Nel più grande mercato emergente del mondo perfino Mauritius ci ha battuto per il volume degli investimenti
Cina, nella grande corsa agli affari l’Italia resta la bella addormentata
Sempre più attivi gli altri Paesi, soprattutto europei. La nostra presenza reale è minima
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PECHINO - C'è modo e modo di credere alla Cina e alle opportunità che il suo mercato offre ormai da un decennio. E c'è modo e modo di credere alla Cina come a un soggetto protagonista delle relazioni internazionali e non più condannato all'isolamento da un’intransigente opposizione ideologica. L'Italia, l'Italia di chi dovrebbe coordinare le strategie di sviluppo politico e industriale, sembra avere scelto di non credere alla Cina o di crederci poco. O di credere alla Cina come a una Chinatown misera e non come a una potenza che sta spettacolarmente abbandonando la strada della povertà. Tendenza paradossale in una economia globalizzata, eppure è così. Ne è un significativo segnale la resa della nostra compagnia di bandiera che da tempo continua a regalare la rotta ai concorrenti. E' possibile credere in un mercato emergente se gli operatori economici italiani diretti a Pechino o a Shanghai (qui i voli riprenderanno forse nel 2005) o a Nanchino devono viaggiare su vettori olandesi, inglesi, francesi o tedeschi? L'Italia ha, sì, aumentato gli investimenti diretti (diciottesimo posto nella classifica) ma la parte che si è ritagliata è dello 0,32% (nel 2003) su una torta da oltre 50 miliardi di dollari (saranno 60 alla fine del 2004). Persino dietro a Mauritius. Operano in Cina circa 500 aziende italiane però (fonte Istituto per il Commercio Estero) si tratta per lo più di uffici di rappresentanza «per presidiare il mercato». L'immagine del nostro Paese è affidata al nome della Ferrari per il quale non c'è bisogno di promozione, al fascino dell'alta moda (Armani e Ferragamo), ai marchi del lusso (Zegna ha aperto il quarantanovesimo punto vendita in Cina dove fattura circa 20 milioni di dollari, sono arrivate le scarpe Tod's), ai bei nomi degli elettrodomestici ma sono assenti le piccole e medie imprese che faticano a muoversi e si sentono disorientate nella ricerca di quelle risposte concrete (come investire, come trattare, come interpretare le nuove leggi, come decidere se produrre in luogo o stringere una partnership) necessarie per costruire un ponte con la Cina.
Un po' per un nostro colpevole e decennale ritardo politico, un po' per un sistema che anziché semplificare ha moltiplicato i centri decisionali e di programmazione spesso mettendoli in competizione fra loro, un po' per la incapacità di promuovere il made in Italy in questa parte d'Asia e un po' per quel provincialismo culturale che ha alimentato paura oltre l'esagerato (paura di un Paese del quale non si intende cogliere il pragmatismo che lo sta portando a disegnare un nuovo codice civile con il riconoscimento storico che avverrà a marzo del diritto di proprietà privata), il risultato è che mentre una parte dell'Europa (Germania, Francia, Olanda, Inghilterra), la Russia, il Giappone, per non parlare degli Stati Uniti, stanno allargando i loro orizzonti industriali e commerciali in Cina l'Italia invece brilla per l'incapacità di guadagnarsi una fetta di quello spazio che la Cina sta concedendo ai capitali dell'Occidente.
In compenso di italiano sbarcano in Cina delegazioni - di ogni colorazione partitica e geografica - provinciali, regionali, parlamentari, ministeriali che si distinguono per la loro affannosa corsa all'autopromozione (se non al viaggetto premio). Ognuna naturalmente porta acqua al proprio mulino nella assoluta consapevole ignoranza di ciò che compie l'altra. Si va avanti ma in ordine sparso.
Un'armata Brancaleone. Manca una visione dell'interesse generale, manca un sentimento in grado di imporre l'immagine dell'Italia come Paese anziché come somma di campanili, manca una politica di coordinamento che sappia incentivare l'analisi di questo gigante, sappia poi offrirgli in modo selettivo qualità e conoscenze, sappia infine catturare le opportunità di investimento che ancora ci sono nella meccanica e nella automazione, nel settore alimentare, nell’organizzazione del turismo (nel 2003 ben 22 milioni di cinesi sono partiti per vacanze all'estero, un incremento di quasi il 50%), nella grande distribuzione, adesso persino nell'oro e nella gioielleria (la Cina è il quarto produttore di oro e il terzo consumatore). Senza dimenticare le grandi opere autostradali (55 mila chilometri entro dieci anni) e portuali. Fino a quando ci autoescluderemo dai circuiti dello sviluppo cinese? L'economia dell'Impero Celeste non ha dato alcun segnale di sbandamento.
Anzi. Per il prossimo anno (ultima proiezione del 22 ottobre) è prevista dal centro statistico dello Stato una crescita del prodotto nazionale lordo dell'8%, un po' meno di quest'anno (l'incremento è stato da gennaio a settembre del 9,5%, del 9,1 considerando solo l'ultimo trimestre). Un raffreddamento più dovuto alla necessità di controllare la fase di espansione che non a cedimenti strutturali. Le spese per i beni di prima necessità e per il lusso si mantengono alte (più 9,6% nel 2004, con punte decisamente a due cifre nella telefonia e in Internet), la produzione vola. Non mancano le preoccupazioni specie per quanto riguarda la domanda energetica (la differenza fra consumi e produzione interna triplicherà nei prossimi due anni) ma il quadro resta favorevole. Secondo i ricercatori di Interchina Consulting la Cina già è la sesta potenza economica.
Eppure, nonostante gli indicatori siano di segno positivo, l'Italia è come una bella addormentata che assiste passiva a una scena nella quale lo sviluppo esce dalla dimensione di concetto vago per assumere la forma di un cambiamento reale ogni giorno che passa. Economia e politica marciano naturalmente assieme. E' la politica che deve costruire le basi di un solido rapporto di cooperazione. La Francia ha confermato la sua presenza strategica in Cina con la visita di Chirac, di quattro ministri accompagnati dai maggiori gruppi industriali del Paese (interessati alla realizzazione di 22 mila chilometri di rete ferroviaria, allo sviluppo del mercato automobilistico che vede la Cina al terzo posto della graduatoria mondiale e a 32 reattori nucleari). La Germania è già leader europeo in Cina dove riesce a coordinare le sue attività attraverso un unico centro servizi a disposizione delle aziende. L'Olanda ha una visibilità che è inversamente proporzionale alle sue dimensioni. La Russia si è mossa con Putin (il primo viaggio dopo la rielezione), ha risolto la disputa su 4300 chilometri di confine, ha accolto l'intenzione di Pechino di investire 12 miliardi di dollari nell'ex impero sovietico e ha impostato un discorso sulle forniture di gas naturale.
In questo scorcio d'autunno la Cina è stata protagonista di una intensa attività di relazione sia diplomatico-politica sia diplomatico-economica. E l'Italia? Partirà presto, forse in dicembre, il presidente Ciampi. Al quale toccherà un compito difficile: convincere i cinesi che l'Armata Brancaleone ha deciso di credere nella Cina. E che da lì in avanti si proverà a fare sul serio. Sarà l'ultima chiamata.
Fabio Cavalera
dal "Corriere della Sera"