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    Quando Falce E Martello Scannavano I Padani

    Nuovo libro di Marco Pirina sul tragico dopo-Resistenza
    QUANDO FALCE E MARTELLO SCANNAVANO I PADANI


    PIER LUIGI PELLEGRIN
    --------------------------------------------------------------------------------
    Il nuovo volume di Marco Pirina, in uscita nei prossimi giorni, prosegue le indagini intraprese dallo storico pordenonese per fare luce sui tragici fatti del dopo-Resistenza, quando le regioni della Padania vennero spazzate dal vento feroce del comunismo. Una storia finora sottaciuta, negata, volutamente nascosta alla coscienza collettiva di un popolo. Ma l’enormità di questa tragedia alla fine sembra aver fatto breccia presso il grosso pubblico, come testimonia il trend estremamente positivo delle vendite degli ultimi numeri della collana, di cui Pirina è autore, giunta con questo al dodicesimo numero (“La rivoluzione rossa – Memorie, documenti, testimoniane…” è comunque il secondo volume del numero 12, “1945-1947 guerra civile- La rivoluzione rossa”). Sicuramente più ostacoli, invece, sono stati e saranno incontrati sulla strada della storiografia ufficiale.
    Pirina, leggendo il suo libro viene da chiedersi se lei è preparato agli attacchi di una certa parte politica.
    «Prima di tutto tengo a precisare che questo libro si occupa di quanto accaduto dopo la Resistenza, pertanto eventuali accuse di “revisionismo” non starebbero in piedi nemmeno tecnicamente. Se poi, in questa indagine fatta su determinati episodi storici, sono coinvolti anche partigiani comunisti, questi sono problemi loro. E tengo a precisare che è la prima volta che uno storico si addentra in queste ricerche. Finora, infatti, si è sempre raccontata una storia vista da questa o quella parte politica. Anche se devo dire che qualcosa si è mosso con il romanzo, dall’inconfutabile successo editoriale, “Il sangue dei vinti” di Giampaolo Pansa, nel quale è stata ripercorsa la strada intrapresa da alcuni storici di destra, dando un’interpretazione romanzata di questa resa dei conti».
    Una sorta di “risarcimento” che però non sembra averla soddisfatta...
    «Il problema è che in questa maniera la ricostruzione storica non poteva essere esaustiva. Dopo la fine della guerra, infatti, nell’Italia settentrionale si sono succedute più fasi, tutte convergenti alla realizzazione di una vera e propria “rivoluzione rossa”».
    In che modo?
    «Dopo la fine della guerra molti partigiani non deposero le armi, anzi, sognarono la rivoluzione del proletariato cercando di instaurare nel Nord Italia una repubblica comunista, una repubblica “democratica” come si diceva allora. Pertanto, dopo la prima fase dell’immediato dopoguerra, nel quale ci sono state migliaia di vittime, è subentrata una seconda fase programmata, strisciante, di eliminazione di tutti coloro che non erano favorevoli all’instaurazione di un regime comunista, quindi: preti, agrari, piccoli borghesi, piccoli artigiani, piccoli proprietari terrieri, vale a dire tutta quella “classe media” produttiva che faceva dell’iniziativa privata e della proprietà il fondamento della propria esistenza. I servizi segreti americani hanno rivelato che in quel periodo in Italia vi erano almeno 150.000 partigiani dotati di armi leggere e pesanti, fiancheggiati da altrettanti partigiani “civili”, pronti a percorrere la strada rivoluzionaria».
    Che rapporti aveva il Pci con queste vicende?
    «Il partito comunista italiano, di fronte a questa situazione, si comportò in modo ambiguo, tra la linea di Palmiro Togliatti proteso alla conquista pseudo democratica (come dimostrò entrando nel governo Bonomi) e quella di Pietro Secchia, componente insieme allo stesso Togliatti, a Longo e a Amendola, del quadrumvirato che dirigeva il partito comunista tra la fine della guerra e la costituente. Secchia era il vero e proprio capo di stato maggiore di questa rivoluzione strisciante. Il suo progetto prevedeva il controllo del territorio attraverso un’organizzazione in cellule partigiane».
    Cosa accadde poi?
    «Diciamo che per “fortuna” in quel momento aleggiava lo “spettro” della Grecia, dove un analogo tentativo rivoluzionario dei comunisti fallì risolvendosi in un bagno di sangue anche perché, come conseguenza ai patti di Yalta, l’Urss non poteva intervenire in quanto gli ellenici, come l’Italia, erano coperti dall’ombrello occidentale. In un verbale dei servizi segreti russi, rivelato lo scorso anno, emerge proprio la volontà di Togliatti, in un incontro con Stalin, di evitare “un’altra Grecia in Italia”. Da ricordare che poco dopo avvenne lo “strano” attentato allo stesso Togliatti».
    Ma come riuscì, poi, Togliatti a convincere i 150.000 partigiani pronti alla rivoluzione a deporre le armi?
    «Mantenendo una posizione doppia, volutamente di compromesso, continuando nascostamente a sventolare il miraggio della rivoluzione, da far esplodere però in momenti più propizi».
    Come fu possibile che un esercito di rivoluzionari combattenti sia scomparso come in un gioco di prestigio?
    «Infatti, non sono spariti d’incanto, ma si sono assottigliati nel tempo, continuando ad agire nell’ombra, pronti a scattare per una rivoluzione che non è mai avvenuta. Si dovrebbe tenere presente, al riguardo, che in un libro della Mafai dedicato a Secchia si riportano le parole dell’ex leader nelle quali si spiega come “un vero comunista alla rivoluzione debba pensarci sempre”».
    Sembra quasi che questi partigiani siano stati nonni e genitori delle Brigate Rosse...
    «Non è un mistero che vi siano dei collegamenti tra questo tipo di lotta armata e la deriva dei movimenti studenteschi degli anni ’60 verso gruppi armati combattenti, che poi confluirono nelle Brigate Rosse e proseguirono con i brigatisti che hanno ammazzato Biagi e D’Antona».
    Tornando al biennio 45-47, in che maniera i partigiani preparavano la loro rivoluzione?
    «In alcune regioni, come Lombardia, Liguria, Piemonte, tale controllo era di tipo “carbonaro-insurrezionalista”, basato su cellule armate dette di autodifesa, con il compito di eliminare i potenziali nemici della rivoluzione rossa. In altre regioni, come l’Emilia-Romagna e il Friuli-Venezia Giulia, questo tipo di azioni vengono portata avanti scopertamente, alla luce del sole. In alcune province emiliane, come Ravenna e Ferrara (tra l’altro in una di queste zone era commissario politico Giuseppe D’Alema, padre di Massimo), i carabinieri non possono nemmeno entrare, esisteva solamente la “polizia partigiana”. Comandavano i “comitati di liberazione”, peccato che nel 1946 e nel 1947 non ci fosse più nulla da liberare. Si giunse a momenti di ferocia inaudita, documentati nel mio libro, nei quali si arrivò anche ad uccidere non solo i partigiani “bianchi”, ma anche i partigiani comunisti che nutrivano dubbi».
    Per dare le dimensioni dell’accaduto questi eccidi si possono in qualche modo quantificare?
    «Sì, attraverso i rapporti dei carabinieri di cui sono venuto in possesso e che pubblico nel libro. Sono documenti nei quali si riportano le indagini su omicidi e violenze commessi in quel periodo. Il numero ufficiale dei morti è davvero impressionante: 50.680 vittime tra il 25 aprile del 1945 e la fine del 1947 nelle regioni del Nord, ai quali vanno aggiunti almeno 15.000 scomparsi».


    [Data pubblicazione: 09/10/2004]

  2. #2
    email non funzionante
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    Un grande autore,da leggere!
    Pro aris rege!

 

 

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