Aprile 1856.

    Carissimo Oddo,

    "... Il Congresso di Parigi ha, secondo me, dato un colpo terribile ai governi italiani. È la prima volta che un’assemblea di diplomatici, gente senza cuore e senza coscienza, riconoscono che han torto i governi e ragione i popoli. Né io mi dolgo di non avere essi adoperate le armi in nostro favore: se così avessero fatto, certo ne avrebbero voluto profittare; ed in questo caso Napoli sarebbe stata serva dei Francesi e Sicilia degli Inglesi. Ciò che noi abbiamo acquistato è la certezza, che questi governi non ci saranno contrarii, e che l’Austria esce dal Congresso umiliata, dirimpetto al Piemonte, dispettata dalla Russia, e in odio alla Francia ed all’Inghilterra. Pare quindi a me che il tempo sia propizio a farci vivi. Questo è anche il parere dei nostri migliori, come Michele Amari ed altri. È quindi necessario promuovere un’agitazione gagliarda in Sicilia; e posso assicurarvi che il medesimo va a farsi per le Legazioni, per la Toscana e pei Ducati.

    "Avete voi mezzi con Palermo? Nel caso affermativo avvisatemi. La parola d’ordine sarà: Indipendenza ed unità d’Italia; fuori l’Austria ed il Papa: al resto ci penserà Dio (!?). Io sono stato finora contrario ad ogni movimento, nella convinzione che i tempi non erano opportuni. Ora però sono persuaso, che se noi lasceremo passare quest’anno, faremo un grande errore; perché, da qui ad un anno, chi sa quali mutamenti potranno seguire nella politica Europea. Animo adunque, e rimettiamoci all’opera con fede e con zelo".

    Così a Giuseppe Oddo emigrato a Malta scriveva La Farina, il quale a Vincenzo Natoli, luogotenente nel 3° reggimento della legione anglo-italiana, egualmente a Malta, ripeteva le medesime cose, dichiarando meglio il pensiero della rivoluzione:

    "Mio carissimo Natoli.

    "Torino, 29 Aprile 1856.

    "Vi ringrazio del gentile pensiero che avete avuto per me, e vi son grato delle notizie che mi avete dato della Legione, la quale, a quanto sento da ogni parte, si fa veramente onore. Qui non vi è nessuno avviso ufficiale di scioglimento, e mi persuado che anche se fosse sciolta, ciò non avverrà che da qui a qualche tempo. Cercate frattanto d’istruirvi nelle armi il più che potete, perché grandi avvenimenti potrebbero essere non lontani.

    "Il Congresso di Parigi ha dato un colpo morale fatalissimo ai governi italiani: è la prima volta che una riunione di diplomatici dice, che i governi han torto ed i popoli han ragione. Questo fatto è per me di grande importanza, e racchiude in sé il seme di una rivoluzione * [Giova recare qui in nota la seguente lettera-indirizzo al Conte di Cavour, scritta da La Farina a nome di molti emigrati italiani rifugiati a Torino, che con lui sottoscrissero:
    "Sig. Conte,
    "Nel Congresso di Parigi voi levaste la voce in prò dell’Italia, nella coscienza del diritto e dovere (!?) ch’era in voi di rappresentarla.
    "Fruttino o non fruttino quelle parole alcun bene alla patria nostra comune, noi sottoscritti emigrati di varie provincie italiane ne rendiamo grazie a voi ed al governo del quale voi fate parte. L’avvenire dimostrerà che voi faceste ogni sforzo per evitare i mali di una rivoluzione e che, se i vostri detti erano liberi e generosi, erano anche savii e prudenti.
    "Gradite, sig. Conte, gli attestati della nostra stima e riconoscenza"]. Bisogna quindi tenerci apparecchiati e pronti a profittare d’ogni evento e di ogni opportunità favorevole. La dimora della Legione in Malta toglie i sonni al re di Napoli. Mi dicono che in Sicilia abbia prodotto una qualche agitazione".

    La politica dell’Inghilterra apparisce a mano a mano più chiara nelle lettere del La Farina. E mentre le armi quietavano per la pace conchiusa, gli armati anglo-italiani, come le altre legioni straniere assoldate dall’Inghilterra per la guerra di Crimea, erano mantenuti in attesa di nuove imprese contro amici governi. Poco dopo la surriferita lettera al Natoli, La Farina scriveva la seguente ad Ernesta Fumagalli-Torti, altra apostola della rivoluzione, con la quale era in continue relazioni:

    "Carissima Sig. Ernesta,

    "Torino 8 Maggio.

    "Si diceva che la Legione sarebbe ben presto sciolta, in effetto del trattato di pace; ma posso assicurarvi che fin ora non v’è alcuna disposizione in proposito, e che anzi pare che l’Inghilterra voglia continuare a tenere al suo servizio tutte le legioni straniere, finché non sieno accomodate le cose d’Italia. Qui ha destato una forte commozione la discussione del trattato e dei protocolli delle conferenze di Parigi; ma più di tutto le parole dette da Cavour ieri l’altro nella Camera dei Deputati. La discussione ha finito con un ordine del giorno lodativo del Ministero, al quale ordine del giorno si associò anche la sinistra e gran parte della destra fra gli applausi universali. Il solo Della Margherita ed altri cinque o sei con lui votaron contro; ma Revel votò a favore. Qui tutti sono convinti che ci apparecchiamo ad una guerra, e che questa guerra possa essere non lontana. Si vuole che l’Inghilterra abbia promesso al Piemonte, in caso di guerra, un soccorso di 30.000 uomini e di una flotta".

    Fra le lettere del La Farina havvene altre di altri cospiratori di conto, a lui dirette, che non vogliono essere trascurate: tutte collimano all’istesso intendimento e tutte aggiungono lume a rischiarare le vie [...] della grande congiura contro la S. Sede e contro gli Stati italiani. La seguente è di Ruggero Settimo, famoso agitatore siciliano:

    "Pregiatissimo Amico

    "Malta, 21 Maggio 1856.

    "... Relativamente al disegno dell’avvenire per la Sicilia, non potendosi sperare di meglio, applaudisco a quanto me ne avete scritto, essendovi molto da guadagnare sotto tutti gli aspetti, e coincide per altro nella sostanza a quanto noi ci saremmo contentati dietro le trattative con Lord Minto. Epperò non siamo d’accordo in quanto al principio di promuovere la rivoluzione in Sicilia sulle promesse d’aiuti segreti, mentre questi, a mio credere, dovrebbero essere reali, positivi e palesi; senza di che non si farebbe che provocare la tanto abbominevole anarchìa, e con essa il trionfo dei malvagi e l’avvilimento di tutti i buoni".

    "Dev. Affez. servo ed amico

    "Ruggero Settimo."

    Più tardi, nel mese di luglio, il La Farina scriveva ad un altro cospiratore, Vincenzo Cianciolo, residente a Genova, e gli diceva così:

    "Carissimo Amico

    "Torino, 19 luglio 1856.

    "Vi scrivo per sollecitare, quanto è possibile, la partenza dell’amico. La ragione è, che ho da notizie positive che in Napoli si farà un tentativo importante da qui a poco. La cosa è così segreta, e mi è stata confidata con tante esortazioni e promesse da mia parte di silenzio, che non ne ho fatto parola neppure con Gemelli. Vi confido anche, che in Toscana il lavoro va bene, ed in Romagna benissimo. In nome di Dio adunque, mettiamo mano all’opera. Assicurate l’amico, che, se nella città dove egli va l’affare riesce, da Malta si farà un tentativo in altro luogo.

    "Domani riceverete una lettera per l’amico di Messina; vi raccomando spedirla al più presto".

    E il 3 Agosto, egualmente da Torino, scriveva allo stesso:

    "... Le notizie che ricevo direttamente da Napoli confrontano con quelle che voi mi date, e ci farebbero sperar bene anche dalla parte dell’esercito. In Massa e Carrara Mazzini, al solito, non potendo fare, ha tentato di disfare l’opera nostra. Che razza di patriottismo sia questo, io davvero nol so".

    Come si vede, Mazzini, che lavorava sempre per fare dell’Italia una repubblica, sembrava in quel momento in contraddizione con Cavour e La Farina, monarchici unitarî. Si accordavano però sempre nel voler distrutti i Principati italiani onde distruggere quello della Chiesa [...].

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    Capo VII Il principio del non intervento

    [...] Mentre si stabiliva nell’illustre Areopago [...] il principio sommamente immorale e contro natura del Non intervento (contro del quale sommamente protestava Calderon Colantes nelle Cortes Spagnuole, confessando come Napoleone III minacciasse guerra alla Spagna, se fosse intervenuta a favore del Papa), si iniziava un triplice intervento diplomatico, rivoluzionario, armato, contro i pacifici Stati d’Italia e i loro governi a profitto del Piemonte; di guisa che agli amici fosse inibito d’intervenire, ai nemici lasciato pieno libito d’invadere e soggiogare a man salva.

    Dicemmo cospiratori rivoluzionarî i maneggiatori del famoso Congresso; imperocché lo scopo apparentemente principale di esso fu di riconoscere ed assicurare la piena indipendenza e autorità del Turco nei proprî stati, e si combatteva intanto quella della S. Sede. Il Conte Walewski, degno ministro e plenipotenziario del Sire francese, dichiarava pomposamente in seno al Congresso che "il titolo di Figlio primogenito della Chiesa, onde si gloria il Sovrano di Francia, fa un dovere all’Imperatore di prestare aiuto e sostegno al Sovrano Pontefice"; ma ne accusava nel medesimo tempo la condizione anormale, la situation anormale, del Governo; e perché non rimanesse solo il Pontefice nell’accusa, gli veniva associato (assai onorevolmente) il Re di Napoli, al Governo del quale quei sapienti davano i soliti disinteressati avvertimenti!... [...] Nel maggio del medesimo anno 1856, discutendosi nel Parlamento inglese di ciò che si era fatto nel Congresso parigino, il Signor Sidney Herbert energicamente inveiva contro "la passione d’intromettersi negli affari degli altri paesi". E il sig. Gibson esclamava: "È veramente strano il vedere i protocolli che invitano ad intervenire negli affari di Napoli e di Roma, in quella che tali documenti si studiano di far apparire che in Turchia (dove pur si potrebbe credere aver noi qualche diritto d’intervento) ogni cosa deve emanare dalla volontà spontanea del Sultano". E Gladstone, il celebre scrittore delle Lettere Napolitane, così maligne verso il Governo del Re Ferdinando, accennando al protocollo dell’8 Aprile, in uno di quei lucidi intervalli, che non mancano mai anche alle menti più pervertite, dichiarava: "Dubito grandemente della prudenza di ciò che si è fatto... È ella questione molto grave ed anzi credo sia una totale innovazione nella storia dei Congressi di pacificazione: 1. di occuparsi di simili argomenti in conferenze ufficiali; 2. di rendere di pubblica ragione le risoluzioni prese".

    Quindi è che giustamente il Lamartine caratterizzava il Congresso parigino: Une dèclaration de guerre sous une signature de paix; la pierre d’attente du Chaos européen; la fin du droit public en Europe!

    Il peggio si fu la ceffata data da Napoleone III a tutte indistintamente le Potenze europee, arrogandosi ei solo fra tutti il diritto d’intervenire. Il quale intervento [...] veniva tacitamente o espressamente consentito dai Plenipotenziarii europei, ed era tento più poderoso e temibile in quanto che veniva ammesso dalla parte più alta, e da molti creduta più sapiente, dei varî Stati. Ma gran parte di essi, piuttosto che dei proprî Governi, erano i plenipotenziarî della Frammassoneria, la quale appunto aspettava l’iniziativa dell’intervento diplomatico, per metter mano all’intervento rivoluzionario, mentre apparecchiava quello delle armi.

    E l’intervento rivoluzionario scoppiò subito, e si palesò trionfante nelle aule dei cosidetti rappresentanti del popolo della Camera di Torino, allora appunto che in quella meno corrotta dell’Inghilterra, si protestava contro la strana ingerenza consegnata nei protocolli del Congresso. Infatti, fin dal 7 di Maggio 1856, il Deputato Lorenzo Valerio diceva: "Le nostre parole, le parole del sig. Presidente del Consiglio, di tanto più importanti delle nostre, non istaranno sicuramente chiuse in questo recinto, o serrate nei confini che segna il Ticino... Queste varranno a ridonare coraggio agli animi abbattuti, e faranno audaci gli animi coraggiosi; e l’audacia e il coraggio, che ne verrà ai nostri fratelli del rimanente d’Italia, non istarà lungo tempo senza farsi sentire" (Atti uff. N. 257).

    [...] Nel Luglio del medesimo anno 1856 si scuoprivano a Novara e altrove casse di fucili, di stili e di cartuccie; e la notte del 25 dello stesso mese si tentava una invasione rivoluzionaria in Massa e Carrara, mentre si mandavano emissarii a Firenze, a Napoli e a Roma. Nella nota indirizzata dai Plenipotenziarii sardi a Lord Clarendon e al Conte Walewski, il 16 Aprile 1856, non appena terminato il Congresso di Parigi, essi scrivevano: "La Sardaigne est le seul Etat de l’Italie qui ait pu élever une barrière infranchissable á l’esprit révolutionnaire". Vale a dire, la rivoluzione è da pertutto in Italia, fuorché in Sardegna! — Ed era vero: [...] essendo il Governo sardo l’istessa rivoluzione personificata, gli altri Stati italiani, non rivoluzionarii, erano una permanente rivoluzione contro la rivoluzione, in quell’istesso modo che la proprietà pel ladro è un furto!... Quindi è che il deputato Buffa, facendo eco alla citata nota, affermava: "Le condizioni dei varii popoli italiani sono più o meno intollerabili, ma tutte infelici. Ad essi è negata non solo ogni libertà, ma anche quella stessa larghezza, che gli stessi Governi assoluti oggidì, purché civili, non sogliono negare... Tutto questo non fa che alimentare lo spirito di rivoluzione, che, sorgendo la occasione, può diventare un gran pericolo, come per l’Europa intera, così più specialmente per noi... Lo spirito rivoluzionario si manifesta e si svolge in tutti i paesi dove sono stanziate le milizie austriache" [...].

    "Tutti ricordano, scriveva in quei giorni l’Italia e Popolo (30 Luglio 1856), come, all’epoca della memoranda discussione parlamentare, il Governo sardo, a far divampare il fuoco latente nelle altre provincie d’Italia, facesse stampare i discorsi di Cavour e di Buffa, e li diffondesse a migliaia di copie nei Ducati, nelle Romagne, nel Lombardo-Veneto, a Napoli e in Sicilia".

    È inutile di notare dopo di ciò quanto a ragione la Gazzetta austriaca, parlando della succitata Nota, scrivesse: "La nota del 16 di Aprile, sottoscritta dal Conte di Cavour e dal Marchese di Villamarina, è un appello alla rivolta!" Il Diritto, giornale non punto sospetto, conveniva perfettamente colla Gazzetta austriaca, e nel suo numero 126, dei 28 Maggio, diceva: "La conseguenza è quella che ne trae la Gazzetta austriaca; perocché dire ad un popolo, come l’italiano, ancora di vita gagliarda e indomita: — i tuoi patimenti sono senza nome, i tuoi oppressori senza umanità, non v’ha chi possa toglierti di dosso il giogo, colpa la perfidia dell’Austria, — vuol significare che lo si incita a disperati tentativi, che la legge della propria conservazione consiglia e suggerisce un tenace amore alle proprie tradizioni; vuol significare in fine, che gli si addita qual’è l’antico, l’inconciliabile avversario di ogni suo bene — l’Austria — e gli si dice: — insorgi contro di essa! — Parliamo francamente, è un vero appello alla rivolta".

    Intanto vennero fuori le offerte per i cento cannoni di Alessandria, ideate, diceva l’Armonia di quel tempo, apparentemente dalla Gazzetta del Popolo di Torino; ma favorite dalla Gazzetta piemontese, per mettere in rivoluzione l’Italia. Quindi le spedizioni di filibustieri partite dagli Stati di Sardegna per gli altri Stati d’Italia; quindi il Barone Bentivegna, che, presa la imbeccata a Torino, sbarca in Sicilia; e Pisacane, che da Genova va a Salerno; e il regicida Agesilao Milano, che trova protettori e panegiristi in Piemonte; e i Diplomatici sardi, che abusano a Firenze, a Napoli, a Roma e negli altri Stati italiani della propria inviolabilità, per cospirare e proteggere i cospiratori, e si servono della salvaguardia del diritto sacro delle genti per trascinarlo con le loro persone e il loro governo nel fango.

    Aggiungi a questo l’epistolario del famoso Daniele Manin che impunemente dice in Piemonte agli Italiani: "Agitatevi ed agitate; l’agitazione non è propriamente l’insurrezione, ma la precede e la prepara". Sommate queste ed altre molte simili circostanze, che sarebbe soverchio di qui arrecare, e di leggieri potevasi prevedere quali sarebbero per essere le conseguenze del famoso Congresso. E desse infatti apparvero fin da principio così palesi, che gli stessi fautori più caldi della rivoluzione italiana non tardarono ad esserne impensieriti e spaventati. Di fatti avendo chiesto il Piemonte all’Inghilterra, poco dopo il Congresso, varî milioni, e i conservatori inglesi, forte temendo che il Piemonte se ne servisse per mettere a soqquadro l’Italia, Lord Palmerston, a tranquillizzare gli animi in Parlamento, ebbe a pronunziare importanti parole che il Daily News, nel Giugno 1856, compendiava così: "Lunedì scorso Lord Palmerston dichiarò cortesemente al Rappresentante di Pio IX e del Re di Napoli, nella Camera dei Comuni, che il progetto di legge sull’imprestito sardo non era introdotto per dare a quel Governo i mezzi di rivoluzionare l’Italia. Lord Palmerston accompagnò tale dichiarazione con una avvertenza, sulla quale i liberali inglesi hanno diritto di chiedere, alla loro volta, qualche schiarimento. Disse Lord Palmerston, che il Governo di Sua Maestà era bensì desideroso di sostenere il Governo sardo in quel procedimento illuminato e liberale, che ha tenuto finora in modo così onorevole: ma che se avesse da accadere, ciò che per ora non è, che il Governo sardo fosse animato da progetti di aggressione, il Governo inglese farebbe uso di tutta la sua influenza per distoglierlo da una tale condotta".

    Furono queste parole, non v’ha dubbio, come acqua gettata sul fuoco; ma in così scarsa quantità, che quello ebbe a divampare viemmaggiormente. Ciò si vide in fatti nello imperversare che fece più che mai l’agitamento settario in tutta la Penisola, non solo, ma benanco in Francia. Di che scosso Bonaparte, volle dare indietro dal fatale cammino, a propria salvezza; ma non fu più in tempo, o, per dir meglio, non gli basto il coraggio, tosto che si vide fatto segno al pugnale della setta alla quale lo legavano antichi giuramenti.

    Il Governo subalpino intanto, mentre chiedeva danaro all’Inghilterra, e Palmerston rassicurava alla meglio i conservatori inglesi perché glie ne dessero, col solito giuoco scatenava il suo can da leva, Garibaldi, ad agitare le tranquille contrade della Lombardia e dei Ducati, destinati per primi a saziare le ingorde brame della Frammassoneria. Quindi è, che il famoso eroe, che già aveva posta sua stanza nell’Isola di Caprera, ad un tratto si disse malato, e il 9 di Luglio del medesimo anno 1856 recavasi a Voltaggio, per una sua cura idropatica, che però non durava se non cinque giorni...! E quì applausi, ovazioni, serenate, con tutto quel corredo di clamorose dimostrazioni che segnano un punto di partenza a settarî intendimenti. L’animo dell’agitatore, già s’intende, non fu insensibile a quelle spontanee e cordiali manifestazioni, e con un suo pistolotto, dal quale traspariva tutto un programma, ringraziava subito i cittadini di Voltaggio, mentre eccitava quelli delle contrade più direttamente prese di mira dai gerofanti della setta.

    "Accenti di musica deliziosa, scriveva il Garibaldi, bearono in questa notte gli abitatori di questo Stabilimento, e mi venne detto che i cittadini di Voltaggio vollero in me onorare il principio italiano.

    "Io accetto, intenerito e riconoscente, quest’omaggio d’un popolo benemerito, ed auguro da queste e da altre non equivoche manifestazioni la prossima liberazione del nostro paese. Sì! giovani della crescente generazione, voi siete chiamati a compire il sublime concetto di Dio, emanato nell’anima dei nostri grandi di tutte le epoche, l’unificazione del gran popolo, che diede al mondo gli Archimedi, i Scipioni, i Filiberti. — A voi guardiani delle Alpi viene commessa oggi la sacra missione; non vi è popolo della Penisola che non vi guardi e che non palpiti alla vostra guerriera tenuta, alle vostre prodezze sui campi di battaglia. — Campioni della redenzione italiana, il mondo vi contempla con ammirazione, e lo straniero, che infesta l’abituro dei vostri fratelli, ha la paura e la morte nell’anima.

    "Gl’Italiani di tutte le contrade sono pronti a rannodarsi al glorioso vessillo che vi regge, e io, giubilante di compiere il mio voto all’Italia, potrò, Dio ne sia benedetto, darle questo resto di vita.

    "Dallo Stabilimento idroterapico dei Sigg. Alsaldo e Romanengo,

    "Giuseppe Garibaldi."

    [...] Cosa là si facesse in segreto dal Garibaldi non ci è noto; ma noti sono pur troppo i proclami incendiarii messi fuori a Napoli e a Roma, e il fallito tentativo di rivolta a Massa e Carrara, nell’istesso mese di Luglio: circa il quale il Risorgimento dichiarò: — le popolazioni non aver punto aderito alla insurrezione. — Ma non monta; se fosse riuscito il tentativo si sarebbe usufruttato; fallito, se ne riversò la colpa sull’Austria: fu detto opera di agenti austriaci, per attaccar briga coll’innocente Governo sardo! Il citato Risorgimento però questa volta era sincero, e confessava essere quel tentativo conseguenza legittima della politica piemontese. "L’Italia s’ha da liberare, diceva quel diario repubblicano; solo modo una buona rivoluzione interna aiutata dal Piemonte". Ma La Farina ci ha già detto di chi fosse opera quel tentativo.

    E l’Armonia (sebbene volesse tenere scevra da colpa la diplomazia europea) raccoglieva accortamente le fila, e notava: 1° L’attentato di Carrara e Massa fu una conseguenza della politica e delle esortazioni del Ministero piemontese. 2° Mazzini e Cavour non si possono omai distinguere nel volere una rivoluzione in Italia, perché svanite le speranze nella Diplomazia, debbono convenire amendue nella necessità d’una rivolta. 3° I giornali ministeriali sono necessariamente infinti nel diaspprovare l’ultimo tentativo. La sede della rivoluzione non è che in Piemonte, e solo dal Piemonte partono gli eccitamenti alla rivolta. 5° Le popolazioni anche più guaste della Penisola (come appunto quelle di Massa e Carrara) guardano i mestatori che cercano di levarle a tumulto, e non corrispondono ai tentativi. 6° Quanto i Plenipotenziarî sardi hanno asserito nel Congresso di Parigi è solennemente smentito dai fatti.

    Ma abbiamo accennato ai cento cannoni per la fortezza di Alessandria: parva questa una proposta patriottica e nulla più; pure è un fatto dei più scaltriti immaginato dalla setta. "Alessandria, gridava la Gazzetta del Popolo, per ora, è come la parola d’ordine per gl’Italiani, è il simbolo dell’unione". Ma era assai di più. Il 26 di Luglio 1856 quel giornale recava la seguente lettera:

    "Amico.

    "Susa, 23 Luglio 1856.

    "Un’idea mi è venuta per la testa, mio caro Govean; locché prova due cose: e che ho una testa, e che ho delle idee! Dite un pò: a quel modo che si è aperta una sottoscrizione per un ricordo alle nostre truppe in Crimea, non si potrebbe egli aprirne un’altra per sussidiare il Governo nella santa opera di fortificare Alessandria? Come vedete, lo scopo è lo stesso, trattandosi anche qui, non tanto di spremere ingenti somme dalle tasche degli oblatori, quanto di dimostrare a chi di ragione che l’idea del Generale Lamarmora ha un’eco nella Nazione tutta quanta, e in altri siti. Trattasi insomma di far cicare l’Austria. Ora figuratevi quanto non cicherà essa, quando veda che non solo il Piemonte, ma l’Italia tutta, ma le lontane Americhe, ed ogni popolo incivilito portino la loro pietra a questo sacrosanto edificio? Oh! provate vi dico, che sarà un bel ridere.

    "Tutto vostro,

    "N. Rosa."

    Questa lettera, passata per molti inosservata in quel momento, è una preziosa rivelazione: uno dei più importanti uomini di Stato e di guerra, il Lamarmora, era il proponente di quell’idea, non già per aiutare il Governo, ma per dimostrare a chi di ragione, vale a dire ai Potentati europei, che quella proposta aveva eco non solo nella Nazione, ma ancora in altri siti; vale a dire, che si voleva ottenere una dimostrazione universale a favore dell’Unità italiana, voluta dalle società segrete, e ciò per impegnare contro l’Austria non solo l’Italia e l’Europa, ma le lontane Americhe e ogni popolo civile.

    La Rivoluzione italiana cessava a mano a mano di essere cosa locale; diveniva invece cosa cosmopolita e universale, in ordine allo scopo della Frammassoneria, la distruzione cioè del Papato.

    Insomma il Congresso di Parigi e la pace che vi si era conclusa non erano che una crudele menzogna. I giornali tutti della rivoluzione, mentre da principio si mostrarono scontenti di quella pace, che ai meno addentro delle segrete cose parve troncare a mezzo il filo delle loro speranze di una totale disfatta della Russia, Potenza fino allora sommamente avversa alla rivoluzione europea, presto si consolarono come videro rotto il ghiaccio della Questione italiana, secondo affermava lo stesso Eco della Borsa; e l’Austria, non meno che gli Stati italiani e Roma, fatti segno palesemente agli attacchi della Diplomazia europea. Perciò gli atti e i discorsi del Parlamento e del Senato di Torino, nei quali si erano pienamente svolte queste cose, erano stampati e sparsi a miriadi di copie per ogni dove, e, come aveva dichiarato Massimo d’Azeglio in pubblico Parlamento, attraversavano tutti i confini, deludevano tutte le Polizie, erano letti in tutti i paesi. La rivoluzione italiana, protetta ormai dai Governi europei, diveniva torrente irresistibile e desolatore [...].

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    Capo VIII Il Re di Napoli e i Governi inglese e francese

    Per riparare gli scandali sollevati dal Governo piemontese, tutti gli Stati italiani, minacciati dalla rapacità di quel Governo, rivolsero note diplomatiche ai Gabinetti di Parigi, di Londra, di Pietroburgo e di Vienna, accusando il Piemonte di mire ambiziose, e designandolo [...] quale torbido vicino, in istato di perpetua cospirazione a danno della quiete interna degli Stati italiani.

    Ma per inesplicabile cecità, o piuttosto per stabilito disegno, i Governi delle due prime Potenze, anziché infrenare l’insidiatore Sardo, si compiacevano ad unire le loro vessazioni contro gli Stati insidiati, aggiungendo imperiose sollecitazioni, con flagrante sconoscimento del gius pubblico e delle genti, intervenendo nell’interno regime di stati indipendenti; e ciò con tanta minore buona fede, che l’istesso Congresso niuna cosa aveva stabilito su questo punto. Ma le cosìddette riforme consigliate, o a dir meglio imposte, al Re di Napoli, erano in relazione diretta collo scaltrito disegno del Mazzini da noi riferito.

    Così effetto del trattato di Parigi si fu, che gli Stati di poca estensione territoriale, di fronte al pensiero mazziniano, non ebbero più diritti, rimanendo abbandonati in balìa del più forte, fattosi esecutore del malvagio disegno. Fu questa l’epoca in cui maggiormente il ministro Cavour coglieva ogni destro per imbarazzare i Governi italiani, e, in modo speciale, il napolitano [...].

    Il 19 di Maggio il ministro degli affari esteri della Gran Brettagna, in un suo dispaccio al Rappresentante inglese a Napoli espone i motivi su i quali il Governo inglese si fonda per raccomandare al governo delle Due Sicilie di concedere un’amnistia generale e di eseguire talune riforme e miglioramenti: queste premure derivare dal profondo convincimento del pericolo imminente, che corre l’Italia a causa del minaccioso aspetto degli affari di Napoli. Protesta d’altronde i sentimenti di amicizia pel Re al quale intende dare avvisi amichevoli; e per giustificare la sincerità di questi sentimenti, per disporre il Re ad accogliere favorevolmente questi consigli e per comprovargli "che nessuna Potenza straniera ha diritto d’intervenire negli affari interni di un altro regno". Il Ministro sudetto parla del regime interiore delle Due Sicilie, prendendo il tono di rimprovero e la parte d’accusatore; ne censura l’amministrazione interna che taccia quale sistema di rigore e d’ingiuste persecuzioni, condannato da tutte le nazioni civilizzate: ed insiste sulla necessità di dare garanzie per la debita amministrazione della giustizia e per fare rispettare le libertà personali e le proprietà. Insomma il Ministro esige che si adotti una politica più in armonia collo spirito del secolo.

    Ai 21 dello stesso mese di Maggio il Conte Walewski, da parte del governo di Napoleone III, inviava una nota identica al Rappresentante francese a Napoli per intimare anch’egli al Re Ferdinando II i voleri dei collegati franco-anglo-sardi, quale espressione del Congresso parigino, con evidente inesattezza, o, diciam meglio, menzogna, significandogli le riforme da eseguire negli Stati napolitani.

    Ai 2 di Giugno, il Rappresentante inglese a Napoli riferiva al Foreign-Office in Londra di aver dato corso al dispaccio del 19 di Maggio, e dal Ministro degli Affari Esteri di Napoli esserglisi risposto: "la dignità e la indipendenza del suo Sovrano non permettergli che Potenze straniere abbiano ad immischiarsi nel regime interno del paese, assicurando peraltro di essere già pronta una larga amnistia, della quale erasi dovuto prorogare la esecuzione a cagione della effervescenza suscitata dagli atti del Congresso di Parigi, e delle speranze che questi avevano fatto nascere" [...].

    Non contento di ciò, ai 12 dell’istesso mese, il medesimo Rappresentante inglese informava il suo governo di aver fatto premure presso il ministero napolitano perché rispondesse alle rimostranze fattegli dalla Francia e dall’Inghilterra, per conoscere le intenzioni del Re, ed essergli state ripetute dal Ministro le precedenti risposte, [...] a nome del Governo inglese, gli avesse intimato: "che, se sventuratamente nulla si facesse per cambiare la forma governativa in Napoli [...] ne sarebbero derivate complicazioni seriissime". Termina questo dispaccio col censurare il Re Ferdinando II, che si tratteneva a Gaeta, mentre la sua persona era desiderabile nella Capitale.

    Ma le insistenze diplomatiche crescevano di giorno in giorno.

    Il Rappresentante inglese, che ormai non dubitava di parlare anche a nome della Francia, della cui politica il suo Governo erasi fatto solidale, quanto al rovesciare i legittimi Sovrani d’Italia, ai 22 del detto mese informava il suo governo, scrivendo: essersi dato ordine dal Re di Napoli, di rispondere ai gabinetti di Francia e d’Inghilterra per mezzo dei proprî suoi rappresentanti a Londra e a Parigi; e conchiudeva col dire, di aver fatto osservare al Governo napolitano "di essere profondamente dispiacente per la decisione presa dal Re, la quale sarebbe ritenuta come evasiva e poco soddisfacente; d’altronde esso Governo napolitano, nulla avrebbe avuto a temere dal partito rivoluzionario, il quale è poco numeroso, senza capi, e senza disegno generale di azione".

    Infrattanto ai 30 di Giugno il Governo napolitano per mezzo dei suoi rappresentanti, Principe di Carini a Londra, e Marchese Antonini a Parigi, rispondeva ai due Governi con Note uniformi, che possono riassumersi nei seguenti pensieri: — niun Governo aver diritto d’immischiarsi nell’amministrazione interna di altro stato, e sopratutto in quella della giustizia. — In altri termini era la storica risposta data già da Papa Pio VII, di s. m., a Napoleone I: "Grandes ou petites les souvrainetés conservent toujours entre elles les mêmes rapports d’indépendence, autrement on met la force à la place de la raison." [...]

    Scrive [...] Bianchi al capo VIII del volume VII della sua Storia documentata della Diplomazia europea in Italia, il Marchese Emmidio Antonini, Legato napolitano in Parigi, come seppe che al Congresso si era favellato delle cose del Regno delle Due Sicilie, si portò da Walewski per lagnarsi che ai Plenipotenziarî sardi fosse stato permesso d’assalire con aspri modi il governo di Ferdinando II, senza che vi fosse presente un suo Plenipotenziario. — La cosa, soggiunse, è tanto più deplorabile in quanto che la fonte vera dell’agitazione rivoluzionaria, onde l’Italia è di nuovo tormentata, è la politica del Piemonte. — Walewski lo interruppe col dirgli: — Badate, marchese, che non è stato Cavour; non vi posso dire di più, perché tutti i Plenipotenziarî sono impegnati a serbare il silenzio intorno alle cose dette. Ma il vostro Governo ha una via aperta per trarsi d’impaccio, si ponga subito d’accordo con noi sulle riforme che vuole adottare * [Dispaccio riservatissimo Antonini, Parigi 17 Aprile 1856. — Dispaccio in cifra dello stesso, Parigi 18 Aprile 1856]. — Antonini rimase silenzioso.

    Ferdinando II ordinò al suo Legato in Parigi di rinnovare i fatti lamenti, dando loro la forma di protestazione verbale, e d’aggiungere che il Re di Napoli avea la coscienza di governare i suoi popoli conforme i dettami della giustizia e del dovere; che né gli assalti sfrenati della stampa quotidiana, né le dichiarazioni del Congresso lo indurrebbero a far mutazione di governo, disposto com’era a sopportare con rassegnazione qualunque abuso di forza, anziché scendere a patti colla rivoluzione. [...] Queste deliberazioni del Re, per ordine suo, furono comunicate alle Legazioni napolitane all’estero, coll’aggiunta dell’incarico di maneggiarsi a render palesi gl’intendimenti rivoluzionarî del conte di Cavour * [Lettere del Cavaliere Severino, segretario privato del re Ferdinando II, Caserta 3 e 10 Maggio 1856, Castellamare 8 Maggio 1856. — Dispaccio riservatissimo Carafa al marchese Antonini in Parigi, Napoli 5 Maggio 1856].

    Portandosi da Walewski, Antonini gli favellò in conformità degli ordini del suo Re. Il Ministro francese, con piglio risentito, gli rispose: — Ma non si tratta per nulla d’esigenze, di pressioni. Il Governo napolitano deve capacitarsi che tutti i Potentati sono nell’obbligo di mettersi d’accordo per garantire all’Europa una pace durevole. Tutti gli Stati, e massime i minori, debbono aver conti i lati più deboli della propria politica a volteggiare le difficoltà che ne conseguono. Ora il vostro Governo deve ben comprendere che la Francia e l’Inghilterra sempre si studieranno di spiegare i proprî influssi sul Regno delle Due Sicilie. Conseguentemente tutte le vostre cure debbono esser dirette ad impedire che le due influenze operino concordi. Credo, che nelle circostanze presenti non vi debba riuscir difficile di conseguire questo intento. Scrivete tosto al vostro Re per dirgli, che la Francia lo consiglia ad appigliarsi spontaneo a più miti modi di governo. Egli farebbe prova di grande abilità ove si ponesse in pieno accordo con noi, prima che all’Ambasciatore inglese in Napoli giunga l’ordine di mettersi d’accordo con Brenier. — Il Legato napolitano rispose, che ciò che il Re suo signore aspettava, era di vedersi presto sollevato dalle pressure della Francia e dell’Inghilterra, alle quali chiedeva una sola cosa, di esser lasciato tranquillo * [Dispaccio riservatissimo Antonini al commendatore Carafa in Napoli, Parigi, 9 Maggio 1856].

    A questo procedere del Legato napolitano in Parigi, osserva con malvelato dispetto Nicomede Bianchi, tenne bordone quello dell’Ambasciatore di Ferdinando in Londra. Egli era Antonio La Grua, principe di Carini, il quale scrisse a Carafa in questi termini:

    "Non scuserò Walewski, ma è il men cattivo della canaglia [...] * [Nicomede Bianchi designa alla indignazione della storia talune frasi giustamente risentite del Re di Napoli e de’ suoi ministri; non ha però una sola parola di biasimo pei Cavour e compagnia bella, quando diplomaticamente dichiaravano nei loro atti di voler mandare al diavolo il Papa e l’Austria] innumerevole e imprudente che compone la Corte e il governo dell’Imperatore, dalla cui cupa mente solo dipende la politica e ogni dettaglio della Francia. Pare egli abbia due pensieri, dominare nel nostro paese per controbilanciare l’influenza inglese nel Piemonte, e concedere a lord Palmerston una soddisfazione per salvarlo dal risentimento del popolaccio inglese fremente per la pace. Secondo molte notizie da me raccolte, con molte parolone di moda, con un irremovibile comportamento nel ricusare, con molte cerimonie e qualche minima concessione, si farà passare questa tempesta".

    Alquanti giorni dopo il Principe Carini scriveva al suo Governo quest’altro dispaccio:

    "Mi sono trovato a Corte. Lord Palmerston mi domandò: — E come stà Poerio? — Meglio di voi e di me, risposi, perché stà sotto un bel cielo e può vivere senza pensieri. — E il suo compagno di catene è sempre un galantuomo? — soggiunse egli. Io replicai: — Non credo che ne abbia alcuno collegato; ma se mai, certamente non sarebbe men pertinace e men vendicativo di quell’antico rivoluzionario. —

    "Palmerston. — Badate, questo affare non è uno scherzo, ma un affare serio e grave [...] di cui il vostro Governo conoscerà fra breve l’importanza.

    "Carini: — Ma lo scherzo l’avete cominciato voi, e io l’ho seguito: voi ben sapete che mi piacciono gli scherzi, senza temere le serie e più gravi conversazioni. Così spero che, senza andare a sturbare a Napoli il mio Governo, potete averle in Londra a vostro piacere e a ogni vostro comando, sempre per me gratissimo". — Con questo linguaggio garbato ed energico sto dissipando le moltissime dicerìe fatte sul mio ritorno. Il mio linguaggio si limita a far intendere che, né il mio Governo né io sappiamo capire perché il magistrato europeo è occupato delle nostre faccende, e si è dato la pena di studiare una farmaceutica ricetta di cataplasmi, senza bisogno di tastar il polso, di guardare la lingua e ricercar i sintomi dell’ottima salute nostra. È poi strano il pensiero di voler scrivere a uno per uno tutti i capitoli di medicina, che si supponessero opportuni per perfezionare il regno delle Due Sicilie, la Santa Sede e quegli altri Stati, i quali, secondo le opinioni della canaglia, non vanno bene e fanno onta alla civilizzazione. Queste, or facete or più gravi risposte mi hanno servito a schermirmi tutta la serata di ieri, nella grande unione del concerto della Regina. Nello stesso modo conto condurmi quest’oggi da lord Clarendon nel solito pranzo officiale per celebrare la nascita di quest’augusta Sovrana * [Dispaccio Carini al ministro degli affari esteri in Napoli, Londra 13, e 31 Maggio 1856].

    Ma l’Inghilterra procedeva risoluta nei disegni ostili di guerra contro il Re delle Due Sicilie, e il suo Rappresentante strenuamente la coadiuvava. Questi, ai 10 di Agosto 1856, inviava officialmente al suo Governo in Londra un Memorandum, dettato dai cospiratori, circa la situazione e i bisogni del Reame di Napoli, nel quale riassumevansi tutti gli attacchi diretti contro il Governo napolitano, tutte le calunnie e le accuse spacciate ai suoi danni dalla stampa settaria dal 1849 in poi; e, appoggiandosi sulle parole pronunziate dal plenipotenziario inglese nel Congresso di Parigi, si conchiudeva per lo ristabilimento della Costituzione del 1848, e si esprimeva la speranza che Francia e Inghilterra "non abbiano ad arrestarsi a fronte del preteso diritto di non intervento". — In questo Memorandum, del quale non dubita di farsi editore ed organo il Diplomatico inglese accreditato presso il Governo di Napoli, e a cui davano ampia pubblicità i diarî inglesi e sardi, è notevole il seguente stranissimo sillogismo: — La potenza di Francia e d’Inghilterra è predominante in Europa; la potenza navale della seconda la rende più specialmente predominante nel Reame di Napoli; la potenza porta seco la responsabilità, e la responsabilità dà diritto ad agire". [...]

    E la stampa periodica contemporanea faceva balenare che una spinta si fosse anche data, e qualche cosa in più, a tali memorandum per conto di Murat, destramente coadiuvato dall’Imperatore cugino * [Vedi A. P. pag. 34-749].

    In mezzo a queste cose l’istesso Rappresentante inglese, con suo dispaccio degli 11 di Agosto dell’istesso anno 1856, era costretto d’informare il suo governo essere stati aggraziati dalla sovrana clemenza del re Ferdinando varii condannati politici; affrettandosi però di definire codesto atto come insufficiente e immeritevole di attenzione.

    [...] Ma la esatta apprezzazione di codesti dispacci [...] è stata data dalle celebri rivelazioni del deputato Petruccelli, il quale assicura, che "Carlo Poerio, protagonista del romanzo epistolario di Gladstone, (il quale nel 1851 tanto fece parlare circa le prigioni e i carcerati di Napoli) * [Lettere degli 11 e 12 luglio 1851, a Lord Aberdeen, il quale, conosciute in seguito le calunnie, ne rigettò la dedica] era una invenzione convenzionale della stampa rivoluzionaria, la quale aveva bisogno di presentare ogni mattina ai creduli leggitori della libera Europa una vittima vivente, palpitante, visibile: d’onde l’ideale mito di Poerio, trascelto all’uopo perché Barone, uomo d’ingegno, già deputato e ministro di Re Ferdinando, cui bisognava far credere un orco divoratore. Insomma Poerio doveva essere l’antitesi di questo Re". — Così il Petruccelli, il quale, dopo altre rivelazioni, conchiude meravigliandosi: "che Poerio reale, abbia poi preso sul serio il Poerio fabbricato dalla rivoluzione pel corso di 12 anni, in articoli di giornali a 15 centesimi la linea, e che lo abbiano anche preso sul serio coloro che lessero di lui senza conoscerlo da presso, e quella parte della stampa che si era fatta complice della rivoluzione * [I moribondi al palazzo Carignano, del deputato F. Petruccelli della Gattina, pag. 183-184]. — E il [...] Palmerston, ministro di Stato d’Inghilterra, ardiva chiedere sul serio notizie di questa bella figura di mito rivoluzionario al Rappresentante napolitano presso il suo Governo! [...].

    Dalle quali cose apparisce quanto giusto fosse il contegno del Governo napolitano, il quale ciò non ostante per amore di pace, ai 26 di agosto, protestava che, avendo saputo per relazioni pervenutegli da Vienna e da Parigi, come il Governo francese si tenesse offeso pel contenuto della sua prima risposta dei 30 giugno, dichiarava di non aver avuta intenzione di offendere alcuno, e conchiudeva, "essere il Re di Napoli il giudice più indipendente e più illuminato delle condizioni di governo che si addicono al suo Reame, dove la quiete che si gode depone a favore del presente organamento dello Stato, e contro i pericolosi consigli dell’estera diplomazia, diretti a suscitare quei torbidi che al presente non vi sono".

    La fermezza del Re Ferdinando II e del suo Governo mettevano la disperazione in cuore ai settarii e ai Governi che li proteggevano. Ai 14 settembre 1856 il Rappresentante inglese scriveva di nuovo al suo Governo, e gli diceva: "essere inutile di parlare della questione pendente con Napoli, ed avere il convincimento, che una modificazione superficiale nel suo governo non potrebbe assicurare la futura tranquillità; crede essere necessario di riformare in una maniera sensibile tutto lo spirito del governo, concedersi almeno qualche porzione di libertà politica, e di amministrarsi la giustizia con mani pure ed imparziali; senza di che l’Italia meridionale continuerà ad essere ciò che è ora, una piaga schifosa agli occhi dell’Europa" [...].

    Intanto, ai 10 di ottobre, il ministro Walewski richiamava da Napoli l’ambasciatore Brenier, e minacciava che una flotta francese starebbe a Tolone ad attendere gli avvenimenti, mentre la flotta inglese si terrebbe pronta a Malta per l’istesso scopo. Il medesimo giorno il ministro degli Affari Esteri d’Inghilterra annunziava al Rappresentante inglese a Napoli la rottura delle relazioni diplomatiche col Governo delle Due Sicilie, e gli ordinava di lasciare Napoli. Tale risoluzione era motivata "da che il Governo delle Due Sicilie non intende modificare il sistema che prevale nei suoi dominii, onde è che il Governo inglese, d’accordo col francese, ha pensato che non si potevano più a lungo mantenere le relazioni diplomatiche con un Governo che rigetta ogni amichevole avviso, e che è determinato a perseverare in un sistema condannato da tutte le nazioni civilizzate". [...] Il Rappresentante inglese, il giorno 16 dell’istesso mese di Ottobre, scrive al suo Governo a Londra: "nulla sembra appoggiare la supposizione che la effervescenza del sentimento pubblico facesse scoppiare una collisione o turbasse la pace di Napoli". Dal che trae la conseguenza che, "non essendovi a temere rivoluzione, il Governo napolitano avrebbe potuto secondare i desiderii della Francia e dell’Inghilterra" [...].

  8. #18
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    Capo IX Baldanza di settari e timori di governi

    [...] Infrattanto gli stessi Governi favoreggiatori del movimento italiano, principiavano ad allarmarsi e ad esitare e a ragione. Curioso è il vedere, tra altri giornali del movimento, La libera parola assalire il Cavour, non sai se per spingerlo ad agire più energicamente, o se non forse per velarne la politica, e dire come dopo il Congresso di Parigi Cavour fosse creduto propugnatore della causa italiana; "nelle nostre interpellanze però di quell’anno, (sono parole del foglio mazziniano) le illusioni cadono, egli si protesta contrario ad ogni moto rivoluzionario, e contento che la polizia del Piemonte avesse modificato l’opinione degli stranieri sul conto nostro, afferma eziandio la cordiale amicizia della Francia. Il dispaccio di Rayneval lo smentisce immediatemente; gli Italiani sono calunniati, come mai non lo furono; le istituzioni del Piemonte disapprovate. Sopravviene la Nota del Buol, in cui si muovono lagnanze contro la stampa piemontese e le manifestazioni del Cavour. Ognuno avrebbe creduto che i sacrifizii, che avea costato la guerra d’Oriente, avessero dato diritto al Ministro piemontese, non già di essere italiano, ma almeno di seguire una politica piemontese, rispettando i trattati, ma dignitosa e ferma; quindi a quella Nota bastava rispondere, che in Piemonte la manifestazione del pensiero è libera; ma bene altrimenti andarono le cose. Cavour risponde come il reo potrebbe discolparsi dinanzi ad un giudice, come un dipendente dal superiore, e contuttociò la vantata benevolenza di Francia e d’Inghilterra non si manifesta punto: queste due Potenze si limitano a dire alteramente: finitela, non vogliamo pettegolezzi, la pace d’Europa non può essere turbata. — Come finirà? con una restrizione delle libertà costituzionali, ciò è indubitato. — Ecco i vantaggi della politica di Cavour".

    [...] Così reclamava imperiosamente allora l’interesse di Napoleone, il quale, vedendo lo scapestrare delle società segrete sbrigliate in seguito del Congresso di Parigi, incominciava ad esserne allarmato, e quindi volle più che mai attiva la sua polizia ad allontanare od arrestare gli uomini più pericolosi. Nello stesso mese di aprile 1857, l’autorevole Daily News recava una sua corrispondenza da Parigi, abbastanza importante, come quella che rivela l’attitudine delle società segrete in Francia, e il perché dell’esitanza di Napoleone III in quel momento, esitanza che nel seguente gennaio 1858 gli valse il famoso attentato di Orsini [...]:

    "Fra le persone arrestate a Parigi nella settimana scorsa, come membri di società segrete, furono i signori Morin e Ancaigne, scrittori della Revue de Paris. Il Morin fu già uno dei direttori dell’Avenir. Fu emesso un mandato d’arresto contro Lefort, lo studente che scrisse i Chants de haine, e fu poco dopo condannato a sei mesi di prigionia per la parte che ebbe nelle dimostrazioni contro il professor Nisard all’Università. Ma Lefort ha avuto sentore di ciò che lo minacciava, e quando fu perquisita la sua abitazione, l’uccello se ne era fuggito.

    "Parrebbe che l’alta vendita (per adoperare stile carbonaresco) sia diretta da alcuno degli esuli più autorevoli rifugiati in Inghilterra. Fra loro e i direttori all’interno sono spesso dissensioni; perché questi accettano volentieri la cooperazione di quelli, ma non vogliono farsi dettar la legge. In Francia l’ordinamento è ristretto quasi del tutto fra le basse classi, le quali sono come impazienti e gelose della specie di suzeraineté, cui pretendono per condizione sociale e per educazione i loro capi. — Sappiam noi che cosa possiamo aspettarci dai vestiti in falde, dress coats e dagli uomini di pretesa capacità; li vedemmo all’opera (dicono essi con disprezzo) e non li vogliamo più che come ausiliarii. — Varie modificazioni sono state introdotte di recente nell’ordinamento delle associazioni. Non sono più divise in decurie o centurie. Nessun membro può avere relazione con più di tre altri membri; e, ad imitazione delle società segrete sotto la restaurazione, essi occupano respettivamente gli estremi di un triangolo immaginario, che coi lati tocca un altro triangolo, e così di seguito diffondendosi per tutti i dipartimenti.

    "Il linguaggio politico commerciale adoperato per trasmettere gli ordini da un luogo ad un altro, per la posta o per telegrafo elettrico, è stato mutato del tutto. Le parole mercanzia, viaggiatori commercianti, azioni, che significano armi, emissarii, sottoscrizioni ecc. eran note da un pezzo alla polizia, e in conseguenza detter luogo ad altre espressioni. Ora le comunicazioni sono diffuse per quanto è possibile per mezzo di affiliati che appartengono alla società detta Bureau du tour de France. È noto, che numero considerevole di operaii fanno ogni anno il viaggio dei Dipartimenti collo scopo di perfezionarsi nei loro mestieri. Quelli che sono affigliati, e che godono grande fiducia, sono adoperati come messi per far giungere le istruzioni ai comitati. Quando questi ordini sono pressanti, gli emissarii viaggiano per la strada ferrata, essendo loro pagate le spese. Con questi mezzi il caso di essere scoperti dalla polizia è assai più difficile. La nuova società, che dicesi scoperta testè e che diede causa a tutti gli ultimi arresti, era forse un ramo della grande associazione, secondo il nuovo ordinamento.

    "In una corrispondenza di Parigi al Times si leggevano giorni sono i seguenti particolari a proposito delle società segrete chiamate credo dei Bons hommes, bons enfants o alcun che di simile. Molti arresti furono fatti ultimamente; metà degli arrestati appartengono probabilmente alla polizia stessa.

    L’Imperatore si è molto adoperato a sradicare il male dal paese; fu restituita la quiete, ma vi è chi afferma, che ciò è solo apparentemente, e che il male, sebbene non si vegga, non fa minore progresso".

    [...] Oltre questa corrispondenza del Times, da altri giornali e da corrispondenze particolari del foglietto succitato si hanno queste ulteriori notizie:

    "In Parigi la polizia ha scoperte le file di una congiura diretta contro la persona dell’Imperatore; gli arresti sino ad ora giungono a 200, e tra questi persone colte e già note nei passati avvenimenti.

    "Luigi Napoleone e Ferdinando II, conchiude il foglietto Mazziniano, si trovano al presente nelle medesime condizioni" [...].

  9. #19
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    [Capo X]

  10. #20
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    Capo XI

    Stato del Regno di Napoli all’epoca del Congresso di Parigi

    [...] Nel 1831 le Corti di Europa si allarmavano di quel che esse chiamavano liberalismo del Re Ferdinando. Salendo il Trono dei suoi Padri, il giovane Re accordava amnistie, richiamava esiliati, riabilitava i suoi avversarî politici, alcuni ne collocava perfino nei posti più importanti dello Stato, ricolmandoli anche di onori. Il fatto è così vero, che nel 1867, quando nelle Due Sicilie imperversava vie maggiormente l’invasore subalpino, uno scrittore devotissimo a lui non meno che alla rivoluzione, non dubitava di pubblicare per le stampe le seguenti parole riguardo al Re Ferdinando II:

    "Era egli Re di potente Stato italiano, venuto nelle grazie del suo popolo per gagliardi rimedii apportati ai gravissimi danni accagionati dal governo del suo antecessore in tutti gli ordini pubblici; che dedicò le sue cure per aver un florido esercito; che aveva concessa un’amnistia abbastanza larga, restituendo cariche civili e militari ad uomini traviati in materie politiche; che allontanava dai consigli della Corona ministri uggiosi al popolo; che dichiarava rimosso per tutti qualunque ostacolo a battere la via dei pubblici impieghi, e che per soprassello mostravasi proclive alle idee del Governo francese, e restìo a farsi dominare dagli influssi austriaci, geloso sempre della indipendenza del suo Reame".

    Quegli che scrive così non è altri che Nicomede Bianchi nella sua storia documentata della diplomazia in Italia dal 1814 al 1861, vol. III pag. 254 e seguenti: nella quale istoria, il Bianchi, a provare quel che asserisce, reca per soprassello i segreti dispacci diplomatici, in prova delle apprensioni di alcune Corti estere, tra le quali primeggiano quella di Vienna e (incredibile a dire) quella di Torino, che si scandolezzano del liberalismo governativo del Re Ferdinando!

    Nel citato libro leggonsi altri non sospetti encomii, oltre gli arrecati, del saggio governo e della prudenza politica di Ferdinando II, principalmente per la prima idea da esso proposta di una lega federale degli Stati italiani. I documenti diplomatici originali del 1833, quivi testualmente riportati, dimostrano ad evidenza la sapienza civile ed internazionale del giovane Monarca. Siffatte cose però parvero pericolose novità ai Gabinetti del Nord, che se ne preoccuparono fino al punto di spedire a Napoli un diplomatico in missione straordinaria, affine di rassicurare il vecchio Re di Prussia più allarmato di ogni altro! Chi avrebbe mai detto allora al Re Ferdinando II, che dopo 26 anni [...] di regno, in sul punto di divenire il Decano dei Sovrani d’Europa, la diplomazia di due liberalissime Potenze occidentali, eccitata appunto dal Governo di Torino, 26 anni prima così scrupoloso e restìo a ogni cosa che sapesse di liberalismo, si sarebbero occupate dei fatti suoi in un solenne Congresso di Stati europei per dargli consigli sul modo di governare i proprii Stati, e per impegnarlo a seguire una politica più liberale * [Vedi A. P. vol. I. profilo politico, pag. 59].

    [...]

 

 
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