Luca Leonello Rimbotti, in Italicum, settembre-ottobre 2004

IL “COMUNISMO GERARCHICO”, LA RIVOLUZIONE RADICALE DEL NOVECENTO



Nell’epoca dell’egoismo sociale elevato a sistema, quando per riscaldare gli uomini con qualche traccia di “comunitarismo” si è costretti a umiliarli in quelle farse ideologiche che sono i “girotondi”, gettare uno sguardo a quelle idee in cui invece la comunità costituisce l’unico parametro della convivenza, significa riappropriarsi di tutto il significato antagonista che l’idea di comunità ricopre nei confronti della mera società. In questo senso, è impossibile non verificare il dato storico che lo sguardo politico delle rivoluzioni nazionalpopolari del secolo XX, pur con tutti i loro difetti, fu ben più profondo di quello delle residuali “sinistre” filo-liberali odierne, che si aggirano ai piedi del capitalismo mondialista in veste di attempate e inascoltate puttane.

Oggi, una fredda analisi retrospettiva, priva di ogni inutile spirito revanchista, ma ricca invece di volontà di conoscenza e passione di verità, può facilmente attribuire al corporativismo fascista – erede delle lotte del sindacalismo rivoluzionario - il ruolo di unico organismo politico e sociale che abbia cercato di sradicare la malapianta dell’individualismo borghese, senza per questo, come fece invece il bolscevismo, distruggere anche il patrimonio tradizionale delle appartenenze e della qualità personale dell’uomo. Inserendosi come “terza dimensione” tra capitalismo e collettivismo, il corporativismo intese gettare le fondamenta di una nuova civiltà che doveva essere in grado di risolvere il moderno problema dell’inserimento delle masse nel circuito del potere ma, ad un tempo, proteggendo le specificità nazionali e gli antichi tessuti di cultura e di socialità popolari. Tuttavia, come sappiamo, durante il Ventennio la struttura corporativa non riuscì a svellere la pesante struttura del predominio economico capitalista, limitandosi a contenere qua e là gli oltranzismi industrialisti, ma non riuscendo nel compito previsto di erigere una comunità sociale di lavoro davvero operante, fondata sullo smantellamento del capitale finanziario e speculativo. Ma ci furono idee e uomini, momenti storici e realizzazioni istituzionali che portarono il fascismo ad attaccare da vicino il capitalismo e a porsi come suo antagonista, risoluto nel passare dalle teorie ai fatti?

Secondo quanto hanno scritto due tra i maggiori storici del fascismo, Zeev Sterhell e De Felice, il fascismo corporativo si presenta come linea di continuità diretta con gli antecedenti del sorelismo e del sindacalismo rivoluzionario. Superato il vecchio concetto di classe, ciò che si apriva era la più vasta visione comunitaria nel suo complesso. Partendo da questo dato, noi oggi possiamo allargare la riflessione facendo riferimento ad uno studio uscito di recente per le Edizioni di Ar, Il comunismo gerarchico. L’integralismo fascista della corporazione proprietaria e della Volksgemeinschaft di Sonia Michelacci. Questo lavoro presenta un taglio scientifico che è del tutto inusuale in questo genere di studi, approcciando l’analisi delle teorie e delle realizzazioni sociali soprattutto dal lato giuridico, e scegliendo la via del comparativismo storico, ponendo una di fronte all’altra le strutture sociali e normative del fascismo-regime, quelle della Repubblica Sociale e quelle del Terzo Reich. Ma vi è anche un capitolo sulla coeva concezione sociale cattolica: scelta non eccentrica, se solo si pensa alle ricadute che ebbe il fascismo sociale sul pensiero cattolico della prima metà del Novecento, in cui si ebbero non trascurabili convergenze tra neo-tomismo e corporativismo: da padre Gemelli al giovane La Pira. In più, e in qualità di referente ideologico misurabile sui tre maggiori casi storici, Sonia Michelacci prende il modello ideologico avanzato da Ugo Spirito fin dal 1932, con la sua conosciuta proposta della corporazione proprietaria: il momento più alto dell’avanguardia rivoluzionaria, tale da fungere in tutti i casi come insuperato schema per la finale liquidazione dell’idea stessa di proprietà privata borghesemente intesa. Ugo Spirito fu l’espressione della volontà di sospingere il corporativismo fino alle sue estreme conseguenze: la sua concezione filosofica – di formazione idealistica, gentiliana – riposava su una rappresentazione unitaria della realtà. Per questo, egli vedeva nella proprietà privata, dalla quale sono sorte in linea diretta tutte le feroci ingiustizie sociali del liberalismo individualista, l’ultimo e il più tenace baluardo del classismo e della divisione sociale. L’inserimento della corporazione proprietaria quale organo dello Stato (e non più come semplice “cinghia di trasmissione” tra lavoro e istituzioni, come invece veniva presentata dal corporativismo sindacalista classico), doveva avere il significato di una vera e rivoluzionaria ridistribuzione del potere, al centro del quale il ruolo della competenza era decisivo: il tecnico (paragonabile al manager industriale, ma di questo l’opposto quanto a contenuti sociali), formato attingendo al popolo e non più alle élites classiste, andava a ricoprire il ruolo di perno della produzione e, ad un tempo, di protagonista politico.

Spirito più volte ebbe a precisare che la sua idea di smantellamento della proprietà non doveva affatto condurre ad un livellamento collettivistico, ma, proprio al contrario, alla promozione di una più matura e più giusta gerarchia. E, in proposito, parlò chiaramente di un comunismo gerarchico. E questo anche in epoca avanzata: in Guerra rivoluzionaria, che risale al 1941, ad esempio, a proposito della gerarchia di valori da lui auspicata come finale esito del fascismo, egli scrisse: “Comunismo, dunque, se si vuole, ma comunismo gerarchico e tecnico che fa tutt’uno con l’organizzazione e con il programma dello Stato. Soltanto così ognuno può trovare la garanzia della propria libertà nello Stato e il vero principio di tale libertà che è segnato dal diritto al lavoro”. La Michelacci, prendendo questi punti qualificanti del pensiero di Spirito come contraltare del corporativismo sindacalista del Regime, ancora in gran parte attestato sulle vecchie posizioni di classe, non sbaglia dunque nell’assegnare loro il ruolo di estremi referenti rivoluzionari, di fronte ai quali le realizzazioni sociali del Ventennio – che spesso in pratica attuarono una forma di garantismo nei confronti non della proprietà in genere, ma purtroppo della grande proprietà in specie – avevano tutta l’aria di essere la retroguardia della conservazione. L’Autrice inclina infatti a ricordare come l’insieme delle idee di Spirito tendesse a dar vita ad una diversa interpretazione del concetto di proprietà, attorno al quale – come ben si capisce - ruota tutta la complessa questione della proprietà dei mezzi produttivi, cui si intrecciano i condizionamenti economici sul potere politico e infine i più aperti ricatti, estensibili finanche alle scelte di politica estera. Parlando dunque del totalitarismo corporativo tratteggiato da Spirito, la Michelacci scrive che “l’essenza del corporativismo si sarebbe dunque risolta nell’attribuire ad ogni individuo un valore e una funzione pubblica […] Soprattutto il mondo economico poteva avviarsi verso una economia programmatica, mediante la quale superare il liberalismo tradizionale”.

Bisogna a questo proposito ricordare che le teorie di Ugo Spirito non erano rappresentative soltanto di una presa di posizione personale, priva di riscontri: al contrario, esisteva nel fascismo sociale tutto un ambiente che vi si rifaceva e non solo in teoria, ma col lavoro quotidiano, con la tessitura di contatti, con concrete proposte. Basterà ricordare come Tullio Cianetti intorno al 1934 criticasse l’utilizzo “parastatale” dell’IRI, da poco fondato, auspicando che questo organismo (che definiva potenzialmente come “la vera corporazione proprietaria”) e l’insieme di sindacati, consorzi e organi economici vari dovesse estinguersi nella vera corporazione, arbitra e protagonista della vita economica. Oppure, si ricorderà come favorevoli a queste impostazioni di “rivoluzione corporativa” fossero anche il popolare organizzatore sindacale Luigi Razza (che difatti, alla metà degli anni trenta, venne allontanato dalla politica attiva), o un Agostino Nasti, che, interpretando la volontà in specie di tutto il mondo giovanile fascista – massicciamente favorevole a un indirizzo “socialista” del Regime -esortava il fascismo a “sostituirsi al marxismo” nella lotta sociale, traendone simpatie diffuse in Europa, dal “neo-socialismo” di Marcel Déat al “planismo” di Henri De Man.

Tutti questi ambienti della sinistra fascista – giovanile, sindacale, corporativa, teorica e organizzativa - erano risoluti a superare quella empasse in cui era caduto il fascismo dopo le grandi enunciazioni: infatti, né la Carta del Lavoro del 1927, né l’introduzione l’anno seguente della Magistratura del Lavoro, né l’inaugurazione formale nel 1934 delle 22 Corporazioni – per altro mai veramente funzionanti – venivano giudicate tappe tali da veder finalmente minacciato da vicino il sistema capitalistico. La proprietà veniva sì sottoposta a talune limitazioni, soprattutto quando il proprietario non ne faceva un buon uso o un uso contrario agli interessi dello Stato; ma tutto questo non sembrava andare oltre lo stadio della enunciazione di principio e non sembrava avere innescato alcun procedimento veramente rivoluzionario in senso sociale. L’Autrice presenta l’impianto giuridico della normativa sociale del Ventennio come ancora aggrappato tenacemente ad un’impostazione di diritto soggettivo: e qui individua il limite di uno sforzo che portò non diciamo la rivoluzione, ma anche solo il riformismo fascista, a vedersi sovente intralciato, o addirittura sabotato, dalle centrali del potere conservatore borghese, che tutto sommato si vedeva garantito da un sistema di leggi con cui ancora poteva difendere larghe parti dei suoi privilegi. Per dare un’idea, ci possiamo riferire a ciò che afferma la Michelacci a proposito della Carta del Lavoro e del Codice Civile, e al loro tentativo infruttuoso di convertire la proprietà privata in funzione sociale: “La funzione sociale, quindi, così tanto osannata, nel momento in cui lasciava immutata la struttura pratica della proprietà, altro non sarebbe dovuta essere che un limite posto alla signoria del proprietario […] ma incapace di esprimere un concetto giuridico; incapace, cioè, di determinare con esattezza un certo àmbito riservato non solo ai diritti, ma anche agli obblighi”. In altre parole, la “funzione sociale”, come dice Sonia Michelacci, si riduceva troppo spesso ad una semplice dichiarazione di intenti.

Il discorso sulla sostanza sociale delle realizzazioni attuate dal fascismo fino al 1943, ci porterebbe lontano. E’ tuttavia possibile verificare quale fosse la vera anima di quel movimento, non appena ci si volge a considerare le iniziative portate avanti dalla Repubblica Sociale. Questo è il punto in cui l’analisi dell’Autrice si fa più interessante, tesa ad uno stretto paragone con l’interpretazione sociale del Terzo Reich. L’iniziativa del risorto fascismo si spostò fin da subito verso decisioni radicali. I Diciotto Punti di Verona, in questo senso, sono decisivi per un giudizio complessivo. Inoltre, l’approvazione della Premessa Fondamentale – gennaio 1944 – è il primo cardine di un sistema che, sancito col Decreto del febbraio seguente, portò all’avvio della socializzazione sul terreno dei fatti: la proprietà non è negata, ma equiparata al lavoro nella gestione e nella ripartizione degli utili, sottoposta alla programmazione e al Consiglio di Gestione (cui partecipavano i soli lavoratori), così da evitare la burocratizzazione ma garantendo la responsabilità e il decisionismo effettivo del lavoro. Sappiamo che fino agli ultimi mesi della Repubblica il procedimento conobbe crescente attuazione, e che vennero socializzate molte imprese, dalla Dalmine a quelle del comparto cartaceo. E nulla impedisce di pensare che, disponendo di tempo, il Ministero dell’Economia Corporativa guidato da Angelo Tarchi sarebbe andato fino in fondo. La Michelacci, per altro, vede nel concetto di proprietà privata della Repubblica Sociale uno sviluppo delle anticipazioni teoriche di Ugo Spirito e un momento di sensibile avvicinamento col Terzo Reich: salvaguardia dell’iniziativa privata e della proprietà, entro certi limiti e con ben precise riserve, ma “è del pari vero che capitale e iniziativa privata ricoprono adesso un ruolo che non decide più il processo produttivo, poiché il ruolo decisivo viene adesso ricoperto dal lavoro in tutte le sue manifestazioni”.

Queste osservazioni ci portano dunque al cuore della concezione sociale nazionalsocialista. Qui l’individuo, di per sé, non ha veste. Se non in qualità di membro del Volk. Né individuo né Stato – i due protagonisti della dinamica borghese – hanno rilevanza giuridica, ma solo il popolo, e in esso l’uomo in quanto sua consapevole e organica parte attiva. L’assoluta preminenza del politico e del pubblico sul privato e sullo Stato, garantita dal sistema nazionalsocialista, portava, come scrisse il giurista Otto Kollreutter, a far coincidere il pensiero giuridico con quello politico. Il pubblico non veniva identificato con lo Stato (come nella tradizione liberale borghese), ma con il popolo, elevato dunque a somma tra le categorie giuridiche, fonte esso stesso di diritto attraverso la sua identificazione gerarchica con la figura del Führer e con il suo potere di decisione. E questo, a sua volta, era considerato come espressione di una volontà non individuale, ma comunitaria.

Il concetto stesso di diritto, nel Terzo Reich, è attribuito per intero alla Volksgemeinschaft, unico soggetto giuridico all’interno del quale vige il principio fondamentale della distribuzione del ruolo e della funzione sociale: a ciascuno il suo. Che rimanda, evidentemente, ad una concezione anti-egualitaria, gerarchica, ma inserita in un meccanismo di socialità anti-classista, per cui ad ognuno è aperta la porta della responsabilità a qualunque grado, purché manifesti quella competenza che abbiamo già visto essere stata indicata da Spirito come la discriminante gerarchica del suo “comunismo”. La “lotta contro il diritto soggettivo” in cui si prodigò il diritto nazionalsocialista non era la negazione dell’individuo come essere umano con una sua personalità: evidentemente, non era questo che si negava, ma il sopravvento dell’interesse privato sull’interesse pubblico. Né si pensava affatto a negare la libertà del singolo: poiché il singolo giuridicamente non esisteva. Come nella Grecia antica, l’individuo è inserito in un sistema totale. E come questo sistema di potere pubblico – che non è lo Stato, ma la volontà comunitaria – non era affatto sentito come opprimente nel V secolo, poiché il potere, come diceva Tucidide, non rappresenta il popolo ma è il popolo, così ugualmente, e con straordinaria similitudine, il diritto nazionalsocialista giudica Volk e potere pubblico un’unica e indivisibile realtà di popolo. Come scrisse Karl Larenz, “la libertà spetta al singolo non come ad un individuo che stia fuori della comunità, ma solo nella comunità e mediante di essa”. E’ in questo quadro che vanno interpretate le affermazioni dei teorici nazionalsocialisti, intese a considerare lo steso marxismo come un’ulteriore forma dell’individualismo libertario borghese, un’assicurazione sui diritti ad ampio spettro, che nella teoria non esce dal recinto delle garanzie tipiche del conservatorismo moderno, fondato sui “diritti” e sull’astrazione libertaria.

Nel ripercorrere le tappe del pensiero giuridico nazionalsocialista, Sonia Michelacci ricorda che anche e soprattutto sul concetto di proprietà – nodo di ogni interpretazione di diritto pubblico – si riverbera la convinzione del più radicale comunitarismo. Individuo, dunque, scrive l’Autrice, “come membro responsabile della comunità, e non come astratto individuo”. Posizione, questa, che veniva infine sancita, ad esempio, ancora da Larenz, nell’indicare i caratteri della proprietà come fossero ristretti in quelli di un possesso elargito al proprietario, in una sorta di affidamento da parte del Volk: “proprietà come dominio limitato sulla cosa, affidato dalla comunità ai suoi membri che lo esercitano in maniera responsabile”.

Si comprende che la concezione meta-giuridica nazionalsocialista è imparagonabile con il diritto borghese, tutto incentrato sull’idea liberale di libertà privata. E ben si comprende, inoltre, che l’uscita dalla sfera privatistica faceva modernamente rientrare il diritto comunitario del Terzo Reich nella categoria atavica del comunitarismo di stirpe su base tradizionalista, dove il legame, la solidarietà, la reciprocità, l’onore sociale, il servizio, ma anche il volontariato sociale, il soccorso, la mutualità, l’offerta, il servizio (tutte parole-chiave del lessico nazionalsocialista), non erano pensati come slogan di richiamo solidaristico in una società disgregata e quindi bisognosa di nuovi collanti sociali, ma come l’essenza spontanea, naturale, ovvia, di un con-vivere che era concepito – heideggerianamente – come con-lavorare, con-studiare, con-battere: insomma: con-essere. Uno studio semantico sull’uso della particella tedesca mit in filosofia, in sociologia o in antropologia durante il Terzo Reich, ad esempio, rivelerebbe quanto fossero cardinali e non accessori simili richiami ideologici.

La via comunitaria imboccata da uomini, teorie politiche, regimi, ideologie e interi popoli del trascorso secolo XX appare oggi, all’apice del processo di disintegrazione sociale e umana delle nazioni, come un “altro mondo”. Eppure, il caotico riandare di taluni pensatori o osservatori o ambienti nostri contemporanei al bisogno antico di aristotelica socialità proprio nel bel mezzo della sbornia individualistica, è altamente rivelatore, e proprio nel suo scomposto e frammentato riemergere. Esso testimonia che il bisogno di comunità così intensamente vissuto in certi salienti della nostra storia recente non era vuoto ideologema, ma il riflesso di un ordine esistenziale che nessun avverso destino può sopprimere.

Luca Leonello Rimbotti


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Sonia Michelacci, Il comunismo gerarchico. L’integralismo fascista della corporazione e della Volksgemeinschaft, Edizioni di Ar, pagine 196; Collezione: "Il tempo e l’epoca dei fascismi". Prefazione di Luigi Lombardi Vallauro. Euro 20,00
...Dopo aver scandito con nettezza i vari passi del fascismo rivoluzionario verso una concezione della proprietà privata che postulava di superare tanto l’individualismo liberale quanto il collettivismo comunista, il libro individua come prima realizzazione coerente e chiara dell’ideale fascista l’ordinamento fondato, con la Socializzazione delle imprese, dalla Repubblica sociale...(dalla prefazione di Luigi Lombardo Vallauri, Filosofo del Diritto)

...Una delle prime formulazioni di Ugo Spirito sul comunismo gerarchico – da lui identificato con il corporativismo – risale al 1935, nella relazione ‘Corporativismo e libertà’ presentata al Convegno italo-francese di studi corporativi che si tenne a Roma nel maggio di quell’anno. In essa il filosofo aretino così tratteggiava il tipo di collaborazione gerarchica da lui posta a fondamento della nuova società: “Per poter vincere il capitalismo occorre vincerlo tecnicamente e spiritualmente, non con la violenza del numero, ma con la superiorità tecnica di una gerarchia totalitaria in cui i valori umani si differenziano al massimo”...(dall’introduzione dell’Autrice)
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Saluti