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    Predefinito In memoria di Lucio Colletti - dal marxismo al liberalismo






    Il sito della rivista IDEAZIONE ricorda il grande pensatore liberale, di estrazione marxista (fu uno dei maggiori teorici del marxismo nostrano) pubblicando la prefazione del libro "LUCIO COLLETTI. FRA SCIENZA E LIBERTA' " di Pino Bongiorno e Aldo G. Ricci.

    A questo indirizzo:

    http://www.ideazione.com/quotidiano/...e_colletti.htm

    Sempre, in gran parte, su Lucio Colletti, consiglio il libro dello studioso brasialiano Orlando Tambosi: "Perchè il Marxismo ha fallito - Lucio Colletti e la storia di una grande illusione", pubblicato da Mondadori.



    " La filosofia e la cultura italiana del Novecento sono state profondamente influenzate dall'idealismo hegeliano e dal marxismo. Questo ha portato ad affrontare, con più chiarezza rispetto a quando non sia accaduto in altri paesi, i punti critici del rapporto Marx-Hegel, iniziando dalla dialettica. Nessuno ha esaminato la questione più a fondo di Lucio Colletti, una delle più importanti figure del dibattito politico-culturale italiano del dopoguerra, il filosofo che ha dimostrato come la dialettica hegeliana influenzasse il pensiero di Marx e come questo stretto legame si rivelasse fatale per la pretesa scientificità della dottrina marxista. La sua opera, attraverso un'analisi lucida e attenta della crisi della società contemporanea, ha messo quindi a nudo le illusioni di una generazione che ha vissuto il "flagello ideologico" del Novecento, un secolo che si è chiuso con il predominio del liberalismo, anch'esso non scevro di illusioni. "Perché il marxismo ha fallito" ripercorre la parabola di queste ideologie, componendole in un quadro storicamente coerente, nella convinzione che le conclusioni di tale fecondo e originale confronto risultino significative non solo per gli italiani, ma per tutti coloro che, in qualsiasi luogo del mondo, difendono il pensiero critico. Orlando Tambosi ricostruisce il percorso politico-filosofico di Colletti dentro il marxismo e fuori di esso, collocandolo nel contesto più ampio del panorama culturale italiano. "


    Con senescenza

  2. #2
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    Lucio Colletti è morto il 3 novembre del 2001.

    " ... Colletti, filosofo e opinionista, deputato di Forza Italia, era nato a Roma l’8 dicembre 1924. Coniugato, lascia due figli. Fu docente incaricato presso l’Università di Messina e Roma, professore straordinario all’Università di Salerno, infine ordinario di filosofia della storia e di filosofia teoretica alla Sapienza di Roma. Collaborò con il Corriere della Sera e con il settimanale l’Espresso. Colletti studiò in particolare il pensiero illuminista, il marxismo e Benedetto Croce. Tra i suoi libri più famosi: «Il marxismo ed Hegel», «Ideologia e società», «Il marxismo e il crollo del capitalismo», «Intervista politico-filosofica» e «Tramonto dell’ideologia». Nel 1995 aderì a Forza Italia. Fu eletto nelle liste del partito fondato da Berlusconi nel 1996, e rieletto alla Camera nelle elezioni del 2001. Lucio Colletti fu formato dall’incontro con Galvano La Volpe negli anni Cinquanta. Anche grazie al successo del suo saggio «Il marxismo ed Hegel» (1969) diventò il referente in occidente degli studi marxisti insieme e Althusser. Amato dai francesi e molto conosciuto negli Stati Uniti, fu anche famoso per una polemica sostenuta contro Marcuse e il movimento studentesco. Negli anni Settanta, in piena contestazione, Colletti chiese un incarico a Ginevra per sfuggire al clima di contestazione dell’università. Colletti è stato un insigne studioso di Engels e del marxismo. Riprendendo il pensiero di Galvano Della Volpe ha svolto una interpretazione dell’opera di Carlo Marx in una ottica sociologica, successivamente però abbandonata in favore di una interpretazione dialettica. Inizialmente per Colletti infatti Marx avrebbe elaborato una vera e propria sociologia della società borghese moderna senza elementi in comune, e quindi senza continuità , con la filosofia e la dialettica hegeliana. In seguito il filosofo romano corregge il suo punto di vista e con l’ opera del 1969 «Il marxismo ed Hegel» ribalta la sua visione del marxismo fino a dire che quest’ultimo è in continuità con la dialettica hegeliana e che la filosofia marxista non ha elementi in comune con le scienze empiriche, in una lettura dai forti richiami kantiani. Dal punto di vista strettamente filosofico il suo tentativo fu quello di conciliare in tutti i modi Marx e la scienza e anche per l’impossibilità di coniugare questi due termini si allontanò progressivamente dal marxismo. Con «Tramonto dell’ideologia?» pubblicato da Laterza nel 1980, prese commiato definitivamente da Marx. Editorialista del «Corriere della Sera» con articoli in cui si univano polemica e critica sociale e filosofica, si avvicinò sempre di più al pensiero liberale, anche per il suo disprezzo più volte rinnovato del modello politico del marxismo realizzato. Corteggiato politicamente prima da Pannella e poi da Craxi, che vedeva in lui un referente politico-filosofico staccato dall’ortodossia mar- xista, entrò in politica solo molto tardi, con Forza Italia. Spirito indipendente, Era diventato l’alfiere della pattuglia dei «professori azzurri», ed era anche l’unico tra loro ad essere tornato in Parlamento con FI, dopo ritiri e divorzi che avevano riguardato gli altri, non senza però un’autentica campagna di stampa a suo sostegno. Quello spiritaccio romanesco che era un po’ l’altra faccia del raffinato filosofo della politica, storico del marxismo, lo aveva portato spesso a rapporti tesi con FI, e con lo stesso Berlusconi, non di rado bersaglio delle sue ironie. Un carattere che del resto lo aveva portato a rompere, molti anni prima, con il Pci per riprendere l’impegno politico più tardi proprio con il partito che dell’anticomunismo ha fatto una bandiera. Lucio Colletti si può definire un «anti intellettuale organico», il suo atteggiamento filosofico perchè «non fu mai prono, servile. Non ha mai fatto il contro-canto al potere», dice Angelo Bolaffi, docente di filosofia, per anni assistente di Colletti all’Università quando teneva le lezioni sul marxismo, illuminismo e in generale la filosofia tedesca dell’800. Bolaffi non condivise la scelta di Colletti di rompere con il marxismo ma, ci tiene a sottolineare che Colletti «non si può dire che sia mai stato organico alla sinistra come non si può dire che ora era organico alla destra». Secondo Bolaffi «è sempre stato spirito libero e critico». r. c. "
    (dal GIORNALE DI BRESCIA del 04/11/2001).

    Senescentemente

  3. #3
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    dal sito di IDEAZIONE l'introduzione di Lucio Colletti alla sua opera "FINE DELLA FILOSOFIA", l’ultimo libro scritto dall’intellettuale, pubblicato con "Ideazione editrice" nel dicembre del 1996.



    " Fine della filosofia
    di Lucio Colletti


    Conoscenza e salvezza sono cose diversissime tra loro. C’è da dubitare che esista la salvezza. Ma, ove vi fosse, si sa già quale visione della realtà potrebbe garantircela. Rousseau distingueva tra “amour propre” e “amour de soi”. La salvezza, qualora si desse, verrebbe da quest’ultimo: cioè dal ritrovarsi ciascuno iscritto in un ordine, in un Cosmo, che, pur includendo l’intero universo, faccia dell’individuo un elemento indispensabile e necessario del Tutto che ci ingloba. La salvezza sarebbe appunto ciò: aver garantito il senso della propria vita, il significato dell’esistenza; sopravvivere in qualcosa che ci trascenda. Nell’Ottocento, il secolo della storia per eccellenza, uno dei modi in cui quel senso della vita si è incarnato fu il patriottismo, la coscienza profonda di appartenere alla Nazione, intesa come un’entità perenne, con un proprio “genio” e un suo “destino” peculiare. Assai prima, tuttavia - e in modo ben più radicale - la soluzione era stata la fede religiosa, la credenza (per noi occidentali) nel Dio cristiano: il Cristo, il Dio che si è fatto uomo. Ed è ovvio come il nazionalismo, la sopravvivenza nell’opera collettiva della storia, fosse già allora, rispetto alla religione, una soluzione di ripiego, un espediente “faute de mieux”.

    La salvezza, insomma, è l’antropocentrismo: una rappresentazione della realtà finalizzata alla nostra esistenza, cioè modellata in modo da poter corrispondere alle nostre esigenze di rassicurazione e di conferma. Altra cosa è, ovviamente, la conoscenza: non potendosi escludere affatto che il vero e il reale siano proprio ciò che meno ci aggrada. Da ricordare, a questo proposito, alcune pagine assai efficaci di Nietzsche, intonate al motivo che il primo contrassegno della verità sia proprio quello di deludere le nostre attese e di andar contro i nostri desideri. Insomma, una cosa è il “principio di realtà”, altra il “principio del piacere”. Originariamente la filosofia fu, per lo più, entrambe queste cose. Fu conoscenza e descrizione della realtà e, insieme, assicurazione di salvezza. Non a caso, fu metafisica, onto-teologia, cioè filosofia e religione al tempo stesso. I guai cominciarono con la nascita della scienza moderna, in quell’autentica selva di giganti, scienziati-filosofi, che fu il Seicento.

    Poiché ho impugnato il teleobiettivo, che com’è noto comprime le distanze, i colleghi professori vorranno perdonare la libertà di semplificazione che sto per prendermi. Il fatto è che, al prorompere delle scienze, la filosofia o metafisica si vide strappare una dopo l’altra tutte le sue regioni: prima la fisica e l’astronomia, poi la chimica e la biologia, infine la psicologia e ora, con le scienze cognitive, buona parte di tutto il resto. Il tema della fine della Filosofia si colloca su questo sfondo. “La filosofia nell’epoca presente è giunta alla fine”, rivela Heidegger nel 1964. E prima di lui, seppure in tutt’altri modi, analoga conclusione aveva tratto Wittgenstein, sia nel “Tractatus” sia nelle “Ricerche”. Quanto a me (che mi son formato su Marx), l’impossibilità della filosofia come un sapere autonomo mi era nota fin da giovane. Nelle prime pagine dell’Ideologia tedesca, Marx contesta ad Hegel che dell’Idea, cioè della Mente o dello Spirito, possa farsi un soggetto a sé stante. Dopodiché, aggiunge che, in tal modo, “la filosofia come sapere indipendente perde il suo medium di esistenza”.

    Almeno a partire dall’Ottocento, la non ingerenza della metafisica nelle scienze naturali e la sua influenza su di loro solo come conoscenza di sfondo furono un punto relativamente fermo, con l’eccezione della Germania dove fiorirono ancora le “filosofie della natura” di Schelling, di Hegel e di Franz von Baader. Un punto fermo però - insisto - solo relativamente, giacché il “vitalismo” trovò seguaci in biologia ancora fino a ieri. E basta leggere la monumentale Storia del pensiero biologico di Ernst Mayr per farsi un’idea delle insormontabili resistenze cui andò incontro il darwinismo. Tuttavia, diverso fu il caso quanto al resto. Sfrattata dalla natura e in piena decomposizione fin dal tempo di Kant per quel che concerne i suoi domini tradizionali (l’Anima, il Mondo, Dio), la metafisica reagì con quel che, nel primo saggio, ho chiamato una “sostituzione nel concetto di realtà”. Si tratta di un fenomeno singolare che segnalo all’attenzione degli studiosi nella speranza che qualcuno voglia rifletterci sopra. Il fenomeno si delineò subito dopo Kant, l’ultimo filosofo classico in sintonia con la rivoluzione scientifica. Ed ebbe il suo culmine in Hegel, Marx, Heidegger (per non parlare dell’Husserl della “Krisis”), vale a dire nei sistemi di pensiero che hanno dominato gran parte dell’Europa continentale dal secolo scorso fino a noi.

    Ciò che si verificò con queste filosofie (pur diverse, com’è ovvio, tra loro) è qualcosa che lascia tuttora strabiliati: e fu un’adulterazione profonda del concetto di realtà, a partire dall’identificazione di Realtà e Storia (umana), ovverosia di Essere e Tempo. Il risultato fu che non si trovò più ad esistere, prima, il mondo fisico-naturale, l’universo astronomico e in esso il sistema solare, con il pianeta Terra su cui, più tardi, dopo miliardi di anni, si sviluppa la vita biologica fino alla comparsa, attraverso una lunga evoluzione, dell’uomo e, con esso, anche della storia umana. Bensì si capovolgono i termini: la Realtà è solo la storia umano-divina, il corso nel tempo delle nostre vicende, che nel loro svolgersi si trovano orientate, a poco a poco, ad opera della Provvidenza divina o del cosiddetto “Senso della storia”, verso un Fine ultimo o un traguardo definitivo che rappresenta la salvezza. All’opposto, l’universo fisico, tutto ciò che costituisce il mondo pre-umano e di cui si occupano le scienze della natura, o viene risolutamente escluso, oppure viene, sì, tirato dentro ma solo come un “momento” irreale o apparente (la Natura, ad esempio, come alienazione dell’Idea in Hegel).

    Condensando al massimo, si può dir questo. La vecchia metafisica univa le due funzioni, di essere “conoscenza” oltre che “dottrina di salvezza”, all’interno di una visione del mondo teo- e antropo-centrica (si pensi, per esempio, al cosmo aristotelico-cristiano nel Medioevo). Ora, l’Irruzione della scienza moderna sovverte questo quadro in modo radicale. Prima, la rivoluzione astronomica dilata il vecchio cosmo in un universo infinito, dove non ha più senso la centralità della Terra e, a maggior ragione, quella dell’uomo. Poi, l’eliminazione della “condizione speciale” dell’uomo si radicalizza con la rivoluzione darwiniana. E’ palesemente, la disgregazione di tutti i vecchi valori. Il Cielo si vuota. E, per riprendere la celebre espressione di Glbert Ryle, sparisce anche lo “spettro nella macchina”, cioè l’anima. Dinanzi a ciò, la metafisica tenta di far argine alle scienze e di recuperare la vecchia centralità del Dio-uomo, operando sul concetto di “realtà”. Reale è la Storia umana, la quale non solo si trova a rimuovere e sospingere da parte, nella considerazione filosofica, l’universo fisico-naturale, ma lo soppianta e gli si sostituisce, avocando esclusivamente a sé il ruolo e il significato di ciò che è Reale. La metafisica, insomma, riprende nuova vita facendosi filosofia della storia, cioè trasferendo l’assoluto nel tempo, ovvero mutandolo nel traguardo e nel Fine ultimo verso cui tende il corso storico, in quanto corso “concepito a disegno”. Poiché è la scienza che ha tagliato l’erba sotto i piedi dei “vecchi valori”, è ad essa (e alla tecnologia) che viene imputato il nichilismo, la desertificazione del “senso della vita” , così efficacemente descritta da Arthur Koestler nelle pagine conclusive dei “Sonnambuli”, il suo grande libro dedicato alla “storia delle concezioni dell’universo” (e non sarò, certo, io a negare che la collocazione moderna dell’uomo nel mondo risulti non solo radicalmente scossa, ma assai difficile da gestire anche sul piano personale). E tuttavia - sebbene qui si colga la necessità di un ripensamento della nuova situazione ab imis - si deve riluttare all’idea di far responsabile del nichilismo la scienza, la quale non solo è la più grande avventura del pensiero ma è il solo modo di prendere - tentativamente - atto della realtà.

    Sull’altro versante, invece, quello della “filosofia della storia”, il XX secolo ci ha ammaestrato a sufficienza su cosa si debba pensare delle metafisiche della temporalità, cioè delle filosofie che trasferiscono l’assoluto (o la salvezza) in politica. Quanto al marxismo, è già stato detto tutto ed è inutile ripetersi. Il “comunismo dell’avvenire”, la società tutta armonica e senza più contrasti (infelicità, eccetera), abitata dall’“uomo nuovo”, in cui doveva sboccare, secondo Marx, il lungo travaglio della storia, è palesemente una replica della Gerusalemme celeste, portata in terra. E sappiamo bene quanto questa speranza visionaria sia costata. Quanto ad Heidegger, invece, è da ribadire (e lo si può fare coi testi alla mano) che la sua denuncia della “rivoluzione scientifica” come nichilismo ha dato forma (negli anni Trenta) a una vera e propria “filosofia della rivoluzione”, che si è proposta come la coscienza più radicale e profonda del nazionalsocialismo. Un altro esperimento, il cui prezzo di sangue è ben noto.

    Questo libro è una raccolta di saggi e articoli, concepiti e scritti in occasioni diverse. Inutile, quindi, cercarvi un’unità “in re”. Ciò non vuol dire, tuttavia, che esso non rechi i segni di un’unità “in mente”. Dalla filosofia alla politica, il discorso vi si snoda con una linearità che, se non mi inganno, il lettore non farà fatica a percepire. E si tratta di un modo di vedere le cose che dà palese espressione al punto di vista di uno scetticismo moderato, cioè di un uso fallibilistico della ragione, come, grasso modo, penso che accada nelle scienze, dove la “ricerca non ha fine” proprio perché, in un certo senso, non centra mai il bersaglio. Ciò risulta, in modo evidente, anche nella trattazione del liberalismo e del liberismo, dove non si contrabbandano certezze assolute né risplende una luce che abbagli. Ma tutto è prospettato nel modo con cui l’autore vive la sua quotidianità nel declinare della propria esistenza: cioè addentrandosi a lume di candela nel buio.



    Lucio Colletti, "Fine della filosofia e altri saggi", Ideazione editrice, 1996, pp. 156, lire 18.000
    "


    Senescentemente

  4. #4
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    Ieri era il terzo anniversario della morte di Lucio Colletti.

    Ciao Lucio!

 

 

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