Stasera mi andava di confutare una fandonia che da tempo capita di leggere sulla stampa politicamente corretta e di udire da parte di camerati filo-islamici. Ossia che Dante, nella redazione della sua celeberrima Comedia si sarebbe basato sul Corano e su altre fonti islamiche, praticamente rubacchiando idee e concetti.
E tutto questo all'interno di una precisa tattica di riabilitazione e promozione delle culture altre, di solito extra-europee, con cui noi, dando ascolto a questi sedicenti giornalisti e divulgatori, dovremmo essere in perenne debito culturale.
Peccato solo che il tutto non sia vero e confutato da molti testi.
Recentemente ne ho letto pure in questo forum, non ricordo però da parte di chi. Ho deciso così di proporre quest'ottimo articolo di Alberto Cesare Ambesi, pubblicato sul numero 12 de 'La Cittadella', la rivista trimestrale del Movimento Tradizionale Romano (MTR): http://www.lacittadella-mtr.com/
Rivista che vi invito ad acquistare e a diffondere.
LA CITTADELLA
Anno III, numero 12, ottobre-dicembre 2003 e.v.
LE CONTROVERSE ORIGINI DELLA “COMMEDIA” DANTESCA
A proposito di un’interpretazione di Franco Cardini
L’amore (eccessivo?) per la cultura musulmana ha più volte indotto lo storico Franco Cardini a sostenere che sarebbe oramai comprovata e indiscutibile una diretta influenza del Corano sulla struttura della Commedia dantesca. Mi sia però consentito di non condividere.
Già, perché per trovare le vere prefigurazioni della massima opera di Dante occorre risalire a orizzonti che nulla hanno a che spartire con il testo “trasmesso” a Muhammad e che, per converso, avevano più volte illuminato i primi frutti poetici arabo-islamici indicati dallo stesso Cardini come ulteriori fonti dell’ispirazione dantesca. Basti pensare, innanzi tutto, al poema mazdaico (zoroastriano) Ardai Wiraz Namag (“Il libro di Ardai Viraz”) redatto intorno alla seconda metà del VI sec. d.C., ma di certo raccogliendo ed elaborando tematiche o spunti anteriori. E che si tratti di un’anticipazione di non poco rilievo è provato da diverse concordanze, dottrinali e poematiche, già rilevate dal dotto parsi Jvanji Jamsedi Modi nel contesto del volume Dante papers (Bombay, 1914).
Triplice è infatti, in entrambi i poemi, la ripartizione dei mondi ultraterreni (nel testo mazdaico la successione risulta la seguente: Purgatorio, concepito come “Luogo intermedio”, Paradiso, Inferno e ritorno al cospetto di Dio) e parimenti comune è il concetto che a ogni genere di colpa debba corrispondere una pena altrettanto caratteristica. Da rilevarsi, altresì, che anche ad Ardai Viraz è dato d’incontrare delle “guide” spirituali, anzi una coppia di maestri di sapere, con compiti di ammaestramento analoghi a quelli che saranno assolti, al fianco di Dante, da Virgilio, Beatrice e San Bernardo; nel caso in esame: gli arcangeli Atar, Figlio del Sommo Iddio e come tale custode del “Sacro Fuoco” della Vita, e Sraosha (“l’Obbedienza”), entità mediatrice tra il “Saggio Signore” (Ahura Mazda, ovviamente) e gli uomini tutti.
Ma vi è di più. Molto di più. Si trova, per esempio, nel testo iraniano l’incontro e il dialogo con il “Primo Uomo”, Gayomard, così come in Dante il colloquio con Adamo (canto XXVI del Paradiso), nonché, in entrambi, la presenza di incandescenti modulazioni volte a cantare la Luce, quale manifestazione ed essenza, a un tempo, della Regione Suprema (la “Casa della Lode”, secondo la definizione iranica). Non per nulla, fiammeggiano in Ardai Viraz strofe quali le seguenti: Vidi l’Estrema Luce fra le superne luci / Vidi i Beati sopra i troni d’oro / in lucenti vesti dorate / e con fulgore pari a quello del sole. Certo, a questo punto si potrebbe anche invocare l’universalità di talune immagini archetipali, per spiegare le concordanze che ho voluto sottolineare. Tuttavia, pur non escludendo il contributo di un simile fattore, desidero ancora rilevare che le tesi di Modi erano state anticipate di qualche anno da C. S. Boswell nel saggio Irish Precursors of Dante e accolte con vivo interesse dall’indianista Carlo Formichi (1871-1943).
Un ricordo – quello di Formichi – che sopraggiunge quanto mai opportuno, giacché egli fu tra i pochi, intorno agli anni quaranta dello scorso secolo, ad accogliere senza remore le ardite ipotesi espresse da Gabriele Rossetti (1783-1854) nella densa opera Il Mistero dell’amore platonico del Medioevo, nel cui contesto, e in specie nel 1° dei cinque volumi, non mancavano neppure i riferimenti alle dottrine manichee, come fonti ispirative della poesia dei “Fedeli d’Amore” e della poetica dantesca. E, a proposito del manicheismo, mi sia concesso di esporre il seguente quesito: “Franco Cardini ha mai avuto la possibilità di leggere il breve saggio Mani. Rapporti con Bardesane – S. Agostino – Dante (Vita e Pensiero Editrice, Milano, 1932) di Leone Tondelli e gli studi, molto più recenti e di tutt’altro orientamento, di Margarete Lochbrunner, pubblicati in diversi numeri di “Conoscenza religiosa” (si vedano le annate dal 1973 al 1977)?”.
In caso affermativo, perché mai ha sottaciuto le acquisizioni storico-dottrinarie espresse in quelle pagine e in base alle quali può dirsi indiscutibile l’influenza di tutta la sapienza persiana pre-islamica non solo su Dante e sulla cultura medievale occidentale, ma altresì sull’ismailismo (lo shi’ismo settimano), sul nusairismo, nonché sulle più alte espressioni del sufismo iranico? Se poi si aggiunge, come qui aggiungo, che, a sostegno di questa tesi, si inserisce l’opera omnia di uno studioso della statura di Henry Corbin (1903-1978), ritengo che si possa e si debba manifestare più di una perplessità di fronte al silenzio assunto dallo storico fiorentino. Tanto più che troppo spesso si è dimenticato di ricordare che la civiltà musulmana non avrebbe mai raggiunto i livelli, che è doveroso riconoscerle, senza i ricorrenti apporti, matematici e scientifici, provenienti dall’India e dalla Cina.
Ma questo è discorso da svilupparsi in altra occasione, magari ricordando anche che l’Islam, dopo un breve periodo di tolleranza nei riguardi dei filosofi neoplatonici, dei mandei e dei cristiani nestoriani, perché chiamati a fungere da “maestri” nella nascente società musulmana, non tardò a rivelarsi come un feroce persecutore di sabei, zoroastriani e manichei, oltre che matrigna, nei confronti di diversi dei suoi mistici o iniziati: da Abû ’Abdillah Hallâj (857-922), messo a morte a seguito di una condanna (fatwâ) del solito collegio di giuristi e con la complicità di talune cerchie di sufi, a Shihâboddin Sohrawardî (1155-1191), pensatore di valore universale e fatto uccidere da quel Salâhaddîn (Saladino) che Cardini, se non ricordo male, ha mostrato più volte di ammirare senza riserve; da Nizar b. Ma’add (?-1095), gentilmente murato vivo ad Alessandria, al mite ’Ali Muhammad di Shiraz, il Bab (“La Porta”), fucilato nel 1850, all’età di trent’anni, per avere proclamato la necessità di superare il Corano, così come il Corano era andato oltre, a suo giudizio, i precetti formulati dalla Bibbia.
E per il momento basti. Il mio discorso sulla necessità di riscoprire e rivalutare l’antica sapienza persiana, sia sotto il profilo storico sia alla luce del futuro che ci facciamo venire incontro, verrà comunque ripreso, ampliato e approfondito quanto prima. Qui e altrove.
Alberto Cesare Ambesi
Nota de “La Cittadella” - Abbiamo ricevuto e volentieri pubblichiamo questo intervento dantesco di A. C. Ambesi, che da sempre apprezziamo come uno dei migliori studiosi italiani di esoterismo e di simbolismo. Iniziare a parlare di Dante era nei nostri progetti, e grazie ad Ambesi abbiamo potuto porre un incipit. Non abbiamo motivo per respingere le sue tesi “iraniche”, ma vorremmo ricordare che per noi restano primariamente fondamentali, anche da un punto di vista iniziatico, le indiscutibili fonti classiche della Commedia, in primis l’Eneide. E su questo tema per ora rimandiamo ad un libro, che è anche divertente seguendo un po’ lo stile del Kremmerz, dell’ermetista Giacomo Catinella: Tetratologia Ermeneutica sul Grande Arcano della Natura, Editrice Miriamica, Bari 1991.