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  1. #21
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    Se uno muore di fame ha il diritto di appropriarsi degli averi di chi ha di più: non è né furto né rapina.

    "Si tamen adeo sit urgens et evidens necessitas ut manifestum sit instanti necessitati de rebus occurrentibus esse subveniendum, puta cum imminet personae periculum et aliter subveniri non potest; tunc licite potest aliquis ex rebus alienis suae necessitati subvenire, sive manifeste sive occulte sublatis. Nec hoc proprie habet rationem furti vel rapinae"

    (Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 66 art. 7)



    " Colui che si trova in estrema necessità, ha diritto di procurarsi il necessario dalle ricchezze altrui "
    (Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, cit., n. 69a.)

  2. #22
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    A questo indirizzo il documento corrispondente della Chiesa Ortodossa (Russa):
    http://spazioinwind.libero.it/sanmas...%20INDICE.html

    uno stralcio:

    " La Chiesa e i beni materiali
    VII.1. Con il termine «proprietà» si intende la forma socialmente riconosciuta del rapporto degli uomini con i frutti del lavoro e con le risorse naturali. Fra i diritti riconosciuti a chi è proprietario vi sono il diritto di possesso e di uso, il diritto di amministrare e di ricevere un profitto, il diritto di alienare, sfruttare o eliminare oggetti di proprietà.

    La Chiesa non definisce i diritti delle persone alla proprietà. Tuttavia il lato materiale della vita dell'uomo non rimane al di fuori della sua visuale. Esortando a cercare prima di tutto il «regno di Dio e la sua giustizia» (Mt 6,33), la Chiesa ricorda anche la necessità del «pane quotidiano» (Mt 6,11), ritenendo che ogni persona debba avere mezzi sufficienti per un'esistenza dignitosa. Nel contempo la Chiesa mette in guardia contro l'attaccamento eccessivo ai beni materiali, condannando coloro che si lasciano sopraffare «dalle preoccupazioni, dalla ricchezza e dai piaceri della vita» (Lc 8,14). Nella posizione della Chiesa ortodossa riguardo alla proprietà non c'è né un atteggiamento di scarsa considerazione dei bisogni materiali, né l'estremo opposto che enfatizza l'inclinazione degli uomini al conseguimento dei beni materiali come scopo e valore supremo dell'esistenza. La condizione patrimoniale dell'uomo di per sé non può essere considerata una prova di quanto egli sia gradito o meno a Dio.

    Il rapporto del cristiano ortodosso con la proprietà deve fondarsi sul principio evangelico dell'amore verso il prossimo, espresso con le parole del Salvatore: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri» (Gv 13,34). Questo comandamento è la base della condotta morale dei cristiani. Per loro e, dal punto di vista della Chiesa, anche per gli altri uomini, questo comandamento deve essere un imperativo nelle relazioni interpersonali, comprese quelle di natura patrimoniale.

    Secondo l'insegnamento della Chiesa, gli uomini ricevono tutti i beni terreni da Dio, al quale appartiene il diritto assoluto di possederli. La relatività del diritto di proprietà per l'uomo è indicata più volte dal Salvatore nelle parabole: si tratta o di una vigna, data in uso (Mc 12,1-9), o di talenti distribuiti tra gli uomini (Mt 25,14-30), o di un podere affidato in amministrazione temporanea (Lc 16,1-13). Esprimendo il pensiero proprio della Chiesa sulla sovranità assoluta di Dio, san Basilio Magno chiede: «Dimmi: quali cose ti appartengono? Da dove le hai tratte per immetterle nella vita?». Il rapporto peccaminoso con la proprietà, che si manifesta nella trascuratezza o nel rifiuto consapevole di questo principio spirituale, provoca divisione e alienazione tra gli uomini.



    La ricchiezza
    VII.2. I beni materiali non possono rendere l'uomo felice. Il Signore Gesù Cristo ammonisce: «Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché la vita dell'uomo non dipende dai suoi beni» (Lc 12,15). La corsa alla ricchezza si riflette in maniera perniciosa sullo stato spirituale dell'uomo ed è capace di portare a una totale degradazione della persona. L'apostolo Paolo testimonia che «coloro che vogliono arricchire, cadono nella tentazione, nel laccio e in molte bramosie insensate e funeste, che fanno affogare gli uomini in rovina e perdizione. L'attaccamento al denaro infatti è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono da se stessi tormentati con molti dolori. Ma tu, uomo di Dio, fuggi queste cose» (1Tm 6,9-11). Nel dialogo con il giovane ricco il Signore disse: «Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi» (Mt 19,21). Quindi Cristo spiegò queste parole ai discepoli: «Difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli... è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli» (Mt 19,23-24). L'evangelista Marco precisa che nel regno di Dio è difficile entrare proprio per colui che ripone la sua fiducia non in Dio, ma nei beni materiali: «quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio» (Mc 10,23). Solo «chi confida nel Signore è come il monte Sion: non vacilla, è stabile per sempre» (Sal 125,1).

    Eppure, anche un ricco si può salvare, perché «ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio» (Lc 18,27). Nella Sacra Scrittura non è contenuta la condanna della ricchezza come tale. Uomini agiati furono Abramo e i patriarchi veterotestamentari, il pio Giobbe, Nicodemo e Giuseppe d'Arimatea. Chi possiede un considerevole patrimonio non commette peccato se lo usa in conformità con la volontà di Dio, al quale appartiene tutto ciò che esiste, e secondo la legge dell'amore, poiché la gioia e la pienezza di vita non stanno nell'acquistare e nel possedere, ma nel donare e nel rinunciare. L'apostolo Paolo esorta a ricordarsi «delle parole del Signore Gesù, che disse: Vi è più gioia nel dare che nel ricevere!» (At 20,35). San Basilio Magno considera ladro colui che non dona una parte dei suoi beni in elemosina per aiutare il prossimo. Questa stessa idea sottolinea san Giovanni Crisostomo: «Non dare ai poveri una parte delle proprie ricchezze equivale a un furto». La Chiesa esorta il cristiano a considerare i beni come un dono di Dio, dato per essere usato per il bene proprio e del prossimo.

    Nello stesso tempo la Sacra Scrittura riconosce il diritto dell'uomo alla proprietà e condanna l'attentato ad appropriarsene illecitamente. In due dei dieci comandamenti del decalogo si parla in maniera diretta di questo: «Non rubare... Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo» (Es 20,15.17). Nel Nuovo Testamento tale atteggiamento verso la proprietà è stato mantenuto e ha assunto una giustificazione morale più profonda. Nel vangelo a questo proposito si dice che: «Il precetto... non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Rm 13,9).



    Le diverse forme di proprietà
    VII.3. La Chiesa riconosce l'esistenza di molteplici forme di proprietà. Le forme di proprietà pubblica, societaria, privata e mista si sono variamente radicate in diversi paesi nel corso della storia. La Chiesa non dà preferenza ad alcuna di queste forme. Con ciascuna di esse sono possibili sia atti peccaminosi – furto, bramosia di denaro, ingiusta ripartizione dei frutti del lavoro – sia un uso giusto e moralmente giustificato dei beni materiali.

    Un'importanza sempre maggiore acquista la proprietà intellettuale, che ha per oggetto le attività scientifiche e le invenzioni, le tecnologie informatiche, le opere d'arte e altre acquisizioni del pensiero creativo. La Chiesa approva il lavoro creativo volto al bene della società e condanna la violazione dei diritti d'autore contro la proprietà intellettuale.

    In generale l'esproprio e la spartizione della proprietà con la violazione dei diritti dei suoi legittimi proprietari non possono essere approvati dalla Chiesa. Un'eccezione può essere l'esproprio della proprietà a norma di legge, determinato dagli interessi della maggior parte delle persone e accompagnato da un equo indennizzo. L'esperienza della storia nazionale dimostra che la violazione di questi principi provoca inevitabilmente sconvolgimenti sociali e sofferenze fra la popolazione.

    Nella storia del cristianesimo la comunione dei beni e la rinuncia alla proprietà privata furono caratteristiche di molte comunità. Tale carattere dei rapporti patrimoniali facilitò il consolidamento dell'unità spirituale dei credenti e in molti casi fu economicamente efficace, come nel caso dei monasteri ortodossi. Tuttavia la rinuncia alla proprietà privata nella comunità dei primi apostoli (At 4,32) e più tardi nei monasteri cenobitici ebbe un carattere esclusivamente volontario e fu connessa con una scelta spirituale personale. [...]
    "

    Shalom

  3. #23
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    In origine postato da cciappas
    ====ù
    io invece vorrei sapere che lavoro fai
    Fatti miei

  4. #24
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    In origine postato da benfy
    quindi tu sei a favore delle discrimazioni politiche sul luogo di lavoro, sei proprio un fascista altro che conservatore
    Benfy non dire minchiate! Io discriminerei al massimo chi lavora con chi non ne ha voglia.
    La politica proprio non c'entra... è la voja de laurà!

  5. #25
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    In origine postato da UgoDePayens
    Benfy non dire minchiate! Io discriminerei al massimo chi lavora con chi non ne ha voglia.
    La politica proprio non c'entra... è la voja de laurà!
    ===
    mai abbastanza.........specie negli altri..
    su questo forum è meglio non rispondere ai fessi!
    voi nazifascisti di oggi e i vostri servi siete solo gli ayatollah E I TALEBANI dell'occidente..

  6. #26
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    San Basilio Magno considera ladro colui che non dona una parte dei suoi beni in elemosina per aiutare il prossimo.
    =======
    i talenti furono dati ad ogni figlio... non per elemosina.. ma per giustizia ed equità.
    è questo il punto sul quale molti diventano...... balbuzienti
    su questo forum è meglio non rispondere ai fessi!
    voi nazifascisti di oggi e i vostri servi siete solo gli ayatollah E I TALEBANI dell'occidente..

  7. #27
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    Che fai? Balbetti?

    Shalom

  8. #28
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    Tratto www.pri.it


    Il nuovo libro di Woityla

    Preferiremmo evitare di essere sottoposti agli orrori della storia

    Ci dispiace dover far notare ad un uomo della profondità di pensiero e dell'elevatezza morale di Carol Wojtyla, che Goethe non dice affatto che il diavolo è "quella forza che vuole il male ed opera il bene", ma invece che con queste parole il Mephistophele del grande poeta tedesco si presenta a Faust. Sarà poi compito di Faust , o di chi per lui, giudicare l'esatto operato del male.

    Ci perdoni Wojtyla, se vorremmo almeno salvare Goethe, che ebbe la fortuna di vedere epoche più felici di quella in cui è vissuto papa Woytila, fra fascismo e comunismo, e con il grande merito personale di essersi opposto ad entrambi. Capiamo poi, ovviamente, il desiderio mistico del capo della Chiesa Cattolica di trovare una ragion d'essere positiva anche a fasi storiche aberranti come quelle a cui si riferisce nel suo nuovo libro. Altrettanto ovviamente non possiamo seguirlo, perché non sapremmo dire quanto metafisica e religione offrano una spiegazione certa della realtà, piuttosto che delle ipotesi a fronte delle quali ogni libera coscienza è chiamata ad interpellarsi. Quindi l'inclinazione repubblicana è piuttosto di combattere i mali, se fenomeni storici e politici vengono ritenuti tali, più che di accertarne la necessità. E anche davanti ad un male "necessario", noi sosteniamo innanzitutto la necessità di avversarlo.

    Ci pare di capire, anche, che l'interpretazione di questi fenomeni sia per il Papa legata ad un'idea della provvidenza divina - "Dio al nazismo ha concesso 12 anni di esistenza" - cosa che non ha alcuna rilevanza ai fini dell'interpretazione storica, per la quale, se il comunismo è durato più a lungo del fascismo, non deriva da necessità, ma da ragioni contingenti, ad esempio la maggior sagacia e prudenza dei suoi leader, rispetto al "furore bestiale" del capo del nazismo.

    Ma questo non significa affatto che il comunismo fosse meno animato da furore bestiale. Basta pensare che nel solo Kazachistan, fra il 1917 ed il 1918, di una popolazione di 11 milioni di cosacchi che si oppongono al nuovo regime, le armate di Lenin riescono a sterminare almeno il 70 per cento. Siamo solo all'inizio di una carneficina che sconvolse la Russia per un periodo di tempo molto superiore a quello in cui si realizzò il potere di Hitler, il quale godeva del sostegno del popolo tedesco, tanto che concentrò il suo odio sulle minoranze in Germania ed in Europa, quando il comunismo attaccò direttamente le maggioranze della popolazione delle repubbliche sovietiche e con la stessa ferocia usata dai nazisti contro zingari ed ebrei.

    Questi sono aspetti molto complessi, che a nostro avviso non consentono alcuna interpretazione giustificatoria, tantomeno quella abbozzata da Pietro Scoppola nel suo articolo per la "Repubblica", stando alla quale il comunismo sarebbe nato per rispondere ad "una domanda". Risposta criminale, ma domanda giusta. Perché allora anche il nazismo ed il fascismo rispondevano ad una domanda, di ordine, sicurezza e indipendenza nazionale, che ancora ogni Paese trova di fronte a sé. Sono proprio le risposte che pesano nella storia, non le domande. E ancora di più ci dispiace dover constatare che la premessa storiografica da cui muove Woityla è sbagliata. Egli infatti scrive nel suo libro che "prima ci fu il nazismo". Non è così. Prima ci fu la rivoluzione di ottobre che bloccò la trasformazione parlamentare e liberale avviata nel Paese con la rivoluzione di febbraio, che invece spazzò via l'assolutismo zarista. Poi ci fu il fascismo e ancora dopo il nazismo, che pure del leninismo mantennero il metodo e l'ispirazione. Tant'è che grandi pensatori democratici, Raymond Aron per tutti, non hanno mai voluto distinguere i due volti del totalitarismo, e a nostro avviso fecero bene.

    Per cui, quale che sia il desiderio, legittimo, del capo della Chiesa cattolica, di spiegare e di trovare una qualche ragione all'orrore, egli, proprio in quanto si oppose a questo, ha il diritto di proporre una comprensione intellettuale allo stesso. Ma non è questo diritto che contestiamo.

    Vorremmo piuttosto sostenere che non c'è un orrore migliore di un altro. E soprattutto non è la durata dell'orrore che può in qualche modo nobilitarlo. Anche perché a confronto dell'Eternità, ci paiono poca cosa una differenza fra dodici o ventiquattro anni. E comunque in ventiquattro anni, rispetto ai dodici, si commettono e si sono commessi, persino più scempi.

    Roma, 7 ottobre 2004

  9. #29
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