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    brescianofobo
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    Predefinito Il Presidente Prodi bacchetta il regime pollista.

    L'Unità, 4 ottobre 2004

    Intervista al Presidente Prodi

    «L'ltalia è in uno stato gravissimo Noi, uniti per governare»

    Presidente Romano Prodì, parliamo per prima cosa del momento italiano. L'Italia si interroga sul momento del suo ritorno e sul ruolo che avrà nella vita politica italiana. Lei era apparso indiscutibile e certo come leader di tutta l'opposizione quando sono sembrati emergere ostacoli e obiezioni che i cittadini non hanno percepito. Non hanno visto né capito quale fosse il problema. Ora ci giungono segnali rassicuranti: si parla di equivoci dissipati. Ma che cosa è accaduto? C'è stata una schiarita o coloro che erano e pronti a votare Prodi devono stare col cuore in gola?

    «Mi sembra doveroso far capire ai cittadini cosa sta succedendo. Il problema è semplice: noi siamo un'alleanza complessa, come è sempre stato il centrosinistra in Italia che fortunatamente non ha un padrone. Un'alleanza che deve presentarsi agli elettori con regole forti per stare insieme e con un programma comune. Io ho richiamato, prima che fosse troppo tardi, questi due problemi: prima di cominciare la campagna elettorale dobbiamo costruire la grande alleanza democratica, cioè la coalizione dell'intero centrosinistra, e poi fare delle regole per la Federazione dell'Ulivo che di questa alleanza vuole essere il motore e il timone. Bisogna affrontare la campagna con un'alleanza dotata di conformazione precisa. Con questi gesti è chiaro che si mettono sul tavolo inizialmente le divisioni e le diversità. Lo ritenevo necessario e onesto verso gli italiani. Abbiamo una situazione gravissima del Paese: economica, politica, sociale. Bisognerà fare un lavoro ininterrotto di 5 anni di buon governo. E per questo servono prima le garanzie di cosa intendiamo tutti insieme per buon governo e le garanzie che questo duri 5 anni. Questa è stata la logica che ha guidato la mia azione, forse non ha guidato qualche mia intemperanza, ma le intemperanze giovanili si devono sempre perdonare...».

    Questa logica ha portato a risultati positivi? È soddisfatto della direzione che il suo progetto sta prendendo?

    È nato un dibattito che può aver disorientato qualcuno ma che è estremamente fruttuoso. È inutile affrontare i problemi quando è troppo tardi: bisogna farlo sin dall'inizio dato che ci vuole tempo per risolverli. I passi in avanti negli ultimi tempi sono molto forti, l'ho constatato ad Assisi al convegno dei Cristiano Sociali e vedendo le decisioni della Margherita ieri (l'altroieri, ndr). Noto che questo discorso viene non solo capito, ma anche elaborato e tradotto in prospettive di azione comune. Alla riunione dell' 11 ottobre con gli alleati potremo procedere con un'agenda che preveda unità di azione sulla Finanziaria, l'inizio di un dialogo serrato sulle candidature alle elezioni comunali e regionali, e l'avvio del lavoro sulle politiche. Obiettivi che non sarebbero stati possibili senza questo robusto dialogo con le posizioni in campo. Nel discorso di Antonio Di Pietro al congresso di IdV vedo la possibilità che si arrivi a decisioni comuni. Cominciano ad intrecciarsi argomentazioni e scopi che ci porteranno in pochi mesi a un programma ben definito e alla delimitazione della nostra coalizione. Ho sempre detto "adagio adagio": è un motto forse semplice, ma se si ha a che fare con un processo democratico bisogna accettarne regole e lentezze. Noi fortunatamente siamo figli di un grande pluralismo. Il nostro percorso è del tutto diverso dal centrodestra.

    Dobbiamo essere coerenti con nostre radici e con il profondo humus che ci porta a essere dialettici. Potremo anche ricevere derisioni o ironie ma abbiamo in noi gli elementi correttivi, una creatività che non rende possibili strazi di governo come quelli visti negli ultimi mesi».

    Lei ha parlato di una situazione gravissima del Paese. Vogliamo aprire una finestra per guardarla più attentamente?

    «Dividiamo l'analisi in più campi: economico, sociale, politica interna ed estera.

    Il dato economico più forte è la perdita di competività nei mercati mondiali che si è accentuata solfrattutto nei confronti dei nuovi mercati. Germania e Francia hanno bilanci sani verso Cina e India: noi no, e qualcosa non va. Anche gli indici del commercio estero e della produzione industriale vanno male. Come Pil siamo ultimi a pari merito in Europa. I conti pubblici sono altrettanto disastrosi. Nel gruppo dei 15 vecchi Paesi membri dell'Ue qualsiasi parametro prendiamo siamo sempre tra gli ultimi due o tre. Il risultato è che l'Italia non ha più nerbo e questo si riflette in un giudizio non più quantitativo bensì qualitativo: l'Italia è sempre meno considerata. Prima, a fatica, eravamo con Germania e Francia, ora siamo con Spagna e Polonia. Adagio adagio scendiamo in una categoria diversa: dai Paesi che hanno 57 milioni di abitanti a quelli che ne hanno 40. È impressionante».

    E dal punto di vista sociale?

    «Voglio sottolineare subito l'aumento statistico delle differenze di reddito e la caduta dei redditi medio-bassi. Sulla politica interna le leggi più importanti varate- dalla giustizia ai media - sono passi in dietro molto seri. In questo momento c'è il terrore che l'Italia inquini la politica europea. Il discorso che viene fatto da fatto da interlocutori ad alto livello è: "Romano stiamo attenti, che uno che abbia molti soldi e mezzi di comunicazione e possa dunque inquinare il processo democratico lo troviamo anche fuori dall'Italia". C'è preoccupazione per questo degrado legislativo».

    Non serve riaprire vecchie ferite e tutti conosciamo la storia del `96: lei divenne presidente del Consiglio, poi questa esperienza si è interrotta. Ma quali sono gli errori che vanno evitati da qui in poi? Quale lezione è possibile trarre?

    «Io voglio evitare di andare alle elezioni con l'armata sparsa. E siccome per fondere le nostre forze, i nostri obiettivi e programmi ci vuole tempo, ho cominciato subito. Ho messo i piedi nel piatto con chiarezza e sono contento perché si è aperto un dibattito. Basta con il passato: non creeremo entusiasmo parlando del `98 ma solo guardando al futuro. L'unica lezione è: discutere tutto prima per andare poi uniti alla battaglia elettorale. So che i messaggi unitari non danno frutti il giorno dopo, ma già l'Ulivo nacque per unire tutti riformisti nonostante radici diverse. Il nostro Paese è stato devastato per secoli dalla lotta tra guelfi e ghibellini. Nella storia ci siamo sempre presentati divisi. E un esame di coscienza che dovrebbe fare cento volte di più il centrodestra, ma non sembra averne alcuna intenzione».

    E la sua richiesta di primarie serve in questo quadro per evitare di trovarsi poi in situazioni difficili?

    «L'idea è nata da qui: fondiamoci insieme, cominciamo ìl dibattito, poi le primarie serviranno a portarlo in superficie e renderlo linguaggio di tutti. L'altra volta vincemmo con 80mila volontari, oggi ne servono il doppio. Le primarie sono un modo per far esprimere non solo i partiti ma tutti coloro che si identificano con la nostra coalizione. Già il dibattito è servito moltissimo a scaldare gli animi».

    Come immagina l'organizzazione delle primarie?

    «Non ci sono molte scelte possibili. La primaria vera è una sola: chi si identifica con la coalizione si iscrive in un registro pubblico e vota per il leader. Tecnicamente non vedo problemi sulle primarie: devono essere gestite dai partiti, per di più con le schede elettorali che tutti i cittadini italiani ormai possiedono è facile organizzare i seggi. È un modello organizzativo abbastanza semplice. Ma prima deve esserci una battaglia di opinioni che scaldi la gente».

    Manca un anno e mezzo alle elezioni politiche. Qual è il momento migliore per le primarie? Subito dopo le regionali?

    «Bisognerà farle abbastanza presto per dare un lungo respiro. Se ci fosse stata unità di intenti, se non fossi stato frainteso, non avrei avuto difficoltà ad andare a ottobre-novembre dell'anno prossimo. Otto-nove mesi come negli Usa: il tempo di farle e dimenticarle. Poi, purtroppo, c'è stato un dibattito volutamente strumentalizzato. Quando ho detto che serviva anticipo perchè le primarie richiedono sangue, si è detto che Prodi vuole il sangue. Ma è chiaro, le primarie sono necessariamente un confronto, e quindi dopo serve tempo per ricomporre le divisioni e fare campagna elettorale insieme».

    Ad apparire particolare è che le primarie sono scontro e sangue, come dice lei. Ma al momento non è dato vedere candidature alternative.

    «Almeno si smetterà di far rumore. Io pronto a qualsiasi cosa, ma un candidato o c'è o non c'è. Se manca, finiamola di borbottare. Ma questo non significa che io rinunci alle primarie che sono un preziosissimo strumento di partecipazione e di mobilitazione»

    Non ritiene che l'entusiasmo si susciti con l'idea di un'altra Italia, di un'Italia diversa che Ulivo vuole costruire, piuttosto che discutendo di regole che alla gente interessano poco?

    «Infatti io voglio chiudere subito questa fase. Perchè la gente sa che le regole ci vogliono, ma non si appassionerà mai. Per questo ho voluto mettere immediatamente sul tavolo i problemi di procedura: che si dica subito sì o no».

    Intanto diamo alla gente un messaggio. Vedremo il programma nel suo viaggio per l'Italia in cui ascolterà i cittadini. Ma può indicare i punti qualificanti della sua eventuale azione di governo?

    «Io su questo capitolo chiedo aiuto a tutti. Siamo insieme su questo punto vitale per riprendere la corsa e la gioia di vivere. .I1 programma si fa insieme. Non ho ancora la ricetta pronta, ma ho già una serie dì contributi da molte parti. Ricerca, formazione, università. investire sul futuro e sui giovani... Pensiamo poi a quello che succede in Cina: non penseremo che 3 miliardi di persone si sveglino senza far rumore? Dipenderà dal nostro atteggiamento se i mericati emergenti diventeranno un elemento di turbamento politico o di pluralismo. Quando parlo di mettere insieme le idee non sto giocando. Abbiamo degli orientamenti che vanno ancora elaborati».

    Ha mai sentito messa in discussione la sua leadership?

    «Non c'era un'alternativa chiara ma tanti rumori di fondo che impedivano di ascoltare una voce comune. Allora vengano a galla una volta per tutte. C'è bisogno di chiarezza di fronte al Paese».

    Dal primo novembre si sentirà presidente della Federazione dell'Ulivo, leader della grande alleanza democratica o tutti e due?

    Onestamente, non vedo contraddizioni tra i due ruoli. È difficile avere una grande alleanza democratica senza una Federazione dell'Ulivo con regole strutturate, forti. Le coalizioni reggono benissimo se hanno punti di riferimento certi».

    Che cosa intende esattamente quando parla di Federazione? Nella storia degli Stati sono tendenzialmente soggetti sovrani. Mentre l'Ue è in realtà una Confederazione con problemi, con dei poteri ma con stati sovrani autonomi. Ora, nella Federazione prodiana permangono le identità, c'è un nesso confederale con una delega di poteri? Si accetta la relativa autonomia dei partiti, con cessione di sovranità e con una forte investitura al candidato?

    «II paragone con l'Ue non è stato fatto per caso, ne abbiamo discusso a lungo. È quello più aderente, pur con tutti i limiti che conosciamo. Un'unione di popoli e nazioni dove si mette insieme una parte di sovranità necessaria per vivere nella globalizzazione. Un rapporto analogo lo dobbiamo realizzare in Italia tra la federazione dell'Ulivo e i partiti che la compongono».

    Se ci fosse uno sfidante alle primarie e fosse Bertinotti, farebbe parte di un ticket Prodi-Bertinotti?

    «Non so se Bertinotti parteciperà. Ma non c'è nessuna ipotesi di ticket. Le primarie si fanno per un posto solo. Anche negli Usa: il caso di Kerry con Edwards è un caso rarissimo. Ma il dialogo con Bertinotti è molto importante per noi: è cominciato in modo informale e destrutturato ma è molto chiaro e forte. Abbiamo capito che questo processo politico che stiamo avviando è una rivoluzione? Che stiamo facendo un gioco e una musica tutti diversi? ».

    Presidente Prodi, l'astensione sull'articolo i del disegno di riforma istituzionale è stata la prima manifestazione unitaria in Parlamento delle forze che daranno vita alla Federazione dell'Ulivo. Lei l'ha criticata. Non si sarebbe dovuto, invece, valorizzarla? E in ogni caso sulle grandi questioni non esiste uno spirito unitario da salvaguardare anche nella competizione bipolare, tanto più dopo i richiami di Ciampi? Per non dire del nuovo abito dialogante indossato da Berlusconi...

    «Dialogante su che cosa? L'unità sulla vicenda delle due ragazze è ovvia e giusta. Esistono sempre dei temi sui quali un Paese deve trovarsi insieme. Sulla Costituzione però trovo una rottura totale e completa. La maggioranza vu avanti come un bulldozer: è lì il problema e non c'è dialogo di nessun tipo. In quesi giorni si riforma una Costituzione a colpi di machete Segnalo un fatto paradossale. In Italia prima si esulta: il bipolarismo e'finalmente è arrivato... Passa qualche mese e si scopre che è diventato bello il "bipartisan"

    Ripeto: ci sono temi sui quali ci si può e ci si deve trovare d'accordo, ma sulla maggioranza dei temi si hanno naturalmente posizioni diverse e contrapposte. Ci possiamo trovare d'acccordo, com'è avvenuto, sulla vicenda delle due volontarie. E magari anche sulla patente a punti... Ma resta il fatto che abbiamo una visione diversa del Paese, seriamente diversa».

    Quale ritiene essere la diversità più profonda tra la visione del Paese della coalizione di centrosinistra rispetto a quella di centrodestra?

    «I valori sono davvero diversi, e questa non è un'accentuazione retorica. Si può condividere qualche punto come avviene in Germania, o in altri Paesi. In Germania capitano occasioni in cui Democristiani e Socialisti convergono assieme, ma nella maggioranza dei casi non accade. Eppure quella tedesca è una democrazia compiuta. Una volta quando ero al Governo, dissi a Helmuth Kohl che stavo per andare a congresso di un partito di opposizione e Kohl m chiese spiegazioni: "Io faccio politica da quando ho 18 anni e non sono mai entrato in una sala del partito socialista. Abbiamo adottato molte volte decisioni in comune ma abbiamo una visione diversa del Paese". Vi immaginate Bush che va alla Convenzione democratica? Eppure quella staunitense è certamente una democrazia: è una democrazia di alternanza. Attenzione, che la democrazia funziona quando ci sono le alternative. Quanto al caso delle ragazze prese in ostaggio, guardate il titolo di Libero: "Ci hanno stufato". Ma era questa l'unità che intendono? Era un espediente così strumentale da dirci "Ci hanno stufato!" solo quattro giorni dopo? Nel momento in cui queste cominciano a dire: "Noi eravamo là per fare del bene ai bambini" loro scrivono: "Ci hanno stufato!". E una riforma costituzionale richiederebbe una coesione più forte. In pratica, invece, a essere riformato a colpi di machete non è un solo articolo della Costituzione, ma quarantatrè».

    Lei vede per l'Italia un'insidia centrista legata alla crisi del berlusconismo e quindi a un'ipotesi di post-Berlusconi? E' un'ipotesi che tocca anche il cuore dei rapporti nella federazione...

    «Ma io dovrei chiedere: quand'è che scatta il post-Berlusconi? Nell'attuale quadro di riferimento non vedo nessuna possibilità di un'ipotesi centrista, per il futuro si vedrà. Ma io voglio irrobustire la grande coalizione proprio perché non si tornì indietro grazie alla messa in campo di un disegno che unisce tutti i riformisti. Se ritorniamo al centro che si muove una volta a destra e l'altra a sinistra, se ritorniamo al pasticcio, se torniamo ai Governi che durano un mese, torneremo a un'Italia senza disegno né prospettiva».

    Il referendum sulla fecondazione assistita. Ci sono delle forze, anche di matrice cattolica, che ritengono che un referendum che abolisca una parte o tutta questa legge sia l'unico strumento adatto per arrivare ad una norma decente. Alcuni di noi siamo stati colpiti dalla sua presa di posizione contraria al referendum. Anzi, per dirla tutta,c'è stata anche un'interpretazione anche maliziosa, come se si trattasse di una sorta di contrappeso nei confronti di un'area della Margherita, a cui invece Prodi stava dando, nel frattempo, invece, una risposta negativa per altri temi. Ci spiega meglio il senso della sua posizione?

    «Prima sgombriamo il campo da qualsiasi equivoco. Potete capire anche voi: ognuno ha la sua storia personale, la mia non l'ho mai nascosta, e so benissimo quanto in seno al governo di centrosinistra questi problemi siano stati dibattuti a fondo. Ricordo che in quell'occasione si trasse una conclusione largamente condivisa: "Prima di prendere una posizione, facciamo lavorare le coscienze, perché tutte le leggi che riguardano l'etica, se vengono fatte entro i confini stretti di partito, risultano leggi sbagliate".

    È proprio per questo motivo che ho parlato di "elemento dilaniante" a proposito del referendum. Se volete mi correggo: "Il referendum può diventare un fatto dilaniante". Ma rimango ancora convinto che ci sono molti elementi perché esso diventi un'occasione di grande rottura della società italiana. Perciò ho chiesto di verificare la possibilità che persone serie e di buona volontà lavorino per introdurre cambiamenti sostanziali di questa legge, per migliorarla negli aspetti che sono ritenuti non soddisfacenti. Questa è la mia posizione, molto semplice. Capisco che questo lavoro è molto complesso, molto difficile, però mi sembrerebbe importante ed utile per tutti se si riuscisse a fare un passo in avanti».

    Secondo lei in Parlamento esistono davvero le condizioni per trovare un accordo sulla procreazione assistita? La legge 40 è stata discussa a lungo, per mesi e mesi, e questa intesa non è stata raggiunta.

    «Un accordo su questa materia è sicuramente difficile. È vero anche, però, che la discussione è stata lunga, ma è stata anche, in molti casi, fronte a fronte. E io credo che sia importante, invece, provare, con persone di indiscussa serietà e che rappresentano posizioni diverse, a vedere se ci sia un modo di fare una legge che ricomponga una posizione accettabile, perché si giunga a un compromesso serio».

    Voglio tornare sulla questione della federazione. Semplificando, ci sono, grosso modo, due approcci: quello che mette in primo piano la diversità delle identità da tutelare e quella di chi, invece, vede la federazione come una tappa, nei percorso più o meno ravvicinato della formazione di un nuovo soggetto politico, il cosiddetto "Partito dei Riformisti". A quale approccio si sente più vicino?

    «Ritengo che il Partito unico non sia ancora maturo, non sia ancora alla nostra portata, non sia un obiettivo concreto per l'oggi. La federazione, quindi, mi sembra un serio e realistico modo di procedere».

    Ci vuoi parlare di un passaggio importante della sua esperienza di presidente della Commissione europea? Che cosa è accaduto quando s'è verificata quella spaccatura dell'Europa, anche e soprattutto provocata dal Governo italiano, quando non si è voluto accettare di dare una legalità internazionale all'intervento in Iraq?

    «La spaccatura è stata profondissima anche nel linguaggio, negli incontri, s'è verificata una grande tensione anche psicologica. Onestamente non direi che la spaccatura sia stata generata dagli italiani: è stata opera di Blair, e poi la Spagna e l'Italia si sono accodate anch'esse alla politica americana. Ma s'è trattato di una scelta forte britannica, coerente del resto con una tradizione almeno decennale. Io stesso l'ho sofferta moltissimo nei rapporti personali con Blair, che sono stati durissimi».

    Una domanda velocissima: per la prossima sfida con la destra l'Ulivo ha già scelto la sua leadership, ma domani - e sottolineo: domani - la federazione dell'Ulivo potrebbe esprimere un candidato alla guida del Paese che provenga dalla storia del PCI?

    «La domanda quasi mi offende: è ovvio. In questo nostro disegno c'è anche il proposito di dare concretezza a un lungo cammino della storia italiana».

    Presidente, in una precedente dichiarazione ha detto che si propone di rimanere alla guida del governo solo per cinque anni. Come mai?

    «Perché io credo che ci sono dei grandi passaggi storici che hanno bisogno di un messaggio preciso, e dunque un leader può, deve parteciparvi per compiere una transizione, per aiutare un passaggio. Operare per il grande cambiamento e nello stesso tempo rivolgersi alla coalizione con l'impegno: "Non vi sarò mai di impiccio". Ciò non vuole dire assolutamente una scelta in favore o contro i DS o a favore o contro la Margherita».

    Non corre il rischio così di operare in una situazione di sovranità limitata?

    «Io so soltanto che nell'ultimo anno di vita della Commissione europea, sapendo benissimo che non sarei stato rieletto, abbiamo fatto più cose che in tutta la storia della Commissione. Anzi, questo mi ha dato una libertà di azione straordinaria, non ho dovuto far patti con nessuno! Cinque anni, però, ci vogliono, e ci vogliono tutti. Perché non possiamo illuderci di aver risultati dopo uno o due anni in una situazione come quella attuale. Sono i fondamentali, infatti, che sono diventati deboli, e cinque anni è un periodo minimo per cambiarli».

    Vorrei ritornare proprio alla questione dell'Iraq, nella sua doppia veste di Presidente della Commissione e di leader dell'opposizione: come se ne esce e che cosa dovrebbe fare l'Italia in questo momento? Cosa chiede l'opposizione? Anche perché bisognerà evitare di andare via dopo gli americani! Perché stiamo correndo questo rischio...

    «Prima di tutto un'osservazione: noi del centrosinistra siamo riusciti a farci infilzare sulle divisioni sulla guerra. Proprio noi che sulla guerra siamo stati sull'onda del comune sentire del popolo italiano, esprimendo anche l'opposizione alla guerra di metà dell'elettorato del Polo, se è vero che oltre il 70% degli italiani sono contro la guerra. Eppure siamo riusciti a presentarci divisi. È una cosa che non riuscirò mai a mandare giù. Siamo stati d'accordo nell'affermare che le nostre truppe non erano più là per uno scopo di pace e che quindi il nostro obiettivo era il ritiro di queste truppe. Sui tempi di questo ritiro, io ritengo che si tratti di una questione secondaria, un tema che viene cioè dopo tutti gli altri. È chiaro che dobbiamo porci l'interrogativo sul che fare qui ed ora. E di fronte alla possibilità di elezioni in Iraq o di fronte ad altri fatti nuovi, io credo che il ritiro immediato non sia necessariamente la scelta più utile. Tuttavia stiamo attenti a non ritirare le nostre truppe dopo quelle americane. Infatti gli americani hanno cominciato a cambiare la loro strategia in Iraq. Nessuno se n'è accorto ancora, ma da alcurne città sono usciti, hanno cominciato in modo non palese ad avere una strategia di presidio e non di occupazione globale del Paese: questo è un fatto da tenere presente. In ogni caso, lo voglio ricordare un'altra volta: quella dei tempi del ritiro non è la questione principale. Il giudizio netto e drastico sulla guerra e la richiesta di una soluzione che preveda il ritiro: questi sono i punti essenziali e su questi siamo tutti d'accordo».

    FURIO COLOMBO - Vorrei concludere con questa domanda: tu hai trovato un'Europa e adesso ne lasci un'altra. In sintesi qual è l'Europa che hai trovato e quella che lasci al tuo successore?

    «Quattro punti: il primo è l'euro. La moneta unica era stata deciso ma tutta l'impalcatura e la messa in atto l'abbiamo fatta concretamente noi ed è una cosa straordinaria per la politica europea. Ripeto sempre la frase che mi rivolse il Presidente cinese: "Noi metteremo l'euro nella nostra riserva perché amiamo il mondo multilaterale e non il mondo monopolare". La moneta, quindi, non è solo un fatto economico ma è un fatto politico.

    Secondo punto, la cosa della quale più vado orgoglioso: l'allargamento e cioè ' unificazione dell'Europa. Nel 1999, quando pronunciai il discorso in cui aprivo le porte a sei nuovi Paesi che poi sarebbero diventati dieci, era impopolarissimo e non ci credeva nessuno. L'abbiamo fatto rassicurando sia la nostra opinione pubblica, sia l'opinione pubblica dei Paesi che sono arrivati con un lavoro faticosissimo: dividere il negoziato in 31 capitoli, lavorare su ambiente, salute, politica estera, polizia, lavorare con i Parlamenti nazionali per adeguare le loro leggi a quelle europee, lavorare con i governi per applicarle. Un lavoro impressionante. Mai successo nella storia e con questo nostro lavoro noi abbiamo esportato democrazia.

    C'è stata, poi, la decisione definitiva sull'apertura dell'Unione Europea: ai Balcani. Entreranno quando saranno maturi e pronti, ma la porta è aperta, e quindi la pace nei Balcani è garantita. La Croazia ha fatto passi in avanti molto forti, ieri ho portato i questionari in Macedonia con un rito che, se volete, può sembrare anche burocratico, ma che li ha messi subito al lavoro, li obbliga a rivedere tutta la loro legislazione. La Serbia e il Montenegro seguiranno. C'è, poi, l'Albania, e c'è la Bosnia... La grande obiezione che mi è stata mossa sulla politica dell'ultimo anno è stata: "Avete fatto l'allargamento per spostare di poche centinaia di chilometri a cortina di ferro?". Obiezione avanzata da Ucraina, Moldova, da alcuni russi, da alcuni bielorussi. L'obiezione venuta dal sud, invece, è stata: "Avete prestato tutta la vostra attenzione all'Est e noi poveri del Sud del Mediterraneo siamo rimasti fuori"

    Ma anche se con tali limiti in questo modo è nata quella che, secondo me, sarà la politica guida per i prossimi 40 anni, e cioè la cosiddetta politica del vicinato o dell'anello degli amici: offrire a tutti questi Paesi - inclusi quelli non strettamente confinanti e cioè i caucasici, la Georgia, Azerbaigian e Armenia - la possibilità di condividere con l'Unione tutto, tranne le istituzioni, Paese per Paese, ognuno secondo i suoi meriti. La porta è aperta perché ci sia un'Unione commerciale, regole degli investimenti, regole sanitarie, regole di polizia, regole di giustizia, tutto tranne le istituzioni. E così che si garantisce una vera sicurezza. Solo l'Europa si è mossa sempre nella logica del multilateralismo. È venuta adesso anche la soddisfazione per l'adesione della Russia al protocollo di Kyoto. Conosco benissimo i limiti di Kyoto,.ma sappiamo anche che costruiamo così un metodo di Governo delle cose che sono di interesse di tutto il mondo e non solo di qualche Paese.

    Terzo: la nuova Costituzione che nell'ultimo giorno di vita della Commissione da me presieduta verrà approvata. C'è, infine, la riforma della Commissione che apparentemente non interessa nessuno, ma ricordatevi che se non si fanno entrare in vigore delle nuove regole burocratiche, non si forma una vera entità politica. Il valore di questo lavoro verrà riconosciuto forse fra 50 anni. Però intanto adesso abbiamo le regole di comportamento degli impiegati, dei cantieri funzionali, le regole contro la frode, la Corte dei Conti.

    Cose noiosissime, ma importantissime. E l'Europa ora è più forte, più grande»

  2. #2
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    L'Italia va a rotoli? Scegli "dalla padella alla brace"!

  3. #3
    Totila
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    Con i problemi che ci aspettano: guerre, scenari apocalittici tu credi che abbiamo ancora voglia di ridere con Gianni (berluska) e Pinotto (prodi)?

  4. #4
    Silvioleo
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    PRODI E L'ULIVO:SCENE DA UN FALLIMENTO
    di Gianni Baget Bozzo


    Romano Prodi gioca di colpo tutte le sue carte. Alla Margherita chiede di rinunciare alla sua tesi di andare alle elezioni regionali con liste separate dei vari partiti: vuole il "listone", come alle europee. Ai DS dice che vuole quaranta candidati al Parlamento designati da lui nei collegi non conquistati dalla sinistra nel 2001: vuole cioè un certo numero di eletti che facciano capo a lui, e non ai partiti, perché eletti dalla sua vittoria. A tutti dice che non è interessato al partito riformista come partito di partiti: il suo obiettivo è una lista elettorale senza partiti in posizione dominante: in sostanza, il "listone" Prodi.

    Egli ha messo così i suoi interlocutori in grande imbarazzo. Sono mesi che dicono di volere Prodi come leader di una coalizione di partiti, che lo vedono come unico collante dei partiti stessi. Ora si rendono conto che Prodi non vuole essere il semplice collante delle diversità. Esse possono rimanere, l'importante è che ci sia il "listone" Prodi e che tutti gli eletti siano eletti come prodiani e non come appartenenti ai partiti che rappresentano.

    Si è giunti così ad un vero punto di stasi, perché i partiti non sanno dire di sì e non possono dire di no. Dire di sì significa annacquare la realtà politica che li fa esistere, la memoria di un passato politico che essi ritengono tuttora come la loro identità. Accettare di diventare degli eletti prodiani senza memoria storica è per essi perdere il motivo della loro esistenza politica. Non sanno dire sì a Prodi se non dicendo no a se stessi. Dire no significa ammettere di essere così divisi che solo Prodi può unirli: e in che cosa può unirli Prodi se non nel prodismo, nel comune destino prodiano? Essi hanno eletto Prodi come loro re e si stupiscono poi che egli voglia veramente regnare.

    La partita è giunta a questo punto e bisogna vedere chi farà la prima mossa. Ambedue, sia Prodi che i partiti, vogliono stare insieme e non hanno alternative allo stare insieme: la loro unità è la condizione della loro possibilità di successo politico. La politica italiana è ingegnosa ed è probabile che ora inizieranno le grandi manovre per raggiungere un compromesso. Tuttavia Prodi per il momento è in condizioni vincenti: egli può avere altri destini che non di fare il candidato della sinistra. Non è obbligato a regnare, soltanto è la sola cosa che in questo momento egli desidera.

    Comincia dunque il braccio di ferro: se la sinistra deve esistere, bisognerà pure che abbia la capacità di risolvere il problema, per ora insolubile, di essere ciascuno se stesso e diventare insieme una sola cosa. Il problema è lo stesso di quello dei giorni del primo Ulivo, quando Prodi e Veltroni percorrevano le strade d'Italia. Ed il primo Ulivo finì ingloriosamente, ucciso dal suo "azionista di riferimento", cioè dal segretario dei DS mediante la mediazione di Cossiga.

    La commedia di oggi è già stata giocata e il suo risultato è stato fallimentare. Nonostante l'egemonia nelle istituzioni, nell'economia, nella finanza e nella cultura l'Ulivo finì sfracellato. Ottenne di governare una legislatura con tre governi diversi, con tre formule diverse. Oggi le cose sono al punto di prima, la scrittura della commedia è identica, i personaggi sono gli stessi: Prodi, D'Alema, Marini. Questa volta il rischio è che l'impresa mostri la corda del suo fallimento non dopo le elezioni, come nella volta precedente, ma prima di esse.

    La sinistra italiana si è posta in una condizione politicamente impossibile volendo conservare la sua identità, anzi tutte le sue identità, ed apparire con una sola prospettiva di governo.

  5. #5
    brescianofobo
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    Il dato economico più forte è la perdita di competività nei mercati mondiali che si è accentuata soprattutto nei confronti dei nuovi mercati. Germania e Francia hanno bilanci sani verso Cina e India: noi no, e qualcosa non va. Anche gli indici del commercio estero e della produzione industriale vanno male. Come Pil siamo ultimi a pari merito in Europa. I conti pubblici sono altrettanto disastrosi. Nel gruppo dei 15 vecchi Paesi membri dell'Ue qualsiasi parametro prendiamo siamo sempre tra gli ultimi due o tre. Il risultato è che l'Italia non ha più nerbo e questo si riflette in un giudizio non più quantitativo bensì qualitativo: l'Italia è sempre meno considerata. Prima, a fatica, eravamo con Germania e Francia, ora siamo con Spagna e Polonia. Adagio adagio scendiamo in una categoria diversa: dai Paesi che hanno 57 milioni di abitanti a quelli che ne hanno 40. È impressionante».

    IL PRESIDENTE PRODI
    [INWIN=300]BRUNIK.ALTERVISTA.ORG/pil.htm[/INWIN]
    I POLLISTI CI STANNO PORTANDO ALLA ROVINA CON LE LORO CIANCE

  6. #6
    Silvioleo
    Ospite

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    LEADER DEBOLE X POTERI FORTI


    di Giovanni Fasanella e Renzo Rosati






    Romano Prodi
    Da Profumo a De Benedetti, fino a Passera, molti finanzieri e industriali che lo avevano appoggiato nel '96 gli voltano le spalle e guardano con simpatia verso Rutelli. Che stringe rapporti sempre più stretti con il gotha degli imprenditori. Favorevoli a un ricambio della classe dirigente a spese del Professore.



    «Sono Romano Prodi, il leader bollito»: la telefonata è arrivata inattesa, nel weekend del 18-19 settembre, verso sera. E alcuni dei destinatari, banchieri, imprenditori ed economisti vecchi amici del Professore, superata la sorpresa, si sono messi a ridere. Pensavano a una battuta scherzosa, per esorcizzare i «boatos» che lo vorrebbero costretto a un imminente abbandono dalle manovre dei suoi avversari nell'Ulivo. Ma sono rimasti di sasso, come paralizzati dall'imbarazzo, quando hanno sentito la voce di Prodi farsi sempre più concitata, fino a esplodere nell'ira: «Ma perché l'avete incontrato, quel Rutelli? Non dovevate farlo. Da voi non me l'aspettavo».

    Il presidente della Commissione europea aveva appena letto su Panorama una notizia che gli aveva mandato la cena di traverso. Quella dell'esame a cui il suo rivale Francesco Rutelli era stato sottoposto segretamente, in un albergo romano, da un gruppo di esponenti dei cosiddetti poteri forti. Interrogato sul suo programma di governo, il presidente della Margherita era stato promosso a pieni voti. Fiutata aria di tradimento, Prodi si era messo in moto per conoscere l'elenco degli esaminatori. E li ha chiamati tutti, a uno a uno. Ma con quale risultato è facile intuire, dal momento che la notizia di quelle telefonate ha subito fatto il giro, suscitando ilarità e sconcerto al tempo stesso.

    E così, oltre a fronteggiare giorno dopo giorno contrasti e baruffe nel centrosinistra, il Professore è andato a sbattere contro un altro tipo di isolamento, che questa volta non aveva proprio previsto: quella nomenklatura imprenditoriale e finanziaria che aveva contribuito non poco al suo successo nel 1996, e sulla quale riteneva di poter contare al rientro da Bruxelles per la nuova scalata a Palazzo Chigi, gli sta voltando le spalle.

    Le grandi banche innanzitutto. Prodi puntava molto sulle simpatie dei due top manager dei principali istituti italiani, Alessandro Profumo, dell'Unicredit, e Corrado Passera, di Intesa. Oggi Profumo, agli occhi di Prodi, è il principale indiziato di simpatie rutelliane. Una preoccupazione non da poco, dal momento che si tratta del più importante banchiere italiano. Nell'inverno 2003, l'amministratore delegato dell'Unicredit aveva partecipato assieme alla Capitalia di Cesare Geronzi al vittorioso assalto contro la Mediobanca. In quell'operazione, molti avevano appunto intravisto lo zampino prodiano: il primo, clamoroso atto del rientro sulla scena italiana del presidente della Commissione di Bruxelles.

    Vera o forzata che fosse quella interpretazione, è certo che, mentre Geronzi (che ulivista non è mai stato) riannodava i rapporti con Silvio Berlusconi, nelle ultime settimane Profumo ha fatto sapere di volersi dedicare solo ai business della propria banca. Molto esposto nel salvataggio della Fiat, in fase di sganciamento dalla Mediobanca, il quarantasettenne top manager è alla ricerca di interlocutori più affini alla sua mentalità decisamente pragmatica e alla sua generazione. Nel mondo dell'impresa ha trovato una sponda naturale nel presidente della Fiat e della Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo. E in quello della politica segue con interesse crescente i movimenti di due politici pragmatici e della sua stessa generazione come Francesco Rutelli e, nel centrodestra, Pier Ferdinando Casini.
    Sia il presidente della Camera sia il leader della Margherita stanno stringendo rapporti sempre più solidi con Montezemolo. Un altro capitolo amaro per Prodi. Quando l'erede degli Agnelli è stato eletto alla Confindustria, anche a lui molti avevano subito affibbiato l'etichetta di prodiano.

    E anche in quel caso il Professore, che aveva seguito quasi minuto per minuto le grandi manovre confindustriali, si era illuso. Dei king maker di Montezemolo, da Diego Della Valle ad Andrea Pininfarina, da Vittorio Merloni a Emma Marcegaglia, pochissimi sono rimasti in rapporti stretti con il Professore. Tutti, invece, Montezemolo in testa, si fanno portatori di un nuovo verbo: svecchiare la classe dirigente del Paese. «Persino in Cina» ironizza Annamaria Artoni, presidente dei giovani imprenditori, «c'è meno gerontocrazia».

    Risultato: l'ultimo, vero amico di Prodi, 65 anni, è rimasto il settantaduenne Giovanni Bazoli. Ma il presidente della Intesa non è più quel banchiere potente che nel 1996 scrisse parte del programma economico dell'Ulivo. E che, alla vigilia delle elezioni del 2001, il Professore voleva piazzare alle calcagna dell'allora candidato premier Rutelli, come superministro dell'Economia. Oggi, infatti, Bazoli non può più contare sull'amicizia personale di Giovanni Agnelli. Ed è stato ridimensionato anche nella Rcs Media Group, la holding che controlla il Corriere della sera. Ancora una volta, a ridurne il potere nell'azionariato del primo quotidiano italiano sono state le più giovani leve dell'imprenditoria e della finanza.

    La guerra generazionale infuria del resto persino ai piani alti della Intesa. Dove l'amministratore delegato Corrado Passera, anche lui della schiera dei quarantenni, non ha più il feeling di un tempo con il suo presidente, Bazoli. Rivendica maggiore autonomia e questo suo desiderio ha insospettito Prodi. Il quale non ha perso occasione per ricordare in giro che Passera era una sua creatura, sin dai tempi in cui il banchiere di oggi era il giovanissimo pupillo di Carlo De Benedetti; e Bazoli, di quel sodalizio politico-finanziario, era in un certo senso il padre nobile.

    Sembrano davvero lontani quei tempi. E dire che ancora nel 2000 il presidente della Intesa veniva invitato da De Benedetti a bordo del suo yacht Itaska per disegnare le strategie e gli organigrammi del potere prodiano. Oggi l'editore della Repubblica e dell'Espresso non ha perso la passione per la politica. Anzi.
    Sul suo quotidiano ha appena firmato con Giuliano Amato una sorta di manifesto programmatico dell'Ulivo. Che ha pubblicato una piccata reazione, sotto forma di lettera, del Professore. Per sabato 2 ottobre De Benedetti ha organizzato un convegno su questioni di politica ed economia. Non si sa se ci sarà Romano Prodi. Di sicuro Rutelli è stato invitato.

  7. #7
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    buono il "presidente" prodi(presidente di che?) :
    ministro dell'industria nel governo de mita, che ha gestito SESSANTAMILA MILIARDI DI ALLORA del dopoterremoto dell'irpinia.
    un santo.
    della premiata ditta demita tanzi prodi

  8. #8
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    Predefinito Re: Il Presidente Prodi bacchetta il regime pollista.

    In Origine Postato da brunik
    [B]L'Unità, 4 ottobre 2004

    Intervista al Presidente Prodi

    «L'ltalia è in uno stato gravissimo Noi, uniti per governare»

    Presidente Romano Prodì, parliamo per prima cosa del momento italiano. L'Italia si interroga sul momento del suo ritorno e sul ruolo che avrà nella vita politica italiana.
    .................................................. ...........................................
    Ora che prodi si leva dalle palle , senz'altro l'europa farà un passettino avanti ( poco ma lo farà).
    Se prodi riesce a creare un po di (nebbia) con attacchi forvianti al centro destra, RIUSCIRA' A NASCONDERE TUTTE LE REPRIMENDE DEI MAGGIORI QUOTIDIANI EUROPEI.ma guardate non contro i vostri "bananas" ma proprio contro la nullità di prodi!!!!!!

  9. #9
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    Predefinito

    Sartori: "attenti daranno anche poteri assoluti al premier"
    «Tardivo l’intervento di Ciampi, al capo dello Stato va comunque il merito di aver reclamato un preventivo sui costi»

    Simone Collini
    ROMA
    «Dialogare? Ma se siamo di fronte a un mostro?»

    Ovvero, professor Sartori?
    «Stanno approvando una riforma che darà vita a un sistema costituzionale incostituzionale».

    Nel senso?
    «Nel senso, per esempio, che si daranno poteri assoluti a un premier eletto direttamente, distruggendo nel contempo il sistema dei freni e dei contrappesi, che è la ragion d’essere di una Costituzione».

    Per questo è auspicabile il dialogo invocato con un appello dal presidente Ciampi.
    «Un appello tardivo».

    Comunque utile, o no?
    «Se si vuole dar vita a un altro mostro, per esempio un cangatto».

    Un cangatto?
    «Il progetto è in dirittura d’arrivo, ed è immodificabile nella sua struttura portante. Allora, se io chiedo un cane e mi offrono un gatto, come si fa a dialogare?»

    Però l’opposizione ha apprezzato l’appello al dialogo.
    «C’è una strana tentazione nell’opposizione. Si dice: non si può dire sempre no. Ma certo che si può dire sempre no. Sulla Costituzione non si possono fare giochetti, non ci si può astenere: o è sì, o è no».

    E se gli appelli sortissero qualche effetto? Anche Berlusconi ultimamente ha detto che il dialogo tra gli schieramenti è interesse di tutti.
    «Lo dicono ora che il gioco è quasi fatto, visto che dopo l’approvazione al Senato e quella che ci sarà presto alla Camera, la seconda lettura è soltanto pro forma».

    E se invece si fermassero veramente, come chiede l’opposizione?
    «Non si può ragionare per congetture. Se si fermano andiamo tutti in chiesa e cantiamo un Te Deum. Ma oggi bisogna iniziare a lavorare sul referendum. Anche perché, avendo tutte le televisioni contro, sarà un’impresa che necessita di un lavoro di buona lena e che va avviato subito».

    Già parla di referendum? Non si pone neanche la questione se il presidente Ciampi firmerà o meno il testo di riforma?
    «Ciampi può o negare la firma all’inoltro dei disegni di legge del governo, cosa che avrebbe dovuto fare molte volte ma non ha mai fatto. O rinviare al Parlamento, per riconsiderarla, una legge già approvata».

    Come ha fatto con la Gasparri.
    «Sì, dopodiché, gli è tornata con qualche ritocco, ma Gasparri era e Gasparri resta».

    Il capo dello Stato ha lanciato anche un altro segnale alla maggioranza dicendo di voler conoscere i costi di questa riforma.
    «Finalmente».

    Quello dei costi è un tasto su cui ha battuto a più riprese anche lei.
    «Questa riforma sarà molto costosa, è chiaro che bisogna fare un preventivo».

    Il centrodestra sostiene che una riforma costituzionale afferma dei principi, non è una finanziaria.
    «Ma che vuol dire? Non si può approvare una riforma senza sapere se i costi che porterà potranno essere sopportati dal paese».

    Dicono che con la devolution non ci saranno duplicazioni di funzioni, ma semplicemente trasferimenti di personale dall’amministrazione centrale a quella locale.
    «È dagli anni Settanta che vediamo cosa succede con i trasferimenti, perché non tutti lo sanno ma un decentramento c’è già stato. Bè, le persone trasferite sono state meno del 50 per cento».

    Non è obbligatorio, se deciso?
    «Figuriamoci, si fa ricorso al Tar e si blocca il trasferimento».

    Quindi, saranno necessarie nuove assunzioni da parte delle Regioni?
    «Ma è chiaro. Per questo sono tenuti a fare dei preventivi. E non è vero che non si possono fare, si può studiare un ventaglio di possibilità. Non c’è una cifra certa, ma cifre minime e massime, sì».

    Ipotizziamo una cifra.
    «Ipotizziamo diecimila nuovi assunti a Regione, che non sarebbero poi molti. Moltiplicato per venti Regioni, fa 200mila persone. E stiamo parlando di costi fissi, anno dopo anno».

 

 

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