Questa discussione la apro appositamente per rinfrescare la memoria ai vari Padanik & Co., che sui loro bei forum continuano a sparlare di storia senza nessuna cognizione della stessa...
Scrivono bestialità su bestialità senza rendersi minimamente conto del ridicolo che suscitano. Specie quando parlano di RSI 'padana' (!!!) e di guerra fatta quasi esclusivamente dai 'padani' (!!!) con i 'terroni' che invece se la diedero a gambe.
Ignorando i poverini che proprio Roma è stata forse la città ad essere maggiormente rappresentata nella RSI. Basti pensare ai reparti quasi interamente composti da romani come ad esempio il battaglione «Nuotatori Paracadutisti» di Jesolo, comandato dal capitano Nino Buttazzoni.
Ma passiamo all'argomento della discussione.
Nelle terre già occupate molti si ribellarono agli invasori ed al nuovo ordine. Ci fu chi organizzò la stampa clandestina, chi il sabotaggio, chi qualcosa di più. Tuttavia per precisa volontà del Capo di Stato della RSI non furono mai intraprese azioni atte ad innescare guerra fratricida.
Tutti gli articoli tratti da http://www.italia-rsi.org/
Quattro capitoli tratti dal libro MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO (1998), dedicato a: "Agli Eroi Ignoti dei Servizi Speciali torturati e seviziati dagli "Alleati" prima di fucilarli e poi seppellirli in tombe senza nome. Ai ragazzi e ragazze di Firenze fucilati ferocemente sui gradini di S. Maria Novella. A Colui che volle e seppe opporsi a tanti lutti della spirale dell'odio e strenuamente vietò atti che potessero innescare la scintilla della guerra civile nel Sud. Perchè gli italiani sappiano."
I FRANCHI TIRATORI A NAPOLI da MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO -Capitolo IV-
Francesco Fatica
Otto settembre 1943: si scatena la reazione tedesca in tutta Italia in risposta al tradimento badogliano. A Napoli avvengono alcuni tumulti: bande di popolani affamati saccheggiano depositi di viveri; i tedeschi effettuano rastrellamenti. In tale caos c'era chi pensava a sfruttare la reazione di quanti si sentivano vessati dalle rappresaglie dei tedeschi ormai in ritirata, per creare un movimento "partigiano" nella logica attesa degli "alleati" che il nove settembre erano sbarcati in forze a Salerno. Ma i tedeschi opposero una resistenza così accanita che gli anglo-americani furono sul punto di reimbarcarsi. Tuttavia il 27 settembre, dopo che le retroguardie della divisione Göring avevano rotto il contatto, gli inglesi si affacciarono dal valico di Chiunzi sulla pianura, ormai sgombra di ostacoli verso Napoli.
A Napoli i "partigiani" aspettavano di giorno in giorno l'arrivo degli "Alleati" per uscire dai loro rifugi. Guidati dalle frange comuniste - come avvenne pure al Nord - si preparavano a provocare rappresaglie quanto più sanguinose possibili, in modo da muovere lo sdegno popolare e scavare un solco profondo di odio, necessaria premessa per spezzare la coesione del corpo sociale della Nazione. Questa tecnica fu sempre cinicamente e tenacemente applicata fino ad ottenere lo scoppio della guerra civile al Nord. Così veniva sperimentata ed introdotta in Italia per la prima volta quella strategia, già applicata con successo dai comunisti in altre parti del mondo, basata sull'assassinio come metodo di lotta per provocare rappresaglie. Meglio ancora se la rappresaglia provoca una strage, come avvenne poi una prima volta alle Fosse Ardeatine. Si inaugurava così proprio a Napoli questa stagione di pseudo-libertà caratterizzata dall'odio e dal terrorismo, prima sconosciuto in terra d'Italia. In quegli ultimi giorni di settembre Domenico Tilena aveva riaperto la sede provinciale del Fascio a Via Medina, ottenendo l'adesione di un centinaio di iscritti mentre lo stesso Colonnello Scholl, comandante militare germanico della Città, ne restò allibito, dichiarando che si trattava di una follia, avendo ormai gli invasori alle porte1. Fu ricostituita anche la Milizia, con sede nella scuola elementare Vincenzo Cuoco, arrivando a raggiungere gli effettivi di tre compagnie, una delle quali riuscirà poi a disimpegnarsi per raggiungere la Repubblica Sociale Italiana. Molti altri, tra cui gli ultimi tre federali del PNF, Domenico Pellegrini-Giampietro, Fabio Milone, Francesco Saverio Siniscalchi2 e, tra i giovanissimi, gli allora quasi imberbi Enzo Erra, Franco d'Alò e Aldo Serpieri, e il più maturo capitano del genio ing. Gaetano del Pezzo, duca di Caianello, si diressero al Nord, cercando di raggiungere Roma con mezzi di fortuna per continuare a combattere contro gli invasori.
Sparsasi prematuramente il 27 la voce dell'arrivo degli anglo-americani in città, alcuni "partigiani", raccolti gli sbandati sfuggiti alle retate tedesche, iniziarono la caccia al fascista isolato. Al Vomero, Vincenzo Calvi fu aggredito da un folto gruppo e spinto a frustate verso un loro rifugio. Essendo però passata una pattuglia tedesca, i partigiani si eclissarono e Calvi scampò ai suoi aggressori3.
Scrive Enzo Erra "poichè tedeschi e guerriglieri sparavano, anche i fascisti presero le armi che trovarono, e cominciarono a sparare". Il 28 e 29 tiratori fascisti erano già entrati in azione. Artieri dice che erano "pochi, accaniti, qualche centinaio"4.
Nessuno di loro ha lasciato scritti o testimonianze. Si conosce solo quanto dichiarato dagli avversari. Questi franchi tiratori fascisti, a differenza dei "partigiani", non potevano sperare nel soccorso di truppe amiche avanzanti, "non lottavano per vincere, dice ancora Enzo Erra, e sapevano di non avere un domani"5, i partigiani, oltretutto, si coagulavano in gruppi che sopravanzavano gli assediati per numero, prudenza e tattica temporeggiatrice. Per i fascisti si trattò di un fenomeno assolutamente spontaneo e perciò disorganico, che può interpretarsi come una estrema, ostinata e disperata manifestazione di fedeltà ad un mondo che vedevano crollare intorno a loro.
Altri, più organizzati, invece, decisero di continuare la lotta nella clandestinità anche dopo l'occupazione "alleata".
La gran massa della popolazione civile restò ostinatamente barricata in casa o nei rifugi antiaerei e nei ricoveri di fortuna o presso parenti ed amici; chi potè sfollò in campagna. In effetti si può affermare che la popolazione si mantenne diligentemente estranea alle scaramucce in corso per repulsione verso le turpitudini di cui giungeva voce e per evitare coinvolgimenti delle persone care.
Franchi tiratori fascisti ci furono sicuramente al Vomero, al Museo, a Porta Capuana, a Piazza Mazzini, nelle vie del centro, ma anche in periferia. Scrive Artieri che un fascista isolato sparò con una mitragliatrice da una terrazza della Rinascente, nella centralissima Via Toledo. Accerchiato, quando stava per essere preso, si precipitò con l'arma da una finestra. Ancora Artieri descrive, come confermano anche altri autori, l'altra tragica vicenda di un capitano della Milizia che a Via Duomo si asserragliò e combattè strenuamente; quando gli insorti lo raggiunsero, si uccise.
E sempre Artieri testimonia di un altro fascista che in Piazza Marinelli sparò e tirò bombe, ma venne preso e fucilato.
L'antifascista de Jaco riconosce "pochi si salvarono, pochissimi chiesero pietà: non il Tommasone, che aveva sparato per tre giorni da una casa alla Salute (adesso Via M.R. Imbriani), non il Porro, non altri uccisi in combattimento o fucilati sommariamente"6. Testimoni oculari mi hanno raccontato che al Tommasone fu intimato di rinnegare la sua fede fascista e di insultare il Duce. Essendosi sdegnosamente rifiutato, fu assassinato nel tratto di via Salvator Rosa compreso tra l'angolo di via Gesù e Maria e Piazza Mazzini. Sulla base di questa testimonianza ritengo di poter smentire la versione ufficiale che vorrebbe il Tommasone fucilato sotto i portici della Galleria Principe Umberto. Il Porro, preso nel rione Materdei fu trascinato via tra il ludibrio di una piccola folla di facinorosi e spinto su un cumulo di immondizie, dove persino suo padre fu costretto a sputare sul figlio. Quindi fu ucciso in un crescendo di vilipendi e sevizie orchestrati platealmente dalla istigazione più feroce all'odio contro il fascista, ormai disarmato e inoffensivo. Il de Jaco narra di due franchi tiratori fascisti di via Duomo, uno dei quali venne "buttato giù dal balcone" e l'altro fucilato. Un altro ancora fu massacrato a colpi di pietra7. Ancora ferocia, ancora coinvolgimenti della popolazione su istigazione bestiale di pochi agitatori. Il De Antonellis tratta di un commando che uccise molti partigiani tra via Salvator Rosa e il Museo; un altro gruppo che sparava su Piazza Dante dal liceo Vittorio Emanuele; singoli tiratori a via Toledo, in via dei Mille, alla salita Magnacavallo (attualmente via F. Girardi). Secondo De Antonellis i fascisti asserragliati nella caserma Paisiello, in piazza Montecalvario, avendo tenuto duro per due giorni, quando furono attaccati in forze il giorno 30, dopo un'ora di sparatoria, riuscirono a dileguarsi8, (approfittando, evidentemente, di smagliature di assedianti tremebondi). Alfredo Parente scrive che nuclei fascisti "tenevano duro in alcune zone della città" e segnala "una vera battaglia tra partigiani e fascisti in via nuova Capodimonte"9. Il Tamaro testimonia episodi di fascisti tiratori in via dei Mille, al parco CIS in via Salvator Rosa, (più precisamente di fronte al parco CIS che era invece occupato dai partigiani n.d.a.) a piazza Carità e aggiunge che un nucleo "barricatosi dentro una casa in Piazza Plebiscito resistette per due giorni". La torre degli Arditi a porta Capuana fu occupata, presa e rioccupata in ripetuti scontri tra fascisti e partigiani; tiratori fascisti furono protagonisti di alcune sparatorie al Vomero, restando spesso uccisi10. Artieri racconta l'episodio di un uomo che si era esposto allo scoperto durante una sparatoria al Vomero, afferrato dal Tarsia per farlo mettere al riparo, si divincolò insolentendolo. Colpito poi con due bastonate al capo, fu atterrato e, "portato in salvo in un portone, gli si trova una tessera". Era il Federale di Enna. "Volevo morire" - dice. "Non morì". Testimoni oculari mi hanno riferito che il tenente de Fleury, che poi me lo ha confermato personalmente, appostato in posizioni strategiche ad Afragola, oppose strenua resistenza con i suoi militi fino all'arrivo degli anglo-americani.
Il reparto al completo, sempre agli ordini del focoso tenente, riuscì a disimpegnarsi, ad impadronirsi di un autocarro ed a ripiegare a nord, per continuare la lotta sotto la bandiera della R.S.I.
Spavaldamente votati al sacrificio supremo, apparvero al Berti quattro giovanissimi tiratori fascisti a Piazza Mazzini, imberbi kamikaze in camicia nera, piantati in mezzo alla piazza, armati soltanto di moschetto, mentre i partigiani appostati prudentemente al riparo delle finestre dei palazzi circostanti, sparavano su di loro. Così li vide il Berti, interprete di una colonna tedesca che, in ritirata, transitava per Piazza Mazzini.
La colonna si fermò, i quattro giovani in camicia nera furono invitati a salire, ma si rifiutarono affermando spavaldamente di voler invece aspettare gli anglo-americani per opporre l'ultima resistenza. Oltre alla testimonianza del Berti in "Wermacht-Napoli 1943" di loro non si è saputo più nulla11. La caccia al fascista da parte dei partigiani si protrasse ferocemente fino all'arrivo degli anglo-americani ed anche oltre, con contorno di devastazioni e saccheggi sistematici dei rispettivi appartamenti. Il primo ottobre a Ponticelli fu linciato in piazza con rinnovata ferocia e sadica voluttà Federico Travaglini, già fiduciario del Fascio di Ponticelli prima del 25 luglio, che pure non aveva, per generale riconoscimento, mai trasceso nella sua carica e non aveva neppure più svolto attività politica. Il cadavere venne vilipeso oscenamente persino da donne e bambini12.
Non era mai successo nella storia di Napoli.
Appaiono così i primi frutti di una cinica e spietata regia estranea alla nostra cultura, la stessa regia barbara e feroce che sarà poi imposta al Nord e di cui ancora oggi dobbiamo registrare gli effetti disgreganti.
NOTE
Il testo è stato emendato dalle numerose note (vedi numeri di riferimento da 1 a 12) presenti sull'originale cartaceo.
MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO F. Fatica.1998. Istituto di Studi Storici Economici e Sociali, Via Salvator Rosa, 299 - 80135 Napoli. Tel. 081-5495081 - 680755
VALERIO PIGNATELLI da MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO -Capitolo VIII-
Francesco Fatica
Come abbiamo già visto, il principe Valerio Pignatelli di Cerchiara venne designato quale capo delle "Guardie ai Labari".
Eccezionale personaggio di grande coraggio, carattere avventuroso, indipendenza e stile di vita, vita vissuta intensamente, sempre teso nella lotta per i più alti ideali, nacque a Chieti nel 1886; come già detto, fu comandante di Arditi nella grande guerra; di Dubat nella guerra di Etiopia; di Frecce Nere nella guerra di Spagna; carico di medaglie e di ferite, di ordini militari nei più alti gradi (di Savoia, italiano - della Legion d'onore, Francese - della Silver Star, americano - della Cruz Laureada di San Fernando, spagnolo) alla sua non più tenera età aveva voluto ancora ottenere il comando di un reparto di paracadutisti, dopo aver regolarmente frequentato e superato i corsi ed i lanci a Tarquinia.
Durante la sua movimentatissima vita aveva trovato il modo di impegolarsi nella rivoluzione comunista di Bela Kun in Ungheria: era addetto militare a Budapest e rimase, unico diplomatico straniero a proteggere gli interessi di quasi tutti i paesi europei.
Ritenne ancor più doveroso partecipare agli eventi della rivoluzione della stessa Russia Sovietica, dove combattè ovviamente con i "Bianchi" di Wrangel.
Nel 1920 fu implicato in Messico in una delle tante rivoluzioni di quel periodo finendo per essere acclamato imperatore in una provincia del Sud, sia pure per soli dieci giorni; Valerio Pignatelli ne rideva per primo quando lo raccontava.
Purtroppo, quell'avventura fu funestata dalla tragica perdita della prima moglie. Egli stesso scampò per puro miracolo oltre frontiera, negli Stati Uniti, dove arrivò ferito senza scarpe, sconosciuto.
Ma dopo sei mesi riuscì a risalire la china e sposò la figlia del miliardario Hearts proprietario di una catena di giornali estesa dal Pacifico all'Atlantico. Da questa seconda moglie dovette divorziare più tardi per incompatibilità con lo stile di vita dei miliardari americani.
Tornato in Italia, sposò poi Maria De Seta, che aveva già conosciuta molti anni prima, giovanissima; Maria fu per lui la moglie ideale in quanto concordava con lo stile e con gli ideali a cui egli aveva consacrato la vita.
Valerio Pignatelli aveva aderito tra i primi al movimento fascista, ma si era dimesso più volte; fu in accesa polemica anche con Farinacci.
Il 25 luglio '43 Pignatelli, più ribelle che prono alla dittatura fascista, avrebbe potuto ritenersi esonerato dall'incarico delle ipotizzate Guardie ai Labari, incarico imprecisato e pressocchè irrealizzabile per i sopravvenuti eventi. Invece, coerentemente con il suo stile di vita e con i suoi ideali, il principe ritenne di aver il dovere di attuare a qualunque costo il difficilissimo mandato.
Come già detto nel cap. I, Ettore Muti, Barracu e Pignatelli preparavano un colpo di mano per liberare Mussolini, ma poi si divisero i compiti e Pignatelli tornò in Calabria per ricostruire l'organizzazione delle "Guardie ai labari" nell'imminenza dell'invasione.
A Napoli nel frattempo agiva, su disposizioni avute direttamente da Ettore Muti, un altro protagonista della lotta clandestina, il tenente Antonio De Pascale che nel 1941 durante la sanguinosa battaglia di Monastir, nella campagna di Grecia, era stato ferito molto gravemente mentre, come comandante di compagnia, avanzava allo scoperto alla testa dei suoi soldati all'attacco di una munita posizione dominante greca.
De Pascale riuscì miracolosamente a sopravvivere per l'intervento personale di Mussolini che seguiva l'attacco dall'osservatorio di Stato Maggiore. Così De Pascale fu imbarcato di urgenza su una nave ospedale e quindi trasferito a Bologna, dove fu ancora una volta operato e trattenuto in convalescenza e per le cure riabilitative. A Bologna fu visitato da Ettore Muti, che cercava elementi affidabili tra gli ufficiali distintisi per condotta valorosa e responsabile, onde utilizzarli in una azione di opposizione alle trame disfattiste che si concretarono poi nella seduta del Gran Consiglio il 25 luglio del 1943, ed ebbe da lui istruzioni per le azioni future. In seguito a ciò de Pascale ebbe un permesso dall'ospedale per venire a Napoli, ove contattò il tenente Sorrentino, il prof. Farnetti e Nando di Nardo, anch'egli reduce dal fronte greco, Enzo Di Lorenzo, Nicola Galdo e Vito Videtta.
Verso la metà di dicembre 1943 Pignatelli ricevette a mezzo radio, con un cifrario precedentemente concordato con Barracu, l'ordine di spostarsi a Napoli per meglio seguire le operazioni degli eserciti "alleati" e per tenere contatti diretti anche con i fascisti della Campania.
Il principe appena giunto a Napoli riprese i rapporti con il colonnello Luigi Guarino, vecchio ardito di guerra, Fiamma Nera, di cui era molto amico e poi entrò in contatto con Nando di Nardo e con Antonio de Pascale che aveva attivato il nucleo previsto da Muti.
A loro si aggiunsero ben presto decine e decine di uomini e donne ferventi e decisi.
Mi limito a citare l'ing. Ruggero Bonghi, il prof. Giuseppe Calogero, Nicola Galdo, che scriveva e stampava un giornale con un ciclostile trafugato nottetempo dalla sede del GUF, la prof.ssa Elena Rega, che poi sposò De Pascale, il libraio Bolognesi, Pasquale Purificato, Antonio Picenna, il marchese Capitano di vascello Marino de Lieto, anche lui superdecorato eroe della I guerra mondiale, che, facendo base nello studio dell'arch. De Pascale, partiva per certe sue solitarie, segretissime missioni di sabotaggio arrivando a rischiare la vita in strenui corpo a corpo, come un qualunque giovane assaltatore.
De Pascale diceva di lui e di qualche altro che agiva in "solitario", che facevano una loro guerra privata.
Pignatelli si servì principalmente della collaborazione dell'avv. Nando di Nardo e dell'arch. Antonio de Pascale a Napoli, dell'avv. Luigi Filosa a Cosenza e per i contatti con la Puglia, e del tenente Pietro Capocasale e di Simone Ansani nella provincia di Catanzaro1.
Così Pignatelli non disponendo di alcun finanziamento, fu costretto ad agire sacrificando beni personali ed utilizzando al meglio l'abnegazione di camerati in Calabria, in Puglia ed in Campania2.
Gruppi organizzati secondo le direttive venute da Roma, vennero collegati con vari gruppuscoli nati spontaneamente fra giovani ed anziani.
A Napoli riuscirono a prendere contatti con il mondo dell'antifascismo e con le massime autorità del governo badogliano e degli eserciti di occupazione.
I collegamenti con la Calabria erano tenuti dal colonnello Guarino, superando proibitive difficoltà di viaggio.
Intanto aveva preso contatti con Pignatelli il tenente di vascello Paolo Poletti, agente speciale della RSI, che era riuscito ad infiltrarsi nell'OSS (servizio segreto americano).
Giovanni Artieri nella sua "Cronaca della Repubblica Italiana" racconta come il principe e la principessa si sistemarono strategicamente in una villetta sulla collina di Monte di Dio, nella piazzetta del Calascione, villetta che fu frequentata da intellettuali antifascisti e dal più qualificato mondo militare inglese e americano presente a Napoli, dalle massime autorità del governo del "Re", dal generale Wilson, dai capi dei servizi segreti militari (l'Intelligence Service, inglese - l'OSS, americano - il SIM, italiano), dai capi dell'amministrazione di occupazione (AMGOT), dal prefetto, dai generali "alleati" di passaggio per la città. A tutta questa gente i principi Pignatelli offrivano lauti pranzi, in una cornice aristocratica abbagliante e... "con roba calabrese" allora irreperibile a Napoli, ottenendone preziose informazioni militari e politiche, come scrisse lo stesso Pignatelli nel suo rapporto inviato alla Corte Centrale di Disciplina del MSI nel giugno 1948 in occasione di una polemica con il prof. Pace.
Scrisse Giovanni Artieri del principe e della principessa3: "Lavora-vano, insomma nel rosso dell'uovo. Apparivano insospettabili agli occhi inglesi e americani; Valerio per le innumerevoli relazioni collegate con la sua vita negli Stati Uniti, per la sua amicizia con Alexander Kirk e innumerevoli diplomatici americani e inglesi; lei, per uguali relazioni, specialmente nell'establishment britannico e fin quasi ai gradini del trono; perfetti inoltre nelle lingue che parlavano con l'accento di Oxford, passaporto di efficacia insuperabile presso il mondo anglosassone. Così tra l'ottobre 19434 e l'aprile 1944, nel cuore stesso di Napoli e del mondo antifascista e anglo-americano, visse e operò una cellula binaria singolarissima, che animò gran parte della "resistenza" nell'Italia meridionale".
Pignatelli e sua moglie raccoglievano larga messe di notizie preziose per l'attività clandestina e per la R.S.I.
Quando al principe fu trasmesso l'ordine di recarsi nella R.S.I., lasciandosi però la possibilità di tornare al Sud, Pignatelli riuscì ad ottenere un lasciapassare, ma soltanto per sua moglie, attraverso i buoni uffici del tenente di vascello Paolo Poletti (infiltrato, come si è detto, nell'OSS americano).
Nel frattempo però un certo tenente Nuvolari5 era riuscito ad ottenere la fiducia e le simpatie dei principi Pignatelli e dei loro camerati. Accompagnò la principessa insieme a Poletti fino al punto in cui Ella si avviò a passare le linee inoltrandosi arditamente nei campi minati.
Maria Pignatelli si incontrò con Barracu e fu portata in aereo da Mussolini, che voleva essere minutamente informato sull'attività clandestina fascista e voleva soprattutto essere sicuro che nessuna provocazione fosse attuata, facendo così evitare sanguinose rappresaglie in grado di accendere la miccia della guerra civile anche al Sud.
Fu stabilito anche un cifrario sulla base, in chiave nove, della poesiola "La vispa Teresa" ed un codice da adoperare nella trasmissione per i prigionieri di guerra (Pignatelli era "Il cappellano", Barracu era "Ciccio", Mussolini "l'autocarro" e via di seguito)6.
Ma l'Intelligence Service, che aveva infiltrato il suo agente Nuvolari, essendo al corrente della vera identità della principessa che aveva attraversato le linee sotto falso nome, non appena la Pignatelli ritornò a Sud, pretese dagli americani l'arresto dei principi nonostante le disperate manovre del tenente di vascello Poletti, il quale per salvare i principi, finì per scoprire il suo gioco.
Fu anch'egli arrestato e torturato fino a farlo impazzire in una villetta isolata alle falde del Vesuvio, nei pressi di Torre del Greco, dove gli alleati tenevano i loro "interrogatori".
Poletti non parlò; oramai ridotto ad un povero essere urlante fu tradotto al carcere di Santa Maria Capua Vetere ed ivi rinchiuso nella cella n° 8, la cella imbottita riservata ai pazzi furiosi.
Il 19 maggio del '44, il sergente americano di guardia lasciò a bella posta la porta della cella aperta e non appena Poletti continuando ad urlare nudo ed ammanettato, uscì nel corridoio, gli scaricò addosso la pistola di ordinanza7.
La salma fu rigettata nella cella e, chiusa a chiave, venne lasciata per due giorni a terra. Alla fine fu messa a forza in una bara molto piccola rispetto alla sua corporatura.
Il principe e la principessa, probabilmente a causa delle loro amicizie importanti e forse anche per soffocare lo smacco delle compromissioni delle alte personalità che erano state loro ospiti, furono "interrogati" con metodi meno feroci, ma psicologicamente stressanti. La principessa, considerata più debole, fu messa al muro due volte, inscenando finte fucilazioni. Nei primi tempi furono detenuti nella villa de Falco sulle pendici del Vesuvio, nei pressi di Torre del Greco: forse la stessa dove era stato torturato il martire Poletti e, prima di lui, altri Agenti Speciali della R.S.I.
Intanto anche Di Nardo fu compromesso per una lettera inviata a Roma al barone Marincola di San Floro a mezzo del tenente Sorrentino.
Avvenne la delazione del barone o di sua moglie, americana, che decise probabilmente di "servire gli interessi del suo Paese in guerra" come scrive ancora l'Artieri. Seguì l'arresto di Di Nardo che era subentrato a capo dell'organizzazione clandestina fascista e, naturalmente, del tenente Sorrentino.
Risultati vani gli interrogatori fatti dagli "alleati" i Pignatelli furono passati al CS (che aveva sede in Napoli a Via Fiorelli) capeggiato dal maggiore Pecorella, dei CC.RR., che, in stato d'ira, arrivò a colpire l'anziana principessa con il calcio della pistola sulla fronte, provocandole una ferita lacero-contusa che sanguinò abbondantemente8.
Per inviare i messaggi da Via Fiorelli, Pignatelli finì per servirsi degli stessi militari incaricati di sorvegliarlo, evidentemente ben disposti a lasciarsi convertire. Quattro di essi furono scoperti e imprigionati, ma ebbero sempre un contegno virile e dignitoso, alla pari degli altri detenuti politici.
Arrestato Di Nardo, al vertice dell'organizzazione restò De Pascale.
A dargli man forte attraversarono le linee un gruppo di marò della X MAS al comando del tenente Bartolo Gallitto. In mezzo ad essi però c'era un agente doppio che li tradì; così furono arrestati e, con essi, anche De Pascale.
Un altro Agente Speciale che aveva attraversato le linee e si era presentato a De Pascale fu Antonio Granata, napoletano verace, ottimo soldato che seppe tener testa intelligentemente, senza mollare alcuna informazione, al famigerato maggiore Pecorella giocandolo sui tempi fino a poter usufruire dell'amnistia del '46.
Granata finì con De Pascale nella stessa cella, la cella n° 97 del padiglione Italia del carcere di Poggioreale, illuminata da un'unica finestrella a bocca di lupo. Il padiglione Italia riservato ai detenuti politici era talmente affollato di fascisti che fu necessario occupare alcune celle dell'adiacente padiglione H, ove anch'io ebbi la ventura di essere ospitato.
Onoratissimo.
Del processo contro i fascisti di Napoli e gli "agenti speciali" di Bartolo Gallitto parleremo in seguito.
Dopo l'occupazione di Roma, il principe fu trasferito a Regina Coeli. Qui, a metà luglio, ricevette in modo del tutto insolito - dati i regolamenti carcerari - la visita di suo cognato, il principe Antonio Pignatelli di Terranova, che fu guidato direttamente nella sua cella, accompagnato dal procuratore generale del Tribunale americano di Roma, presentatogli come un caro amico. Il cognato si offrì di tirarlo fuori dal carcere con l'aiuto dell'amico americano, ma Pignatelli rifiutò recisamente.
Dopo aver trascorso un paio di mesi a Regina Coeli, Pignatelli, fu trasferito nel campo di concentramento di Padula9, ricavato nella celebre Certosa, dove incontrò altri duemila camerati colà ristretti, polarizzando ogni attività politica e morale degli internati.
Nel marzo 1945 fu trasferito nel carcere di S. Giovanni a Catanzaro per essere processato da quel Tribunale militare.
Fu in quell'occasione che potei osservarlo da lontano, durante "l'ora d'aria", essendo anch'io detenuto nello stesso carcere. I secondini avevano ordini severissimi di non farlo avvicinare dagli altri detenuti. Egli prendeva il sole a torso nudo in un recesso del cortile del vecchio carcere per dar sollievo alle sofferenze provocate dai postumi delle sue molte ferite di guerra di cui si intravedevano chiaramente le cicatrici10.
Processato dal Tribunale Territoriale Militare di Guerra della Calabria, fu condannato a dodici anni di carcere, essendo riuscito a minimizzare l'attività svolta ed avendo incontrato, evidentemente, la disponibilità di giudici che non gradivano compromettersi troppo11.
Dopo la condanna fu spedito al borbonico penitenziario di Procida dove finalmente incontrò quei giovani del processo degli "88 fascisti di Calabria" che, essendo stati condannati a pene più rilevanti, erano stati assegnati allo stesso penitenziario.
A Procida erano affluiti anche altri fascisti provenienti da varie parti. Per tutti costoro Pignatelli costituì ancora una volta una guida morale e ideale12.
Il principe venne poi trasferito nel carcere militare di Napoli (Castel S. Elmo) e fu sottoposto a nuova istruttoria per le vicende del gruppo di clandestini napoletani, ma il processo si estinse per l'amnistia del giugno 1946, come sarà riferito nel cap. XIV.
E' da ricordare che, secondo quanto testimoniò Antonio Bonino, vice-segretario del P.F.R., Mussolini, richiedendo la consegna del principe Valerio Pignatelli e Signora, offrì in cambio qualsiasi persona, non escluso lo stesso Ferruccio Parri13.
In una parentesi letteraria della sua vita il principe aveva anche scritto qualche romanzo di cappa e spada, quindi aveva dimestichezza con la penna e si era proposto di scrivere, in collaborazione con la moglie, una storia dettagliata dell'attività clandestina fascista.
Purtroppo nel 1965 Valerio Pignatelli morì a Sellia Marina (CZ) senza aver portato a termine la sua fatica.
Le sue carte furono consegnate anni dopo dalla principessa al giornalista Marcello Zanfagna deputato del Msi-DN, il quale, preso da mille impegni contingenti, non seppe trovare il tempo per portare a termine il libro che si era proposto di pubblicare.
Purtroppo i documenti di Pignatelli, insieme a molte altre carte di altro genere, andarono disgraziatamente perduti in una vicenda di alienazione di immobile alla morte di Marcello Zanfagna.
Ci restano oggi il rapporto che Pignatelli inviò il 7-6-1948 alla Corte Centrale di Disciplina del MSI, la memoria di Nando Di Nardo, le testimonianze dirette dello stesso Di Nardo (prima della morte) e dell'arch. Antonio De Pascale, i quali ressero, dopo Pignatelli, il comando generale della lotta clandestina fascista nell'Italia meridionale.
E' impossibile parlare dell'attività politico-militare di Valerio Pignatelli senza accennare a colei che fu la sua migliore collaboratrice e forse ispiratrice, che certamente seppe affrontare rischi e difficoltà con ardire e forza d'animo sovrumani.
Maria Elia era figlia di un ufficiale di Marina; crebbe nella piena adesione alla massima fascista del "Vivere pericolosamente", praticò sport audaci e amò rischiare in lunghe e temerarie navigazioni a vela. Sposò molto giovane il marchese De Seta. Con Valerio si incontrarono una prima volta ma presero vie diverse; più tardi, quando si sposarono, Maria e Valerio unirono due caratteri avventurosi ed impetuosi, entrambi prorompenti nel più appassionato amor di patria spinto fino ad osare l'estremo sacrificio, come d'altronde non era raro trovare allora in uomini, donne, giovani ed anche giovanissimi cresciuti nel clima fascista.
Due caratteri molto simili, con interessi e forti sentimenti comuni, si incontrarono e talvolta si scontrarono, giungendo però ad ottenere, in un comune afflato, la conquista delle mete agognate.
Maria Pignatelli ebbe modo di mostrare le sue altissime qualità quando svolse la sua missione in R.S.I., che iniziò affrontando tranquillamente le insidie dei campi minati durante l'attraversamento delle linee nella zona di Cassino e che portò a termine con perizia di diplomatico, facendosi apprezzare e stimare da italiani e da tedeschi14.
In particolare, durante una colazione con Barracu e Kesserling, questi ebbe a scrivere su di un cartoncino, che era sul tavolo "Se l'Italia ha molte donne intrepide come lei è una nazione che non può morire".
Ed effettivamente Maria Pignatelli fu una donna intrepida anche quando fu "interrogata" dagli "alleati" che usarono mezzi di tortura morali, psicologici ed intimidazioni scientificamente studiate arrivando a metterla al muro ben due volte per finte fucilazioni.
Passata poi al C.S. badogliano, fu minacciata con la pistola in pugno dal capitano CC.RR. del C.S. De Fortis, e fu schiaffeggiata15.
Sempre nei locali del C.S. fu percossa col calcio della pistola dal maggiore Pecorella e fu vista con la fronte sanguinante dall'architetto De Pascale colà detenuto. Anche la principessa fu portata a Roma e rinchiusa alle Mantellate, quindi nel campo di concentramento di Padula.
Alla chiusura di questo campo fu trasferita in quello di Terni tenuto dagli inglesi e da qui in quello di Riccione, anch'esso inglese, dove riuscì ad evadere audacemente conducendo poi vita clandestina fino al 9 dicembre 1947 e cioè fino all'entrata in vigore del trattato di pace.
In tutte le carceri ed i campi dove fu rinchiusa, la principessa divenne guida morale e politica delle altre internate; tornata alla vita civile, si interessò sempre di aiutare i camerati perseguitati dalla sorte, e soprattutto dagli antifascisti.
Maria Pignatelli è quindi degna di essere iscritta nell'albo d'oro delle donne fasciste che tutto diedero alla Patria, quali furono le Ausiliarie, quali le giovanissime franche tiratrici di Firenze, e quali perfino, oso dire, le ingenue ragazze del Sannio che avrebbero voluto lottare assieme ai camerati e che, in mancanza di contatti, isolatamente intrepide, presero l'iniziativa di lanciare dalle finestre mucchi di schegge di vetro sugli invasori anglo-americani16.
NOTE
Il testo è stato emendato dalle numerose note (vedi numeri di riferimento da 1 a 16) presenti sull'originale cartaceo.
MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO F. Fatica.1998. Istituto di Studi Storici Economici e Sociali, Via Salvator Rosa, 299 - 80135 Napoli. Tel. 081-5495081 - 680755
IL PROCESSO DEGLI 88 FASCISTI da MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO -Capitolo X-
Francesco Fatica
L'organizzazione clandestina fascista in Calabria merita una particolare menzione, sia per il numero degli imputati nel processo che si tenne a Catanzaro nell'aprile 1945, che per l'importanza delle strutture finalizzate al sabotaggio ed alla guerriglia che vennero scoperte dagli inquirenti.
Dalle indagini dei CC.RR. (Carabinieri Reali) vennero portati in luce quattro centri operativi clandestini: a Catanzaro, a Nicastro - Sambiase (oggi Lamezia Terme), a Crotone ed a Cosenza. Ma, come si può ben capire, fu adottata ogni tipo di precauzione per sminuire agli occhi degli inquirenti la vastità e l'efficienza dell'organizzazione che operava clandestinamente anche in molte altre zone.
I CC.RR. di Nicastro fin dal settembre '43 avevano dovuto notare le manifestazioni di un'attività clandestina fascista nel Nicastrese che andò man mano intensificandosi fino ad arrivare ad attentati dinamitardi intimidatori contro strutture del partito comunista e abitazioni di personalità antifasciste.
Furono arrestati alcuni giovanissimi, già iscritti alla GIL (Gioventù Italiana del Littorio), comandati dallo studente liceale Lionello Fiore Melacrinis: un biondino amato da tutti, bello, bravo, studioso, ardito e trascinatore.
Era una squadra agguerrita di adolescenti delle scuole superiori, avevano raccolto un notevole armamentario bellico e si preparavano a ritirarsi sulle montaghe delle Pre Sila, che sovrastano Nicastro, per passare a vere e proprie operazioni di guerriglia.
Nel frattempo tentativi andati però a vuoto, di sabotaggi di ponti a Sambiase ed a Soverato, portarono alla scoperta di altri clandestini e di notevole quantità di materiale esplodente.
Ancora una scoperta dei CC.RR. questa volta nei pressi di Cosenza: il sottotenente Vittorio Bruni aveva consegnato armi del Regio Esercito ai clandestini fascisti.
Intanto, per una fortuita coincidenza, quasi contemporaneamente veniva segnalato nei pressi di Crotone un trasporto clandestino di bombe a mano che portò, dopo varie vicissitudini, al rinvenimento di un notevole deposito di armi da guerra in un casolare di proprietà del marchese Gaetano Morelli, maggiore dell'esercito in congedo.
Morelli aveva sacrificato beni personali per finanziare l'organizzazione di una squadra che era ormai pronta a prendere la via della Sila per operare con sufficiente armamento, vettovaglie ed attrezzature. Tutto questo non fu ovviamente rivelato al processo ma l'entità del materiale bellico ritrovato era un indizio abbastanza eloquente. Le vettovaglie invece furono del tutto trascurate.
Le indagini furono spinte in tutte le direzioni e fu relativamente facile trovare indizi che incriminarono a Catanzaro alcuni dei promotori dell'organizzazione e portarono alla scoperta di altri depositi di armi e munizioni.
Il tenente Pietro Capocasale era stato prima dell'arresto, un attivo coordinatore dell'organizzazione clandestina. Aveva tessuto una fitta rete di collegamenti per conto del principe Valerio Pignatelli con i gruppi citati e con molti altri rimasti clandestini, disseminati in tutta la Calabria.
Dopo breve latitanza fu arrestato a Bari l'avv. Luigi Filosa che aveva raccolto attorno a sè in Cosenza un gruppo di professionisti, studenti universitari e fascisti di ogni estrazione sociale, giovani ed anziani, di Cosenza e della provincia, ed era in collegamento anche col resto della Calabria, con la Puglia e con Napoli.
Essi si preparavano alla guerriglia raccogliendo armi e vettovaglie, ma si preparavano anche ad effettuare sabotaggi in grande stile, prendendo di mira i tralicci dell'alta tensione che portavano l'elettricità prodotta dalle centrali idroelettriche della Sila.
Le centrali erano sorvegliate da reparti "alleati", ma le linee elettriche restavano vulnerabilissime1.
Il tenente Capocasale, nei suoi giri di ispezione e coordinamento, aveva raccomandato in particolare ai ragazzi di Nicastro di mantenersi calmi per poter meglio prepararsi ad intervenire non appena le circostanze si fossero mostrate favorevoli, evitando così di compromettere la clandestinità con azioni troppo scoperte in un piccolo centro, dove , le indagini potevano essere mirate più facilmente. Ma le sue raccomandazioni furono spesso trasgredite, sia per la linea dura che il notaio Ugo Notaro, anziano fascista intransigente, capitano di fanteria in congedo, voleva imporre, sia per la naturale irruenza di molti giovanissimi clandestini che, autonomamente e spavaldamente, continuarono ad usare esplosivi anche dopo l'arresto dei loro coetanei più sfortunati.
Gli "Alleati", secondo un clichet ormai abitudinario, lasciarono il processo agli italiani di Badoglio. Il Tribunale Militare Territoriale della Calabria, con sede a Catanzaro, fu investito della responsabilità di istruirlo. Ma gli ufficiali del Regio Esercito non dimostrarono affatto entusiasmo e tanto meno zelo per l'incarico ricevuto, anzi adoperarono ogni possibile solerzia per limitarne la portata2.
Può apparire strano che un tribunale militare in tempo di guerra non operi nell'ambito del codice penale militare di guerra.
Bande armate, fucilazioni, invece, furono argomenti immediatamente scartati. Così essi passarono disinvoltamente all'art. 270 del codice penale: associazione sovversiva. Ma anche questa imputazione venne successivamente derubricata, con l'aiuto degli avvocati della difesa, in associazione a delinquere
Francesco Tigani Sava, nel suo documentato studio sul "processo degli 88", afferma che i giudici fecero una sentenza destinata ad essere facilmente annullata per mettersi al sicuro contro eventuali capovolgimenti di fronte, ma non si può escludere che essi sentissero, sia pure sotto la divisa dell'esercito regio, battere ancora un cuore che non riusciva a dimenticare del tutto l'amore per l'Italia e per i suoi figli.
Analogamente il magg. Oreste Pecorella capo di stato maggiore del SIM (Servizio informazioni militari), che aveva redatto il rapporto sull'argomento con oggetto: movimento fascista nell'Italia meridionale, sfumò molto le responsabilità degli aderenti alla cospirazione, negò che fra i vari gruppi clandestini scoperti esistessero collegamenti. Addirittura poi, venuto a conoscenza delle notizie sulle armi segrete tedesche (bomba atomica, la nube misteriosa sul nord Europa, l'offensiva di Von Rustedt), andò a trovare Nando Di Nardo, detenuto nella certosa di Padula, trasformata in campo di concentramento per duemila fascisti, e gli dichiarò di aver evitato di citare nel suo rapporto tanti particolari a sua conoscenza, che avrebbero indubbiamente aggravato la posizione degli imputati e che avrebbero consentito il collegamento del processo degli 88 fascisti di Calabria con quello del principe Valerio Pignatelli e altri fascisti napoletani e calabresi3.
In quell'occasione Pecorella, dopo aver usato parole di stima e di solidarietà, quasi di complicità, si raccomandò apertamente affinchè Di Nardo convincesse Pignatelli a non infierire su di lui nel caso che le parti dovessero invertirsi. Il 6 aprile del '45, dopo circa un anno di istruttoria, i giudici, finito il dibattimento, si riunirono in camera di consiglio4.
Le strade di Catanzaro brulicavano di folla; fascisti e simpatizzanti si agitavano minacciosamente sotto il naso di carabinieri e poliziotti radunati in tutta fretta.
L'aula magna del tribunale, affollatissima di pubblico, era vigilata dall'alto attraverso i finestroni, da carabinieri armati di mitra ostentatamente rivolti in basso verso il pubblico.
La Corte temporeggiava. Finalmente, appena poco prima dell'alba, le strade si sfollarono; dopo ben 19 ore di camera di consiglio, i giudici si decisero a leggere la sentenza: 10 anni di reclusione per Pietro Capocasale, 9 anni per Gaetano Morelli, 8 anni per Luigi Filosa e per Attilio e Giuseppe Scola (di Crotone) ancora 8 anni per Antonio Colosimo, Nino Gimigliano e Aldo Paparo (di Catanzaro) nonchè Ugo Notaro (di Nicastro), 6 anni per chi fu ritenuto partecipante più attivo, mentre 4 anni per i semplici partecipanti. Infine ai minorenni 24 mesi di reclusione. Altri imputati per cui non era stato possibile raggiungere la prova di colpevolezza, vennero assolti.
Era l'alba del 7 aprile.
Appena letta la sentenza, una sorta di ruggito di rabbia sgorgò dalla folla e gli imputati in piedi di fronte ai giudici allibiti esplosero nel canto di "Giovinezza"; era un raptus generale, i carabinieri sui finestroni, confusi, non sapevano cosa fare.
Più tardi, nel chiuso del furgone cellulare che li riportava in carcere, il mastodontico brigadiere Putortì e i carabinieri di scorta, con gli occhi rossi dalle lacrime trattenute, si unirono ai condannati nel canto di "Giovinezza".
NOTE
Il testo è stato emendato dalle numerose note (vedi numeri di riferimento da 1 a 3) presenti sull'originale cartaceo.
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INTERVISTA A DE PASCALE da MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO -Capitolo XVI-
Francesco Fatica
Sappiamo già che trascorse le vicende descritte nei precedenti capitoli, avvenne, come s'è visto, l'arresto di Pignatelli e di Guarino e subito dopo anche quello di Di Nardo, compromesso da una lettera inviata al barone Filippo Marincola di S. Floro.
Restò quindi unicamente a De Pascale la responsabilità della dirigenza del movimento clandestino fascista in Campania.
Oggi egli è rimasto l'unico vivente dei responsabili del vertice clandestino fascista dal '43 al '45. A lui quindi mi sono rivolto per attingere direttamente alla fonte - dopo oltre 50 anni di riserbo - le notizie ed i chiarimenti che meglio possono concludere questa ricerca storica.
— Caro De Pascale, per cominciare, ti prego di descrivermi i sentimenti che animavano, oltre te, anche i gregari della lotta clandestina.
— De Pascale: - Eravamo ispirati dagli stessi ideali che ci avevano animati sui campi di battaglia, con in più la rabbia disperata di vedere calpestato il suolo della Patria da orde straniere, che gozzovigliavano nelle nostre città, umiliandoci ogni giorno con la loro arroganza e poi soprattutto sentivamo il bisogno supremo di riscattare ad ogni costo l'Italia dalla vergogna dell'armistizio e del tradimento. Anche noi, come i camerati del Nord, ci preparavano a batterci per l'onore d'Italia.
— Ti prego ancora di ricordare qualche nome di camerati impegnati nella lotta clandestina.
— Oltre Di Nardo e il col. Guarino, che teneva i contatti con le bande armate calabresi, ricordo Nicola Galdo, che stampava un giornale clandestino con il ciclostile che avevamo recuperato dal G.U.F., il prof. Calogero, il libraio Bolognesi, il marchese capitano di vascello Marino de Lieto, super decorato, eroe della prima guerra mondiale, che conduceva una sua guerra personale segretissima e solitaria contro gli anglo-americani, sabotando ponti ed apprestamenti militari, finendo coinvolto talora addirittura in corpo a corpo come un giovane sabotatore di commando. Di lui e di qualche altro, che agiva come lui, dicevo che facevano una loro guerra privata.
Ma, naturalmente, debbo citare ancora l'attivissima ed entusiasta Elena Rega, che poi divenne mia moglie, Pasquale Purificato, Picenna, il tenente della Decima MAS Bartolo Gallitto, che attraversò le linee con altri marò. Mi spiace tralasciare tanti altri nomi di elementi di secondo piano, però tutti validi, pieni di entusiasmo, disciplinati e pronti ad ogni sacrificio.
Ma voglio ricordare ancora, con venerazione, il tenente di vascello Paolo Poletti, agente dei Servizi Speciali della RSI, infiltrato nell'OSS americano, che finì torturato atrocemente, fino ad impazzirne e fu poi assassinato cinicamente dal sergente americano di guardia. Non si lasciò sfuggire un nome, un accenno, un indizio.
Quando poi anch'io fui arrestato e detenuto a disposizione del C.S., capeggiato dal famigerato maggiore Pecorella dei CC.RR., fui ristretto in quei locali a Napoli, in via Fiorelli, da dove altri giovani dei Servizi Speciali furono prelevati per essere fucilati a Nisida.
Un giorno poi conclusero che gli interrogatori non avrebbero approdato a nulla e allora tentarono di eliminarmi con la messa in scena della tentata fuga;ma io ebbi nervi saldi e non cascai nel tranello.
— Inscenare un tentativo di fuga è l'espediente banalmente, ma cinicamente, usato per coprire un assassinio. Così fecero con Ettore Muti, così con Paolo Poletti. Possiamo dire che gli antifascisti non esitavano di fronte agli assassinii.
— E' proprio così. In Repubblica Sociale una serie di feroci, premeditati assassinii innescò la guerra civile.
Da Radio Bari prima e Radio Napoli poi, si incitavano i partigiani all'assassinio sistematico come metodo di lotta. Noi invece abbiamo sempre evitato attentati sanguinosi e soprattutto spargimento di sangue fraterno. Eravamo ben informati delle abitudini e delle abitazioni degli avversari, qui al Sud, ma abbiamo deliberatamente evitato di innescare rappresaglie che avrebbero lasciato un solco profondo di odio tra gli italiani.
Se pure fossimo stati tentati di agire in questo senso, avevamo avuto continue, categorie disposizioni da Mussolini, sia per via radio, ma anche, più esplicitamente, attraverso il rapporto della principessa Pignatelli.
Avremmo potuto facilmente ripetere a Napoli un attentato simile a quello di via Rasella per ottenere una strage di rappresaglia simile, se non peggiore di quella delle Fosse Ardeatine; ma a noi è sempre ripugnata la strategia stragista.
Avevamo invece previsto tassativamente che, in caso di attentati, uno di noi avrebbe dovuto costituirsi per addossarsene la responsabilità, onde evitare rappresaglie con vittime civili.
La tecnica del "sangue chiama sangue", come tutti sanno, fu invece largamente attuata dai comunisti e dai loro accoliti, utili e feroci idioti.
Noi no. Al Sud non c'è stata guerra civile.
— Bene; tu sai che anch'io, pur giovane ed impaziente gregario, oltre tutto lontano dal centro organizzativo e direttivo di Napoli, avevo lo stesso orientamento tattico, per costituzione morale derivata dall'educazione fascista avuta nella GIL e nel clima in cui ero vissuto, ma dobbiamo spiegare adesso: questa organizzazione clandestina che c'era a fare se non poteva, nè doveva lottare liberamente, senza esclusione di colpi?
— Come già ti ho detto altre volte, Mussolini voleva assolutamente che, almeno al Sud, fossero evitate le feroci nefandezze della guerra civile.
Noi clandestini avremmo dovuto entrare in azione alla grande solo nel caso, non improbabile, di un capovolgimento della situazione militare, cosa che sembrò più volte imminente, sia per le tanto propagandate armi segrete tedesche (vedasi bomba atomica) sia per le controffensive, in particolare quella di Von Rustedt nelle Fiandre che sembrò aver sgominato gli eserciti alleati.
Lo stesso maggiore Pecorella, a contatto con il Servizio Informazioni Militari, quando subodorò possibile una certa concretezza nelle nostre speranze, si recò alla Certosa di Padula a perorare presso Di Nardo, colà detenuto, la sua causa personale, scoprendo sue benemerenze di doppiogiochista, chè non aveva rivelato tutto quello che aveva scoperto, cercando di non aggravare la nostra posizione processuale.
Concludendo, Mussolini volle evitare ogni sia pur minimo spargimento di sangue fraterno. Per esempio, i comunisti di vertice a Napoli, a cominciare da Togliatti, alias Ercole Ercoli, avrebbero potuto agevolmente essere eliminati. Non fu così.
Se oggi nel Meridione non si è scavato un profondo solco di sangue fra italiani, il merito è soltanto di noi fascisti e soprattutto di Mussolini.
MEZZOGIORNO E FASCISMO CLANDESTINO F. Fatica.1998. Istituto di Studi Storici Economici e Sociali, Via Salvator Rosa, 299 - 80135 Napoli. Tel. 081-5495081 - 680755