Dal Corriere della Sera del 19 agosto
E gli eroi del calcio fanno il tifo per Moqtada
Fratelli e cugini degli atleti combattono contro gli alleati Da Atene telefonano: «Vorremmo essere lì con voi»
NAZIONALE OLIMPICA
Battistini Francesco
Nazionale Olimpica DA UNO DEI NOSTRI INVIATI BAGDAD - Hanno anche loro una porta (santa) da difendere, sempre che si vada ai supplementari. A Najaf ci sono due ragazzi, i fratelli Sadir, che da quasi venti giorni stanno intorno alla Tomba di Ali, lanciano razzi contro i Marines e ora forse guarderanno un po' più la tv. Almeno la sera, quando c' è il calcio e tutti i canali si collegano con Atene per l' Iraq dream team: ci gioca anche il piccolo di casa, Salah, il centrocampista che spara pallonate olimpiche. «Vorrei essere lì con voi - ha telefonato l' altra sera Salah a un cugino di Kufa -. Tenete duro, Moqtada al Sadr è il più grande, bisogna avere fiducia in lui». Salah Sadir, 23 anni, sciita, panchinaro nella nazionale irachena e titolare effettivo nell' Esercito del Mahdi. Finora ha giocato solo un quarto d' ora, nello storico 4 a 2 sul Portogallo, la stampa di Bagdad gli regala foto di copertina («coi suoi compagni ha portato alle Olimpiadi lo spirito di pace»), eppure lui è un ragazzo in pena: «Mi chiedono di rappresentare l' Iraq - ha detto all' inviato di Al Jazira -, ma io mi sento pesante come una statua. I miei pensieri sono a Najaf, ai feriti ricoverati nell' ospedale di Kufa. Vorrei essere anch' io un martire nella città santa». I bomber di famiglia, quelli veri, sono rimasti qui. Ogni volta che l' Iraq fa un passo avanti alle Olimpiadi, per qualche minuto si spara in aria a Bagdad, a Bassora, a Tikrit. Da qualche casa si tira più forte, però. Perché i ragazzi di Atene vengono dalle città della rivolta sciita e della guerriglia sunnita. Hanno parenti che combattono. E qualcuno, come Salah Sadir, è qualcosa di più d' un simpatizzante. «Meglio difendere l' indipendenza col lanciarazzi in spalla che con la palla al piede», ha detto chiaro a una tv araba Ahmad Mnadi, altra riserva della squadra, sunnita di Falluja: «Quando gli americani sono arrivati, li ho aspettati con le caramelle. Che ingenuo! Adesso vorrei essere morto, come mio cugino e i tre miei amici che li hanno combattuti. All' inaugurazione dei Giochi, guardavo gli americani che ci applaudivano ed ero furioso: fanno il tifo per noi, come se noi giocassimo per loro». E' meglio vincere un' Olimpiade o cacciare gli americani? Ad Atene, la nazionale evita sortite politiche, è tenuta sottovetro e parla coi portavoce o attraverso l' allenatore. Ma sui media arabi, o nelle telefonate alle famiglie, le opinioni sono senza rete. C' è chi è solo stanco, come Qusay Munir, 23 anni, maglia numero 13, centrocampista di Sadr City che facciamo chiamare da un amico di Bagdad e poi accetta di spiegarci: «Ho molti parenti che stanno combattendo gli americani, non li vedo da parecchio tempo perché io sono sempre in giro per il mondo. Combattere è giusto, ma non ne posso più di guerre. E dopo le Olimpiadi, spero di non dover tornare in Iraq per un bel pezzo». C' è chi invece grida il jihad, come Yassin Omal, 35 anni, viceallenatore che viene da Ramadi. Ci confida che «l' unica cosa che non accetterei mai nella vita è giocare contro Israele» e denuncia d' essere finito addirittura sulla lista dei presunti fiancheggiatori di Zarqawi il mozzateste: «Mentre stavo ad Atene, gli americani hanno perquisito la mia casa, hanno sfasciato tutto. Lo stesso due mesi fa da mia sorella, a Falluja. Sostengono che la mia famiglia aiuta i terroristi. Ma i terroristi sono loro!». E Moqtada? «E' un grand' uomo, il mio cuore è con lui. Anche molti cristiani stanno con lui». Morirà? «Noi lo difenderemo fino alla morte»: più che una resistenza, un catenaccio. F.Bat.