Ottima e profonda analisi.

Da La Stampa

L'ideologia della paura

Di Barbara Spinelli
31 ottobre 2004

Nonè la prima volta che Bin Laden si insinua nelle campagne elettorali delle democrazie - è già accaduto in Spagna - e sempre dà l'impressione di conoscere bene i popoli cui si rivolge, sia quando agisce attraverso le stragi sia quando parla alle opinioni pubbliche nelle vesti di guru sicuro di sé, com'è avvenuto ieri con il video-comizio destinato all'elettorato americano a tre giorni dalle presidenziali. Bin Laden appare regale nei suoi abiti bianco-dorati, autentico comandante supremo di una fantomatica armata nemica. Non è vestito da combattente, perché il capo supremo è guida politica d'un popolo o di un insieme di popoli, prima che tecnico dell'arte bellica. Egli sembra sapere che qui è il vero senso della campagna elettorale che si sta concludendo negli Stati Uniti: nella figura del responsabile politico che tende sempre più a militarizzarsi, a governare il proprio Paese con la paura, a mettere la forza al centro delle proprie preoccupazioni e dei propri programmi.

Tale è stata la campagna americana, fino all'ultimo istante: una battaglia per scegliere non già un Presidente, ma un commander in chief, un comandante in capo. Il carisma del candidato non viene da un programma complesso, tipico d'un Paese che vive tempi di pace: il carisma s'è fatto militare, perché il Paese si sente in guerra, perché dai governanti è invitato a sentirsi tale, e perché l'integralismo cristiano Usa s'alimenta di messianesimo bellico. Di qui il peculiare linguaggio di Bush: un concentrato di frasi semplificate, brevi, ossessivamente monocordi, ripetute a scatti. Sono frasi militaresche, non molto diverse dai proclami di Bin Laden. Dopo il voto sapremo quel che gli elettori hanno voluto realmente ottenere: se un capo militare o un capo politico, deciso a non usare le guerre come arma di propaganda e di definizione degli obiettivi nazionali.

Per questo tanti guardano al 2 novembre. Non tanto per sapere cosa le amministrazioni faranno nel mondo o in Iraq (sia Bush che Kerry son costretti a finire questa guerra, perché ritirarsi subito vuol dire perdere la faccia) ma per conoscere quel che è l'America, quel che è diventata o che sarà, come luogo dove la democrazia è stata lesa e forse sfigurata, a seguito della guerra prima terrorista poi antiterroristica. Il destino della democrazia americana, le passioni profonde che la agitano da quando nel cuore di Manhattan è stata colpita dal terrorismo, concerne tutte le democrazie mettendole tutte alla prova: così grande è l'influenza della cultura americana sul resto dell'Occidente, sui sentimenti della gente, sulle tecniche di potere che stanno mutando forma di fronte al pericolo terroristico, deteriorandosi o affinandosi a seconda dei casi. L’ultimo atto terrorista di Bin Laden - il video di ieri - non semina morti ma un disorientamento che rende specialmente arduo questo tentativo di conoscere l'America. Non impedisce la critica ma l'intorbida: il video rende inutilizzabili non pochi argomenti contro Bush, visto che anche Bin Laden li utilizza. Intimidisce con una violenza che agisce sul linguaggio e la mente, più che sui corpi. Son contaminate le parole, come da polvere subdola che s'infiltra nei più nascosti interstizi del linguaggio: difficile denunciare il rattrappirsi della democrazia Usa, invocare un'altra strategia dell'amministrazione, biasimare l'uso che Bush fa della paura e del terrorismo, quando Bin Laden si lancia in analoghe denunce. Ma l'autocensura democratica non è la risposta alla sua provocazione.

Preservare le democrazie a dispetto della minaccia che incombe su di esse è un obiettivo che Bin Laden può certo manipolare, ma che non può essere per questo abbandonato. Si vedrà la settimana prossima se gli elettori manterranno il giudizio favorevole o negativo su Bush, nonostante quel che Bin Laden dice sulle derive autoritarie («simili a quelle degli Stati del Golfo») di Washington.

Cercare di capire che sorta di luogo è diventata l'America, e come essa si rivela in queste elezioni, significa porsi una questione essenziale, dopo tre anni di guerre anti-terrore: significa, più precisamente, interrogarsi sul posto che hanno la paura e la politica che si nutre di paura, nella società Usa ma di riflesso anche nelle nostre. Non tutta l'Europa è fotocopia dell'America, ma quel che accade lì avrà indubitabili effetti su quel che succede qui. In alcuni casi è addirittura l'Europa che ha indicato a Washington la direzione.
La bellicosità e la militanza senza remore di una catena neoconservatrice come Fox-News hanno i loro precursori nelle televisioni di Mediaset; e la preminenza ipertrofica data alla sicurezza del collettivo (il «sistema paese») sulle libertà di giudizio e di movimento dell'individuo ha il suo precursore nell'Inghilterra della Thatcher, di Major e di Blair.

Il posto che ha la paura nei calcoli dei politici e nella vita dei cittadini democratici è il segno più importante dei tempi presenti. È un posto che già s'era fatto preponderante prima dell'11 settembre, e che non nasce solo col terrorismo: nasce anche dalla globalizzazione, dall'esclusione sociale, dall'ecologia, dall'Aids, dalla crisi d'uno Stato assistenziale non più equipaggiato per prevenire il crimine. Ma l'11 settembre ha enormemente dilatato le paure. Bush e Cheney hanno capitalizzato questo dilatamento, facendo della guerra un formidabile strumento d'affermazione del potere e di auto-legittimazione. La campagna elettorale ha confermato simili strategie (esportare non tanto la democrazia, quanto la paura) e non è casuale l'appello lanciato da Clinton: «Se un candidato cerca di spaventarvi, mentre l'altro cerca di farvi pensare; se uno si appella alle vostre paure, mentre l'altro alle vostre speranze, penso che dovreste votare per chi vi incita a pensare e sperare».

D'un tratto, negli ultimi tre anni, l'antica dialettica tra libertà individuale e protezione del collettivo e del corpo sociale in quanto tale - la dialettica che induceva i sistemi totalitari a dar preminenza al collettivo, e le democrazie a privilegiare l'individuo libero - si è risolta in una predominanza, anche in democrazia, di tutto ciò che è collettivo, nella sicurezza della società come un tutto omogeneo, nel primato del pronome «Noi» sul pronome «Io». Le teologie politiche fondate sulla speranza son state sconfitte, nel secolo scorso. La teologia della paura sembra in questo secolo rimpiazzarle, favorita da forme nichiliste di terrore e anti-terrore. È una novità per le democrazie, che le altera e le scredita.

Sulla diffusione della cultura e della politica della paura si è discusso molto in questi anni e nella campagna elettorale, in America e Inghilterra. La Bbc ha dedicato al fenomeno una serie di emissioni, a cominciare dal 20 ottobre, intitolata «Il potere degli incubi - L'avvento della politica della paura». La tesi è che le paure più disparate, a cominciare dallo stato d'ansia diffuso capillarmente a seguito di attacchi terroristi, sono in gran parte «una fantasia che è stata esagerata e distorta dai politici. È un'illusione oscura che è stata propagata dai governi di tutto il mondo senza esser confutata, e senza che giornali e Tv opponessero davvero resistenza».
La conclusione del programma Bbc è: «In un'epoca in cui tutte le grandi idee hanno perso credibilità, la paura d'un fantomatico nemico è tutto quel che resta ai politici, per mantenere il potere». La paura è la loro nuova ideologia, non meno impermeabile ai fatti e alle correzioni di rotta (nella politica Nord-Sud, in Medio Oriente) di quelle precedenti. Non potendo più proporre un mondo migliore, radicalmente alternativo, i politici edificano la propria potenza su un nemico di cui è ingigantita la straordinaria pericolosità, la misteriosa potenza, la compattezza organizzativa, la natura esclusivamente musulmana. È un nemico che l'amministrazione Bush, il governo Blair e la destra italiana equiparano spesso al nemico nazista, anche se tante caratteristiche del terrorismo globale hanno poco a che vedere con Hitler: il terrorismo non ha territorio, non s'identifica con Stati forti bensì con il tracollo d'ogni struttura statale. Infine non ha armate centralizzate, strutture mondialmente unificate. Non per ultimo: la guerra antiterrorismo è virtualmente infinita, mentre quella contro Hitler finiva con l'eliminazione del dittatore.

Naturalmente sono i terroristi che hanno cominciato a seminare paura e a farne la nuova temibile molla delle democrazie. Ma l'amministrazione Bush ha aggiunto del suo, a questo esordio: ha gonfiato le ragioni della paura, usandola a fini politici ed elettorali. Ha tenuto costantemente in stato d'allerta la popolazione, esagerando spesso ad arte l'emergenza-terrore. Ha esasperato i cittadini, facendo capire che votare per l'uno o l'altro candidato sarebbe sfociato in più o meno sanguinarie catastrofi. Kerry stesso è caduto nella trappola: nel rispondere alle provocazioni di Cheney, ha sostenuto che una vittoria di Bush produrrebbe disastri terroristico-nucleari.

Ma non è solo la Bbc a puntare il dito sul fenomeno della paura come arma politico-ideologica. Il sociologo Usa Richard Sennett (autore d'un saggio che gli italiani conoscono: L'uomo flessibile - Conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli 2000) ha scritto recentemente sull'«età dell'ansia» che regna oggi nelle democrazie. Un'età che ha spinto le élite americane a restringere drasticamente le libertà individuali e a disconoscere qualsiasi obbligo legale internazionale, dando in cambio quella che è una sicurezza solo presunta. Il Patriot Act, soprattutto nella seconda versione del febbraio 2003, toglie la cittadinanza a qualsiasi cittadino sospettato non solo di sabotaggio della lotta antiterroristica, «ma anche della politica estera e degli interessi economici americani». Secondo Sennett, le classi povere ed emarginate sono particolarmente corteggiate da neoconservatori e uomini di Bush, perché il fondamentalismo cristiano di quest'ultimo dà loro un capro espiatorio (gli omosessuali, i matrimoni gay, l'aborto, gli immigranti soprattutto musulmani): tutti temi di società che «non c'entrano con l'emarginazione sociale ma che servono a spostare i mali dell'economia verso la cultura» (The Guardian, 23-10-04).

Non meno esplicito e inquietante è il saggio dello studioso di diritto Jeffrey Rosen, (The Naked Crowd - La folla nuda: come ottenere sicurezza e libertà in un'età dell'ansia, Random House, 2004)).
Un libro che interesserebbe molto l'Italia dove esiste, ormai da tempo, il male descritto da Rosen: l'esistenza di media e emissioni Tv che incitano l'individuo a denudarsi (Grande Fratello, Isola dei famosi); che tramite tale denudamento punta all'avvento di una società terapeutica; che «interpreta tutto quel che accade nel mondo in termini solo personali»: denudandosi e accettando l'intrusione del pubblico della sfera individuale, la folla nuda sacrifica la propria privacy oltre che la libertà personale, pur di ottenere collettivamente sicurezza, diminuzione di rischi, e quell'apparente controsenso che Rosen chiama intimità pubblica. Inoltre, sprona i politici alla semplificazione, al depauperamento del linguaggio. Davanti a chi ha paura, bastano poche parole martellate di continuo (è la tecnica di Bush, è l'insistenza di Berlusconi sulle tasse) per catturare i cervelli.

Così per la guerra, che secondo il bel libro di Chris Hedges, inviato di guerra del New York Times e professore alla New York University, diventa malsana e primitiva danza con la morte, apocalittica fede nella possibilità - è la promessa di Bush - di «estirpare definitivamente il male» (Chris Hedges, Il Fascino Oscuro della Guerra, Laterza 2004).
Le nostre società democratiche sono a un bivio, come conferma il significato mondiale del 2 novembre. Il Noi sta sostituendo ancora una volta l'Io responsabile e solitario, e questo vuol dire che le democrazie - spinte dal terrorismo - hanno assorbito ideologie collettiviste ieri esecrate. False alleanze rischiano d'esser riproposte, fra individui, società e idee astratte (in passato la nazione o la classe, oggi soluzioni palingenetiche come guerra e nazione).
E intanto assistiamo al più paradossale degli eventi: un'America inconfutabile superpotenza, ma che perde centralità e forza d'attrazione mondiale.
Un sostanziale declino della sua forza globale, accelerato da una classe politica eccezionalmente mediocre e da mosse che evocano l'avventura di Suez, che nel '56 sancì il declino dei Paesi guida in Europa. Una potenza che riempie solo con la forza il vuoto di potere e l'assenza di centro che caratterizza l'età dell'ansia. Una potenza (è Tony Judt a constatarlo in un articolo sull'impero Usa, nel New York Review of Books), che «è capace di impressionare il mondo, sì»: ma con il risultato che «pochi, in verità, hanno oggi veramente soggezione dell'America». È quel che Bin Laden sembra aver capito così bene, nel suo appello all'America.