L'assurdo paternalismo di Stato in busta paga
di Antonio Martino
Nel nostro Paese, come in altri dell'Unione europea, quasi un lavoratore su otto è disoccupato. Quanto alle cause della disoccupazione, è opinione diffusa che non si tratti di un fenomeno ciclico, cioè dovuto alle difficoltà temporanee di una congiuntura sfavorevole, ma strutturale. Dire che si tratta di disoccupazione strutturale, tuttavia, non ci aiuta a risolvere il problema se non specifichiamo quali siano questi fattori "strutturali". Fermo restando che gli elementi in gioco sono numerosi, ce n'è uno che, a mio avviso, assume un'importanza particolare.
Com'è noto, la crescita esponenziale delle spese per l'assistenzialismo di Stato si è tradotta in un aumento della fiscalità e in particolare in una crescita della "tassa sull'occupazione": fra il costo del lavoro, sopportato dal datore, e la remunerazione netta, incassata dal lavoratore, c'è una differenza enorme. In media, il datore di lavoro deve sborsare una somma pari a circa il doppio di quanto il lavoratore si trova in busta paga. Questo "cuneo" ha due effetti certi: da un lato scoraggia l'impiego complessivo di lavoro, perché lo rende artificialmente più caro, dall'altro incoraggia l'occupazione nell'economia sommersa, il cosiddetto lavoro nero. Se, assumendo ufficialmente il dipendente, il datore deve pagare, sotto forma di oneri vari, una "penale" di un milione per ogni milione che corrisponde al lavoratore, entrambi hanno un incentivo considerevole a evadere il balzello: pagare in nero significa che il datore sopporta un costo del lavoro minore, mentre il dipendente incassa una remunerazione maggiore. A rimetterci sarà solo l'erario, che non incassa nulla.
Tutto questo è noto, ma c'è un aspetto di questo meccanismo sul quale sembra opportuno soffermarsi. Come sottolineato sul Wall Street Joumal da Anthony de Jasay - economista e filosofo ungherese di grande valore - siamo in presenza della riedizione moderna di una pratica antica, contro la quale per secoli si sono battuti i lavoratori dipendenti. Si tratta del truck, della corresponsione del salario in natura: il salario veniva fissato in moneta, ma in molti settori i datori meno scrupolosi, invece di pagare in moneta i lavoratori, davano loro una quantità di beni di valore pari - a loro giudizio - al salario pattuito. I lavoratori hanno storicamente considerato questa pratica come un abuso, una violazione dei loro diritti, come dimostrato dai numerosi tentativi di estirparla legislativamente (in Inghilterra, de Jasay ricorda le leggi del 1604, 1621, 1703 e 1831). Tuttavia, è solo a partire dalla fine del secolo scorso in Inghilterra, e dagli Anni 30 di questo secolo negli Stati Uniti e in alcuni Paesi dell'Europa orientale che la pratica è stata del tutto abbandonata.
Appena liberatisi dal truck dei padroni privati, i lavoratori hanno finito col soccombere alla versione attuale del pagamento in natura versione a pagamento in natura di una parte cospicua del salario. Come accennato, circa metà del salario è pagato in moneta, 1'altra metà viene trattenuta per finanziare i servizi dell' assistenzialismo di Stato, che costituiscono una forma di retribuzione in natura. Il sistema ha una sola vera giustificazione: il paternalismo. Così come sostenuto dai padroni privati del secolo scorso, il nostro illuminato Padrone pubblico vuole impedire che il lavoratore, decidendo da sé come spendere il proprio reddito, finisca col dilapidarlo in spese superflue, e costringerlo a investirlo nell'acquisto di "protezione sociale" ovviamente fornita in condizioni di monopolio dallo Stato (anche i padroni privati, in genere, fornivano al lavoratore beni di loro produzione).
Questa impostazione paternalistica è, ovviamente indifendibile. Se l'assicurazione contro malattie, invalidità o disoccupazione è necessaria al lavoratore, è da ritenere che egli la stipulerebbe comunque se lo Stato, invece di fornirgliela obbligatoriamente gli lasciasse la disponibilità dell'intero salario. Né si vede perché la fornitura di questi servizi dello Stato assistenziale debba essere fatta direttamente dal settore pubblico in condizioni di monopolio. Il fatto che sia indifendibile oltre che causa di disoccupazione e di lavoro nero, tuttavia, non significa, purtroppo che verrà abbandonata. Il sistema, infatti, serve soprattutto gli interessi di un ceto politico-burocratico preposto al suo funzionamento, che impedirà qualsiasi riforma. C'è solo da sperare che la disoccupazione prodotta dallo Stato assistenziale non diventi essa stessa causa di una sua ulteriore espansione. Speriamo cioè che si riesca a evitare questo circolo vizioso verso la servitù di Stato, che sembra caratterizzare il nostro tempo.
Antonio Martino