A ottanta anni dalla morte di Lenin (1924-2004)
Un bilancio del suo pensiero rivolto alla situazione storica di oggi

da Rosso xxi

Costanzo Preve

Lenin è morto ottanta anni fa (1924-2004). Ottanta anni sono un buon periodo storico per fare un bilancio. Inoltre, la mummia di Lenin non è ancora stata seppellita, ma Lenin ha da tempo cessato di essere il Grande Ideologo della legittimazione del Socialismo Reale. I sacerdoti, dopo aver bruciato sul rogo per settanta anni i dissenzienti, i pagani e gli eretici, sono passati dall’altra parte a celebrare i riti di nuove divinità vincitrici. Classico. Come Marx, Lenin è oggi “inattuale”. Anzi, lo è ancora di più, perché Marx può sempre prestarsi a chiacchiere generiche sull’emancipazione umana o sullo scandalo del divario fra ricchi e poveri, e diventar così un testimonial prestigioso ed innocuo del movimento No Global. Lenin no. Lenin è uno che ci ha provato, e non si è limitato ad operazioni mediatiche ed a proclamazioni testimoniali.
Per questa ragione Lenin è particolarmente odiato. Lenin è uno che ci ha provato, e per questo la sua memoria deve essere diffamata ed esecrata. Le considerazioni che qui svolgo sono già da me state svolte in altri contesti. Ma qui vengono riepilogate, riformulate e riproposte in modo sistematico, cosa che probabilmente il lettore dotato di spirito critico apprezzerà.

1. La “leggenda nera” di Lenin, simbolo di un secolo diabolico da cui congedarsi

Gli storici definiscono “leggenda nera” (leyenda negra) la teoria per cui gli spagnoli avrebbero di fatto genocidato i popoli amerindi dell’America Latina. Non sono uno specialista di quella storia, e quanto dico deve essere preso con beneficio d’inventario. A me sembra che gli spagnoli volevano prima di tutto sottomettere e schiavizzare, mentre gli anglosassoni intendevano invece sgomberare il terreno e quindi direttamente genocidare. Se sbaglio mi si corregga. D’altra parte, poiché una immagine vale spesso più di mille pagine di teoria, basta guardare le facce di George Bush e di Hugo Chavez per sapere quale dei due modelli coloniali ha saputo integrare di più i dominati. Ancora adesso chi guarda i telefilm americani vedrà negri in tutte le salse, negri poliziotti, negri pompieri, persino negri dirigenti, ma non vedrà mai coppie miste di neri e di bianchi. Ci si chieda il perché, e si comincerà a capire qualcosa di più del mondo contemporaneo a direzione ideocratica imperiale americana.
Oggi Lenin è il protagonista principale, insieme a Hitler e Stalin (i poveri Mao e Mussolini sono obbligati a sedere in seconda fila!), della “leggenda nera” del novecento, secolo diabolico in cui l’utopia della virtù si è rovesciata in terrore (Hegel, Merleau-Ponty, Furet, eccetera), ed in cui il comunismo non è stato che l’applicazione politica del livellamento fordista al mondo sociale. Poiché noi italiani ci distinguiamo sempre per essere feroci e buffoni (ma spesso non sappiamo che gli altri se ne accorgono, e se non lo dicono è solo per educazione!), questa teoria è italiana come la pizza e l’alta moda, ed ha trovato in Marco Revelli il suo esponente più determinato. Il “pentimento” degli ex Lotta Continua, questo sgradevole fenomeno sociologico, morale ed editoriale, ha evidentemente una durata di molti decenni.
In realtà il novecento non può essere seriamente staccato dai secoli precedenti. Il seicento ha cominciato a proporre un modello di razionalità scientifica (Galileo) e filosofica (Spinoza), certo pieno di difetti per il suo inevitabile meccanicismo, ma comunque pieno di promesse. Il settecento ha esteso ed applicato questo modello di razionalità cercando di mediarlo con la conoscenza storica. L’ottocento, bene o male, ha prodotto per la prima volta una teoria emancipativa universalistica, piena di comprensibili difetti economicistici, storicistici ed utopistici, ma nello stesso tempo suscettibile di essere migliorata in un secondo tempo (Marx). Il novecento, infine, non è stato solo il secolo di Auschwitz e di Hiroshima, ma è anche stato il secolo “in cui ci si è provato” a cambiare il mondo (Lenin). Questo primo tentativo di cambiamento è storicamente fallito, ma non per questo deve essere anche filosoficamente delegittimato.
Ancora una volta ripeto la vera ragione dell’odio verso Lenin. Lenin deve essere maledetto perché ci ha provato. Certo, le “anime belle” che non si sporcano mai le mani non commettono mai errori o crimini. In proposito, la gente che si crede “colta” non capisce assolutamente la natura delle proposte apocalittiche alla Marco Revelli, e crede che si tratti solo di un “congedo” filosoficamente elaborato dal solo novecento fordista-comunista. Errore. Ciò da cui si vuole prendere congedo non è il solo novecento fordista-comunista, ma è l’intero progetto conoscitivo-emancipativo della modernità europea. Il “pentimento” della povera banda di Lotta Continua (Adriano Sofri, Marco Revelli, eccetera) è solo il punto di infiammazione patologica di una epidemia molto più diffusa, l’irrazionale congedo dall’intero progetto moderno, un progetto ad un tempo conoscitivo ed emancipativo.
Questo progetto è un progetto pratico, e la pratica è un’attività trasformatrice. Chi trasforma, dunque, deve a volte distruggere per ricostruire. Chi parla solo di frittata non deve rompere nessun uovo, ma chi vuole veramente cucinare una frittata deve necessariamente rompere le uova. Non ci si inganni sull’attuale retorica della Non-Violenza. E’ evidente che in linea di principio la Non-Violenza è meglio della Violenza. Bella scoperta! Fare l’amore è meglio di soffrire di un tumore! Una carezza è meglio di un colpo di scure! Convincere tutti è meglio di incarcerare anche solo una minoranza riottosa! E così potremmo continuare in una sagra delle banalità.
La retorica della Non-Violenza, oggi, al di là di essere un evidente segnale di integrazione simbolica nel sistema politico delle oligarchie finanziarie attuali, rappresenta il trionfo della “teoria parlata” sulla “pratica giocata”. Finalmente si può parlare di frittata senza dover anche spiacevolmente rompere le uova. Chi non capisce che siamo di fronte ad una crisi epocale della razionalità moderna, e ritiene che si tratti soltanto di un tragicomico momento congiunturale che caratterizza i codici di riconoscimento di gruppi relativamente esigui (anche se sovrarappresentati mediaticamente) di politici, giornalisti ed accademici, non coglie adeguatamente i tratti del tempo presente. Niente di nuovo. Tipico della “sinistra” è non cogliere mai il senso tragico della storia. Ci deve sempre essere un “lieto fine”, sempre una “proposta”, sempre una “soluzione”.
Ebbene, si ritorna sempre al punto di partenza, come nei giochi di dadi in cui si viene puniti perché si è capitati nella casella sbagliata. Lenin ci ha provato, dunque deve essere demonizzato. Marx ha solo scritto, ma non ci ha veramente provato. Fra i due demoni, dunque, Lenin è il peggiore.

2. Un legittimo dubbio iperbolico: esiste veramente il “leninismo”?

E’ filologicamente accertato senza ombra di dubbio che ad un certo punto Marx scrisse che era sicuro di una cosa sola, e cioè di non essere “marxista”. Non ricordo esattamente il contesto preciso di questa affermazione, ma il significato è chiaro: tutti gli “ismi” che vengono confezionati in mio nome, e che certamente ancor più verranno confezionati dopo la mia morte, devono essere presi con beneficio di inventario.
La stessa cosa, ovviamente, può essere detta per Lenin. Personalmente, non credo neppure che esista una cosa univocamente definita chiamata “leninismo”. Mi è noto, ovviamente, e lo farò io stesso nei prossimi paragrafi, che si possono facilmente elencare alcune soluzioni date da Lenin a problemi teorici e politici (lo sviluppo del capitalismo in Russia contro i populisti, la teoria del partito politico contro i menscevichi, la teoria delle alleanze di classe contro gli operaisti “luxemburghiani”, la teoria dell’imperialismo contro le definizioni date da Kautsky e da Bucharin, la teoria del materialismo dialettico contro l’empiriocriticismo, eccetera). Per chi conosce la storia del marxismo, elencare queste soluzioni ed organizzarle in un sistema teorico coerente è un gioco da ragazzi. Ma, appunto, è sempre pericoloso trasporre i giochi da ragazzi nella teoria politica e filosofica. In proposito mi limiterò a segnalare solo due punti principali.
In primo luogo, è storicamente e filologicamente accertato che il termine di “leninismo” è ovviamente posteriore al 1924, anno della morte di Lenin. Che cosa fosse il “leninismo” è oggetto di lotta politica fra Stalin, Trotzky e Zinoviev, ognuno dei quali definisce il leninismo a suo modo. La definizione storicamente accettata dal movimento comunista è ovviamente quella di Stalin, che la espone in due opere successive, pubblicate rispettivamente nel 1924 e nel 1926. Si apre una divaricazione fra il cosiddetto “marxismo-leninismo”, sintesi accettata prima da Stalin e poi da Mao, ed il cosiddetto “marxismo rivoluzionario”, termine che indica in realtà il trotzkismo. In quanto Padre Fondatore del Comunismo, Lenin diventa la posta in gioco di una guerra ideologica senza quartiere.
In secondo luogo, Lenin fu il massimo esponente di una concezione teorica in cui le scelte politiche e ideologiche erano fatte caso per caso sulla base di una valutazione legata all’analisi concreta di una situazione concreta. Il contrario, quindi, degli “ismi” (di tutti gli ismi), che invece deducono la scelta politica o teorica da un corpus dottrinale precedente. Chi ha conoscenze della storia delle filosofia occidentale sa bene che questo approccio individualizzante alla scelta pratica non risale affatto ad un fantomatico “materialismo”, ma risale ad Aristotele ed alla sua teoria della cosiddetta “deliberazione” (boulesis). Mentre nelle scelte teoriche si ha a che fare con canoni formali e regolari (quelle che oggi chiamiamo le “leggi scientifiche”), nelle scienze pratiche, e quella di Lenin è chiaramente una scienza pratica della rivoluzione, si ha a che fare con una saggezza (sophrosyne), che a differenza della semplice sapienza (sophia), consiste nella capacità di fare la scelta giusta caso per caso (boulesis).
La scelta rivoluzionaria dell’ottobre 1917, ad esempio, è un caso tipico di “arte dell’insurrezione” che non può essere dedotta da nessun “ismo”, tanto meno poi dall’“ismo” per cui la rivoluzione non si può fare più nei cosiddetti punti alti dello sviluppo capitalistico (corruzione delle aristocrazie operaie a causa della distribuzione dei sovraprofitti imperialistici, ed altre “sciocchezze” del genere, mi si scusi per l’espressione volutamente un pò volgare), e bisogna allora farla negli anelli deboli della catena mondiale imperialistica. Questo argomento è una tipica “razionalizzazione a posteriori” di un fatto portato a termine in una congiuntura irripetibile che non si può dedurre da nessun “ismo” (e tantomeno dal cosiddetto “leninismo”), e che è invece compiuto da una “deliberazione” (boulesis) attuata non in base alla sapienza marxista ma in base alla saggezza politica pratica.
Per queste ragioni, e per altre che qui trascuro per brevità, ho forti dubbi che si possa parlare sensatamente di “leninismo”. Parlerò invece di Lenin, o più esattamente del modo concreto e specifico in cui Lenin ha affrontato questioni teoriche e pratiche.

3. Il rapporto controverso di Lenin con Marx. Ortodossia teorica, revisionismo pratico e falsa coscienza necessaria

Per affrontare in modo serio la questione cruciale del rapporto di Lenin con Marx bisogna prima di tutto staccarsi dalla leggenda edificante che vi è stata costruita sopra dalla dottrina ideologica del defunto comunismo storico novecentesco (1917-1991). Secondo questa leggenda edificante vi sarebbero stati prima i grandi marxisti rivoluzionari Marx e Engels, poi sarebbero venuti i perfidi revisionisti Bernstein e Kautsky, ed infine sarebbe venuto Lenin a restaurare la vera dottrina rivoluzionaria perduta, ricollegando il comunismo pratico del 1917 con il comunismo teorico del Manifesto di Marx ed Engels del 1848.
Lenin fu ovviamente un “revisionista” molto più grande di Bernstein e di Kautsky, perché “revisionò”, e cioè rinnovò radicalmente, l’originaria teoria di Marx e anche la sua sistemazione fatta da Engels. Tuttavia, questa revisione radicale fatta da Lenin venne presentata nella forma di una “restaurazione” dello spirito rivoluzionario originario nel frattempo perduto e corrotto. Ci si può allora porre la domanda legittima se questo rinnovamento radicale presentato nella forma di una restaurazione sia stato dovuto ad un “vincolo ideologico esterno”, perché il movimento marxista del tempo non avrebbe sopportato una revisione radicale presentata per quello che era, e cioè appunto una revisione radicale, oppure sia stato dovuto ad una forma di “falsa coscienza necessaria” di Lenin, per cui quest’ultimo era soggettivamente convinto di stare soltanto restaurando, mentre stava in realtà proponendo una revisione radicale delle tesi di Marx (e anche di Engels).
Che dire? In prima approssimazione, entrambe le cose. Kautsky aveva potuto far passare la sua egemonia teorica nella forma della fedeltà “ortodossa” a Marx e Engels. Come documenta bene Erich Matthyas, il kautskismo era diventato l’ideologia di legittimazione della pratica opportunistica della socialdemocrazia tedesca, così come più tardi, in un altro contesto storico e politico, lo divenne il togliattismo nel PCI di Togliatti e Berlinguer. Lenin era allora di fatto costretto a giocare con le regole imposte da altri. Nello stesso modo, più di mezzo secolo dopo, dovettero giocare con le regole della “sacralizzazione” di Marx, da tener fuori religiosamente da ogni “peccato” di revisione, sia Althusser (contrapposizione fra un giovane Marx, cattivo, ed un Marx maturo buono) sia Lukács (contrapposizione fra un Marx tutto perfetto e senza errori ed un Engels ammirabile e stimabile, ma con errori deterministici e meccanicistici).
In seconda approssimazione, però, credo che Lenin si ingannasse (in buona fede, e nello stesso tempo in falsa coscienza) sul tipo di riforma cui stava sottoponendo la teoria originale di Marx. In altri termini, stava costruendo una teoria originale, completamente nuova, mentre era convinto di stare solo restaurando la vera teoria marxiana originaria.
La mia è un’affermazione impegnativa. Per poterla argomentare con un minimo di serietà devo ora passare a discutere alcuni aspetti del pensiero di Lenin. Iniziamo, ovviamente, dalla sua teoria del partito politico.

4. La teoria di Lenin del partito politico rivoluzionario

La teoria leniniana del partito politico rivoluzionario è considerata secondo l’opinione comune come il “pezzo” più importante, duraturo e pregiato del contributo di Lenin al marxismo. Non è questa la mia personale opinione. La mia opinione è che il “pezzo” più importante, duraturo e pregiato del contributo di Lenin sia la sua teoria dell’imperialismo, secondo una particolare accezione (il salto dall’eurocentrismo implicito marxiano alla vera mondializzazione) che cercherò di chiarire nel prossimo paragrafo. Ma per ora cerchiamo di ragionare in modo critico e spregiudicato sulla teoria leniniana del partito, la cui prima formulazione è nel Che fare? (1903), ma che poi si presenta in tutte le opere posteriori di Lenin.
In primo luogo, bisogna dire ben chiaro e forte che la teoria leninista del partito è completamente assente in Marx e Engels. Il Manifesto del Partito Comunista di Marx e Engels del 1848 è la dichiarazioni di intenti storica non di uno specifico partito politico (ed infatti Marx e Engels nel biennio 1848-49 si rifiutarono di aderire ai gruppi politici comunisti dell’epoca, ma aderirono invece a forze democratiche non comuniste), ma di una sorta di “partito-tendenza”, la cui natura era quella di coprire un’intera fase storica, e non quella di agire come gruppo organizzato in un panorama politico dato. E’ vero che nel corso delle battaglie politiche della cosiddetta Prima Internazionale (in realtà AIL, associazione internazionale dei lavoratori) Marx e Engels ebbero spesso accenti “partitistici” contro le posizioni anarchiche di Bakunin, ma questo non basta per farli diventare “partitisti” nel senso di Lenin. E vi è per questo una ragione precisa. Se è vero, infatti, che per Marx il comunismo non è il prodotto politico dell’agire di un partito, ma è il prodotto storico della formazione di un lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, alleato con le potenze scientifiche evocate dalla produzione industriale moderna e da Marx connotate con la parola inglese general intellect, ne consegue allora che in questo modello dialettico di costituzione di una nuova società non c’è veramente lo spazio teorico per il ruolo decisivo di un partito politico. Certo, Marx e Engels erano favorevoli alla cosiddetta “capacità politica della classe operaia”, in polemica con gli anarchici ed i sindacalisti puri, ma anche questa loro cristallina posizione non ha nulla a che fare con la teoria della decisività di un partito politico. Risulta chiaro da un’onesta lettura filologica di Marx che per lui la “dittatura del proletariato” era concepita come una dittatura democratica delle maggioranze auto-organizzate in autogoverno politico ed in autogestione economica, e non come la dittatura di un partito inteso come il “rappresentante degli interessi storici” del proletariato. Che poi queste maggioranze auto-organizzate si rivelarono impossibili, impraticabili e del tutto “utopistiche” nella storia reale successiva alla morte di Marx (1883) è vero, ma di per sé questo non cambia di un grammo la posizione di Marx. In una parola, la teoria leniniana del Che Fare? è una revisione di Marx molto più grande di quelle coeve di Bernstein e di Kautsky.
In secondo luogo (e questo secondo punto è immensamente più importante del primo) la teoria leniniana del partito presenta a mio avviso una vera e propria contraddizione strutturale insanabile fra la sua concezione del marxismo come “scienza”, da un lato, e la concezione del “centralismo democratico”, dall’altro. Se il marxismo è concepito come scienza, infatti, non è possibile sostenere contemporaneamente che le decisioni “scientifiche” possano essere prese a maggioranza, in quanto per definizione la “scienza”, se è veramente tale, non procede a colpi di maggioranza e di sottomissioni disciplinate della minoranza. La cosa è intuitiva, ma è di tale importanza da meritare una analisi più dettagliata e approfondita.
Com’è noto, nel Che Fare? Lenin sostiene che la classe operaia, salariata e proletaria di per sé, nelle sue lotte economiche immediate, può soltanto maturare una visione limitata e sindacalistica, mentre per poter impadronirsi teoricamente dell’insieme dei rapporti sociali capitalistici di produzione deve poter giungere alla “scienza marxista”, che solo il partito nella sua collegialità può veramente acquisire. Di tutto questo, si noti bene, in Marx non c’è neppure l’ombra. Nello stesso tempo, a mio avviso, Lenin aveva completamente ragione, perché solo un cieco e/o un illuso può veramente pensare che da uno sciopero economico si possa risalire alla totalità dei rapporti di produzione. Non intendo certamente contestare Lenin su questo punto. I cosiddetti “spontaneisti” possono restare tali solo perché non ragionano e non intendono ragionare e prendere atto dell’evidenza. Da tempo mi sono reso conto che la confusione non è un argomento razionale.
L’insieme dei rapporti sociali di produzione in una formazione economico-sociale è dunque un oggetto scientifico che deve essere analizzato con un metodo scientifico. Trattandosi di una scienza sociale (più esattamente di una ontologia dell’essere sociale), è a mio avviso del tutto erroneo e fuorviante cercare di applicarvi l’oggetto ed il metodo di una scienza naturale. Su questo punto, il mio disaccordo con Lenin è radicale, così come con tutti coloro che ritengono che le scienze naturali e quelle sociali abbiano un oggetto omogeneo ed un metodo simile. Ma in questa sede questo problema, pur così cruciale, è un semplice dettaglio secondario. Eguale o diverso che sia il metodo ed il suo oggetto, in ogni caso la “scienza” non può essere decisa con il metodo delle maggioranze e delle minoranze.
Il principio del “centralismo democratico”, invece, sostiene di fatto proprio questo. Questo principio sostiene che ci si può dividere fra maggioranze e minoranze nel momento preliminare della presa delle decisioni, ma poi, una volte prese le decisioni, la minoranza dissenziente deve impegnarsi a portare avanti la “linea” presa dalla maggioranza.
Tutto questo è compatibile con una bocciofila o con una industria automobilistica, ma non con un’organizzazione che pretende di basarsi sulla “scienza” marxista. Una bocciofila può dividersi se investire in nuovi campi da bocce o in corsi di bocce per adolescenti. Un’industria automobilistica può dividersi sulle scelte di nuovi modelli. In entrambi i casi (ed in migliaia di casi analoghi che il lettore potrà facilmente fare) non si ha a che fare con una pretesa di “scienza”. Ma il partito di Lenin pretende di essere il titolare della “scienza” marxista. Ora, il solo titolare di qualsiasi scienza (naturale, sociale o filosofica che dir si voglia) è il libero convincimento del singolo scienziato. Tutta la teoria della filosofia occidentale, da Socrate in poi, si basa sul principio per cui la “verità”, ammesso che esista, non si decide a maggioranza, ma è oggetto di attività razionale autonoma. Se si fosse dovuto decidere a colpi di maggioranza e minoranza, oggi lo sappiamo bene, Copernico, Galileo e Darwin avrebbero certamente perso.
Questa contraddizione fra preteso carattere scientifico del marxismo, da un lato, e principio del centralismo democratico (in cui le minoranze si sottomettono alle maggioranze anche se non “convinte”) dall’altro, è assolutamente insanabile. O si abbandona la pretesa che il marxismo sia una “scienza”, e allora si possono accettare procedure consensuali di maggioranza e minoranza, oppure si tiene fermo al fatto che è in qualche modo una “scienza”, ed allora non esiste centralismo democratico che tenga. Per questa ragione, la concezione leniniana del partito contiene in sé in potenza il principio della scissione interminabile. Non si tratta di una patologia, ma di una fisiologia inevitabile. Se il marxismo è “scienza”, infatti, ci mancherebbe altro che io mi debba sottomettere ad una casuale maggioranza. Solo la mia coscienza è sovrana indivisibile sulla mia “scienza”. Tutti i fuochi di sbarramento ideologici approntati in un secolo per nascondere questo fatto incontrovertibile, e cioè che la “scienza”, se è scienza, non si sottopone al principio di maggioranza (centralismo democratico), perché se no non è scienza, ma un’altra cosa, rivelano il loro carattere strumentale e miserabile (individualismo piccolo-borghese, anarchismo piccolo-borghese, liberalismo piccolo-borghese, e via farneticando). E’ evidente che qui la “piccola borghesia” diventa una categoria demonologico-inquisitoria per esorcizzare il diritto indiviso del soggetto autonomo moderno ad affrontare la filosofia filosoficamente e la scienza scientificamente.
In terzo luogo, per finire, il partito di Lenin è uno stato in miniatura, una sorta di “socialdemocrazia emergenziale militarizzata”, e più esattamente uno “stato ideologico in potenza”. Non uso queste espressioni per criticarlo o per liquidarlo sommariamente. Al contrario. Uso queste espressioni per segnalare come già Marx, in polemica con Lassalle, aveva escluso che lo stato, sia pure riformato o “operaio”, potesse essere lo strumento politico per il superamento del capitalismo. Lo stato, infatti, incorpora nella sua struttura differenziali di sapere e di potere che non possono essere neutralizzati “ideologicamente”. Su questo punto è permesso, naturalmente, criticare Marx per “utopismo”, riaffermare la validità dello stato democratizzato e soprattutto considerare insostenibile la teoria dell’estinzione dello stato. Chi scrive, tra l’altro, pensa proprio questo. Ma allora bisogna avere il coraggio di essere apertamente “revisionisti”, perché Karl Marx, il fondatore della ditta, non pensava questo, ma pensava il contrario.
Concludiamo sul punto del partito. Accusare Lenin non ha senso, perché egli non ha fatto altro che prendere atto radicalmente di un dato già allora visibile (ed oggi incontrovertibile), cioè l’assoluta incapacità della classe operaia, salariata e proletaria, presa nella sua immediatezza sociologica, di operare “spontaneamente” un superamento del capitalismo. Ci voleva comunque un rimedio, e Lenin propose un nuovo tipo di partito rivoluzionario “integrale”, una sorta di ordine religioso anti-capitalistico. Non ha funzionato. Mai fidarsi di preti e sacerdoti. Tradiranno il messia prima che il gallo abbia cantato tre volte. Non c’è bisogno per questo di rivolgersi a Roberto Michels o a Leone Trotzky. Ma di fronte alla miseria intellettuale dei cosiddetti “spontaneisti” (ultima versione, la più grottesca di tutte, il lottacontinuismo italiano degli anni 1969-1976), Lenin fa la figura di un gigante.

5. La teoria di Lenin dell’imperialismo

Marx scrisse la maggior parte delle sue opere nel ventennio 1850-1870. Si tratta proprio del ventennio del libero scambio, quello che Hobsbawn chiama “l’età della borghesia”. A quel tempo regnava il colonialismo imperialistico inglese, che Marx combatteva (scritti sull’Irlanda e sull’India, eccetera), ma non c’era ancora il vero e proprio imperialismo. Il vero e proprio imperialismo nel senso di Lenin è un prodotto storico posteriore al 1873, e cioè alla cosiddetta Grande Depressione. Marx non ha dunque nessuna colpa per non averne parlato, mentre Kautsky ha le sue colpe per aver ingenuamente immaginato una sorta di consorzio capitalistico imperiale unificato, il famoso Super-imperialismo, in cui i capitalisti si mettono pacificamente d’accordo per spartirsi consensualmente il mondo. Kautsky dimenticava così che per il suo maestro Marx non ci poteva essere un tale capitalismo unificato “concordatario”, in quanto il capitalismo esiste solo nella forma obbligata della concorrenza strategica fra numerosi capitali antagonistici. Errare è umano. Ma perseverare è diabolico, e tutto l’orrendo “operaismo” si è ideologicamente costruito su questo errore kautskyano, fino all’ultima concezione di impero di Toni Negri. L’operaismo è, teoricamente parlando, una sorta di “anarchismo kautskyano”. Il capitale si unifica in un gigantesco super-imperialismo imperiale, e contro di esso si muovono, senza alcun bisogno di partito leninista “autoritario”, le masse luxemburghiane ridefinite in termini di moltitudini spinte da flussi desideranti di tipo teurgico (sic!).
Anche l’idiozia può attingere vette sublimi.
Da quasi novanta anni si discute sulle famose cinque caratteristiche che secondo Lenin caratterizzano l’imperialismo, e che qui non ripeto per ragioni di spazio. Su questo punto rimando ai recenti scritti sull’imperialismo di Gianfranco La Grassa, che fanno un bilancio storico critico di queste cinque caratteristiche, e di fatto ne ritengono attuale solo una, mentre le altre quattro in qualche modo sono state “smentite” o “assorbite” nell’ultimo secolo. Qui però intendo svolgere il mio ragionamento in una diversa prospettiva.
Prima di tutto, una constatazione storica elementare. La differenza fra la socialdemocrazia ed il comunismo dopo il 1917 non è stata quella della vittoria o della sconfitta dei loro progetti (per ora, in questo 2004, entrambi i progetti sono stati sconfitti totalmente, con la sola parziale eccezione della benemerita socialdemocrazia radicale e coerente di Chavez in Venezuela). La differenza fra socialdemocratici e comunisti si è situata nel diverso atteggiamento verso il colonialismo imperialistico e verso la legittimità o meno degli interventi militari imperialistici, fino naturalmente alla Jugoslavia 1999 e l’Irak 2003. I socialdemocratici sono stati generalmente favorevoli (con benemerite eccezioni) ed i comunisti generalmente contrari (con spregevoli eccezioni). Tutto questo si deve anche a Lenin, e possiamo anche dire, soprattutto a Lenin.
In questo modo Lenin superava di fatto in modo positivo l’eurocentrismo che inevitabilmente l’originario programma di Marx portava in se (esemplarità del modello capitalistico inglese, eccetera). Lenin non è stato il “secondo” a mondializzare il marxismo, ma è stato in un certo senso il “primo”. Credo che questo impegnativo e prestigioso riconoscimento gli debba essere dato, anche se ovviamente ogni innovatore radicale si porta sempre con se anche residui della vecchia concezione (meccanicismo, teoria dei cinque stadi, sostanziale disconoscimento del modo di produzione asiatico, eccetera). Ma si tratta di dettagli. Il punto essenziale sta nel superamento di fatto dell’eurocentrismo, espresso bene dal titolo della sua opera “L’Europa arretrata e l’Asia avanzata”.
La teoria leniniana dell’imperialismo, che personalmente approvo integralmente (con fisiologiche obiezioni di dettaglio frutto del bilancio dell’ultimo secolo di storia, i cui ultimi ottanta anni non sono stati vissuti da Lenin), fa di Lenin il più grande marxista del novecento. Per questo egli è tanto odiato, nell’epoca dell’impazzimento interventistico dell’impero militare americano e dell’impunità vergognosa di cui gode il sionismo.

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