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Risultati da 1 a 10 di 10

Discussione: Perchè ha vinto....

  1. #1
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    Predefinito Perchè ha vinto....

    ...George W. Bush

    Avviso ai lettori

    Questo giornale chiude bottega alle otto di sera. Essendo berlusconiano, così si dice, è anche povero e non può permettersi
    di fare le ore piccole. Deve risparmiare sulle tipografie.
    Ma è anche un giornale previdente.
    Se la notizia non ce l’ha, si dà da fare.
    E’ stato il caso quando Massimo D’Alema tolse a Romano Prodi la sedia di sotto il suo famoso culo, nel ‘98.
    I lettori del Foglio lo seppero parecchie settimane prima dell’evento.
    Per il giornale di oggi avevamo un’alternativa semplice, visto che alle otto di sera di ieri gli americani stavano ancora votando e nessuno poteva darci la notizia su chi sarà presidente degli Stati
    Uniti: dare ai lettori un giornale bollito, inutile, senza il fatto più importante del nostro tempo, oppure un battagliero anticipo
    di una notizia che, secondo noi, è certa, cioè la vittoria di Bush. Non siamo stati lì a traccheggiare, ed ecco spiegata questa prima
    pagina al buio, nella speranza che faccia luce.
    E’ un regalo ai nostri amati foglianti, perché mentre leggono queste righe sanno chi è il nuovo presidente e possono
    divertirsi della nostra audacia.
    Se è Bush, come recita il nostro titolo e l’insieme del giornale, tutto bene benissimo, come diceva Tino Scotti.
    Se è Kerry, il regalo è doppio perché oggi pernacchie, e domani si divertiranno a vedere come elaboriamo il lutto.

    Giuliano Ferrara su Il Foglio di ieri, 3 ottobre 2004

    sghignazzando saluti

  2. #2
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    Predefinito Segreti e....

    ….bugie

    I segreti che hanno dato la vittoria a George Bush sono tanti: il carattere semplice, quell’aria da uomo comune con la sua famiglia e il suo dio, roba che non si può fingere o improvvisare, e poi la risposta ruvida e ambiziosa all’11 settembre con il progetto di combattere il terrorismo jihadista con la democrazia issata sulle baionette, il taglio delle tasse che ha portato a una crescita americana inferiore soltanto a quella cinese, una squadra di ferro che compensa con il suo professionismo machiavellico l’irruenza e istintualità del leader, il rapporto saldo con il suo partito o meglio con la sua coalizione elettorale, soprattutto il senso della sfida e del dovere patriottico e internazionalista, insomma un’idea chiara del ruolo dell’America nel mondo.
    Bush ha anche saputo essere autoironico, parla volentieri delle sue litigate con la lingua inglese, e il suo spirito compassionevole non è una mistificazione, visto che il taglio delle tasse ai ricchi, rimproveratogli come segno di vicinanza al big business, è servito a rilanciare l’economia dei piccoli e i programmi scolastici e sanitari si sono concentrati sull’incremento dello standard di resa nella scuola, un drammatico problema americano, e su un aiuto consistente ai più deboli nel campo della salute (è un dogma Usa, sempre contraddetto solo a parole da tutti i presidenti di ogni coloritura: l’uomo adulto con un reddito i costi della salute se li deve pagare attraverso il frutto del suo lavoro e i contributi delle corporation).
    Il segreto dei segreti è che Bush è stato ed è l’uomo di un’epopea politica senza confini, colui che di fronte allo scandalo dell’11 settembre ha dato un feroce colpo di spugna su un passato di compromissione e di inerzia di fronte al fenomeno terrorista, ha proclamato che la festa era è finita e stavolta bisognava farcela.
    L’elettore americano non poteva non restare impressionato dalle difficoltà di una guerra che è solo agli inizi, e gli errori di Bush e della sua amministrazione, che non sono mancati ma sono l’opposto di quel che gli si rimprovera, nascono da un eccesso di fiducia negli altri e non dalla volontà di annientamento del nemico, lo hanno messo in imbarazzo; ma il carattere dell’uomo, reso chiaro in una forte e combattiva campagna elettorale senza esclusione di colpi, si è accompagnato ai fatti, che nutrono l’immagine e le danno sostanza.
    In Afghanistan tre anni dopo si è votato, rompendo una tradizione tribale millenaria, e la battaglia perché voti anche l’Iraq insanguinato è in corso un anno e mezzo dopo la presa di Baghdad e la cacciata di Saddam Hussein.
    Sono due guerre che fanno marciare un’idea nuova di mondo contro l’oscurantismo islamista, sono due grandi fatti che riaprono il XXI secolo dopo la ferita non cicatrizzata delle Twin Towers e dell’intifada del terrorismo suicida e di Madrid e di Beslan, sono due segni di speranza laica così grandi che per non vederli bisogna essere accecati dalla paura, precisamente la situazione in cui si trova tutto il fronte antiBush e antiamericano, ora perdente, che nega la realtà per paura della realtà.
    Il candidato chic
    La vittoria di Bush è ovviamente anche la sconfitta di John Kerry: persona di valore e molto chic, ma il classico uomo sbagliato nel momento sbagliato. Per quanti sforzi abbia fatto, francamente eccessivi, per presentarsi nella sua veste di eroe di guerra, di un’altra e lontana guerra, Kerry è un senatore.
    E’ un uomo intelligente e capace, se fosse stato eletto avrebbe guidato l’America in modo molto diverso da come ha fatto e farà Bush nei prossimi quattro anni, ma non sulla sostanza delle cose. Ciò che lo ha sconfitto è non la mancanza di grinta ma una certa estraneità all’America com’è e come vuol essere da tre decenni a questa parte.
    Anche l’America di Bill Clinton, durante il cui mandato i repubblicani presero la maggioranza sia alla Camera sia al Senato, era l’involucro retorico progressista di un contenuto sostanzialmente conservatore, dove per conservatore si deve intendere non la pigrizia e l’ozioso tradizionalismo senza contenuto, ma il rilancio della vera identità profonda di quel paese individualista e comunitarista insieme, fiero e avventuroso e goloso di futuro ma attaccato a tradizioni di libertà dallo Stato e di intrapresa e insieme di obbedienza creaturale a un destino secolarizzato, ma che prevede l’esistenza di dio.
    La personalità del senatore Kerry non poteva chimicamente reagire con successo a questo impasto di sentimenti e di ragioni, la sua religiosità come la sua presunta grinta eroica sono risultate phony, farlocche, alla maggioranza degli americani, che sanno quando c’è e quando non c’è un’alternativa.
    Tutto questo se ha vinto Bush, come crediamo, sennò, abbiate pazienza, ne parliamo domani.

    Ferrara su Il Foglio del 3 ottobre

    saluti

  3. #3
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    Predefinito Sondaggi in....

    …lutto

    Roma. C’è la tentazione di dire che ultimamente i sondaggi, che tra Kerry e Bush avevano pronosticato un quasi pareggio, sbaglino un po’ troppo, ma la verità è che la tecnica stessa del sondaggio elettorale moderno nasce da uno sbaglio.
    All’alba di tutti i sondaggi c’è infatti la rivista Literary Digest che, a partire dal 1920, iniziò a prevedere i risultati delle presidenziali americane con un sistema di cartoline: ne spediva una decina di milioni a cittadini presi a caso, con un facsimile della scheda; ne otteneva indietro compilati un paio di milioni; e su questi dati dava il pronostico. E così azzeccò il risultato nel 1920 con il repubblicano Warren Harding, nel 1924 con il repubblicano Calvin Coolidge, nel 1928 con il repubblicano Herbert Hoover, nel 1932 con il democratico Franklin Delano Roosevelt.
    Ma nel 1936 l’ingranaggio si ruppe: previde infatti il 57 per cento a favore del repubblicano Alfred London, quando in realtà Roosevelt fu riconfermato a valanga dal 60,8 per cento dei votanti.
    Che cosa era successo? Il Literary Digest aveva preso i nominativi degli elettori cui inviare la cartolina dagli elenchi dei proprietari di auto e degli abbonati al telefono.
    Ma in un paese ancora convalescente dopo la Grande Depressione tali possidenti coincidevano con un universo statistico di appartenenti a un ceto medio-alto, preoccupati per le politiche stataliste del presidente uscente, che invece erano viste come la salvezza da una massa di disastrati che il crack del ’29 aveva lasciato senza auto e senza telefoni.
    Un giornalista appassionato di statistica, invece, con soltanto 3.000 schede sondaggio inviate e 1.500 risposte riuscì a indovinare il giusto risultato con un’approssimazione dell’1 per cento, proprio perché aveva scelto un campione le cui caratteristiche erano rappresentative dell’intero elettorato. I
    ll suo nome era George Gallup e da allora le proiezioni Gallup divennero nel mondo dei sondaggi ciò che la Rolls-Royce era in quello delle auto, o la Coca Cola in quello dei soft drink.
    Lo screditato Literary Digest, invece, fu costretto a chiudere. Malgrado ciò, 12 anni dopo, anche Gallup si sarebbe reso corresponsabile di una topica memorabile, assieme ai suoi due illustri colleghi, Roper e Crossley. Tutti e tre, infatti, si dissero così sicuri che alle presidenziali del 1948 il repubblicano Thomas Dewey avrebbe prevalso sul presidente uscente Harry Truman, che un mese prima del voto smisero di fare sondaggi, ritenendoli inutili. “In base all’evidente plausibilità del quinto sondaggio preelettorale effettuato dal signor Roper degli ultimi mesi e ai risultati forniti, Fortune e il signor Roper non ritengono di condurre ulteriori indagini sul cambiamento di opinione dei cittadini nella prossima campagna per le elezioni presidenziali”, scrisse infatti nell’ottobre 1948 la rivista Fortune, e la sera stessa delle elezioni i giornali in blocco titolarono: “Dewey sconfigge Truman!”.
    Invece il venditore di cravatte del Missouri, arrivato alla Casa Bianca da vice soltanto per la morte di Franklin Delano Roosevelt di cui era stato il numero due, con il 49,6 per cento contro il 45,1 aveva battuto l’ex giudice antimafia, tanto popolare che nei fumetti della Disney era stato chiamato Dewey uno dei tre nipotini di Paperino, quello che in italiano è Quo.
    Lezione dopo l’infortunio: l’opinione dell’elettorato può sempre cambiare, fino all’ultimo minuto.

    Le statistiche rivoluzionate da al Qaida
    Naturalmente questo cambiamento all’ultimo minuto può essere aiutato da qualche evento traumatico: è quanto è accaduto in Spagna dopo lo scorso 11 marzo, quando con l’attentato di Madrid, al Qaida ha sottratto ai popolari di José María Aznar una vittoria che sembrava sicura.
    Altre volte è la natura del voto che rende i risultati poco decifrabili: clamorose furono le elezioni britanniche del 1992, quando gli exitpoll previdero un “hung Parliament”, un “Parlamento appeso”, senza nessun partito con maggioranza assoluta. Invece il conservatore John Major prese una comoda maggioranza di 336 seggi su 651, riprova della difficoltà del proiettare gli scarti in voti sul meccanismo dell’uninominale.
    Altre volte ancora sono gli elettori a mentire ai sondaggisti per paura, salvo poi comportarsi in ben altro modo nel buio dell’urna. Un esempio particolarmente indicativo fu il voto in Nicaragua del 1990, quando l’elettorato rovesciò a sorpresa una valanga di voti a favore di Violeta Chamorro, lasciando spiazzati i mass media che avevano già preparato ampi servizi sulla vittoria annunciata dei sandinisti.
    In Francia, alle presidenziali del 2002, le statistiche continuavano a dare per vincenti Jacques Chirac, al 20 per cento, e Lionel Jospin, intorno al 18-19. E’ finita con Jospin fuori, Jean-Marie Le Pen dentro, al secondo turno, contro Chirac.

    saluti

  4. #4
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    Predefinito L'aveva....

    ....previsto

    Ecco, è arrivato il grande giorno, quello in cui la campagna 2004 passa dal turno elettorale alla fase di scontro.
    Per diventare presidente, John Kerry deve conquistare 270 su 538 voti dei grandi elettori.
    Per George W. Bush, non è così semplice: deve conquistare un numero di voti tale da mettersi al sicuro contro eventuali attacchi legali.
    Per esempio, se Bush otterrà 270 voti, conquistando i quattro grandi collegi elettorali del New Hampshire con un margine minimo, i democratici intenteranno causa per capovolgere il verdetto.
    Se Bush otterrà 288 voti o un numero inferiore, i democratici agiranno per conquistare l’Ohio a favore di Kerry.
    Se i voti ottenuti saranno 295 o di meno, i democratici tenteranno di impadronirsi della Florida.
    In altri termini, Bush dovrà ottenere più di 300 voti per avere la possibilità d’evitare i rappresentanti legali del partito democratico.
    Penso che possa farcela.
    La scorsa settimana, sullo Spectator, ho preannunciato che il presidente avrebbe conquistato 315 voti dei grandi elettori e resto di quest’idea.
    Tuttavia, anche se i voti saranno 315, la fazione di Kerry potrebbe ritenere che valga la pena di contestare Ohio e Florida. Una volta accettata la possibilità di agire legalmente per conquistare uno Stato, come nel 2000, procedere per due Stati non rappresenta una grande differenza.
    Si presume che questa sarà l’elezione dell’11 settembre.
    In realtà, su un lato dello spartiacque vi è ben poco interesse per la guerra contro il terrorismo e l’Iraq, al di là degli slogan formali. Girando per il New Hampshire in questi ultimi giorni, ho notato un unico segno a dimostrazione del fatto che i democratici stiano anche solo pensando all’argomento: nel cortile di una sostenitrice del duo Kerry/Edwards, sulla Route 10, poco a nord di Hanover, era esposto un cartellone con la scritta
    “Sostenete i nostri soldati. Portateli a casa”.
    Lo dica ai marine, signora.
    Portateli a casa, screditati e sconfitti, affinché stiano sicuri nelle loro caserme e si sentano dire: “Non preoccupatevi, d’ora in poi potete essere proprio come i canadesi e gli europei, sicuri a casa vostra, fatta eccezione per sporadici incarichi di benevola vigilanza internazionale su una stasi etnica imposta dall’Onu ininterrottamente per decenni” (…).

    No, per molte di queste persone la grande data non è l’11 settembre, ma il 7 novembre 2000, giorno in cui ad Al Gore è stata “rubata” la vittoria elettorale.
    Chi ha visto Fahrenheit 9/11 sa che il film di Michael Moore è introdotto da un lungo prologo sulla ripetizione del conteggio in Florida, la decisione della Corte suprema, etc.
    Non sembra il materiale più ovvio da includere in un film sull’Iraq, Osama e i sauditi.
    Ma per quelli come Moore, l’argomento è il 7 novembre: è da lì che la storia ha inizio, è il punto di origine che ha portato all’11 settembre, che non è altro che un colpo di scena (…) astutamente manipolato da Bush per oscurare il vero soggetto della storia. Anche se verranno intentate cause in tutti i 50 Stati, non penso che si potrà ottenere una maggioranza che condivida l’opinione che Michael Moore ha di Bush.
    Al Gore ha fatto del suo meglio due anni fa, viaggiando qua e là per conto dei candidati governativi e congressuali, ed è sostanzialmente possibile correlarne il margine di sconfitta con la quantità di tempo che Al ha trascorso battendosi per loro. Ovunque sia andato nel 2002, il mancato presidente senza precedenti aveva un messaggio costante: queste elezioni non riguardano la guerra o l’economia, ma la mia persona e “il controverso voto in Florida di due anni fa”. “Vi è passata?”, urlava alle folle. “No!”, otteneva in risposta.
    Come ho scritto in quell’occasione: “Terra chiama Al: il resto di noi ne è venuto fuori”.
    Tutto ciò è ancora valido. Non è possibile polemizzare nuovamente sulla ripetizione del conteggio in Florida, non è possibile entrare a forza nella Casa Bianca. E non è nemmeno possibile vincere opponendo questioni economiche contro paesi lontani di cui sappiamo poco.

    Domenica, Bob Kerrey (…) era alla trasmissione Meet The Press, e dopo aver paragonato Osama bin Laden a Jeffrey Dahmer, ha sottolineato:
    “Ero a Gallia, in Ohio, la parte sud-est dell’Ohio. A quella gente non importa nulla della guerra in Iraq. Hanno il terrore di perdere il lavoro, l’assistenza sanitaria, le pensioni (…)”.
    Oh, piantiamola. Il tasso di disoccupazione nella contea di Gallia è pari al 6,9 per cento, un valore elevato in confronto al tasso americano (5,4 per cento), ma minimo se paragonato con quello canadese (7,8 per cento), francese (9,7 per cento) o tedesco (10,5 per cento), per nominare tre paesi che John Kerry intende prendere a esempio per l’America.
    Non penso che la brava gente di Gallia sia così “terrorizzata” dal fatto che il proprio tasso di disoccupazione si avvicini lentamente ai due terzi dei livelli franco-tedeschi da “fregarsene” dell’Iraq.
    Questo è il guaio di sminuire l’economia: si finisce per svilire anche la gente.
    In realtà, la gente – a Gallia, in Ohio, così come in molti altri posti – comprende l’importanza dell’Iraq e dell’Afghanistan per il proprio benessere molto più chiaramente che non la leadership democratica.
    Nonostante Bob Kerrey, John Kerry, e Tom, Dick e Harry Kerrye assicurino al popolo che dovrebbe sentirsi sgomento perché, pur avendo un lavoro, potrebbe perderlo un giorno e scoprire che quei falsi poveri di Bassora e Mosul esauriscono tutte le riserve federali, il popolo continua a insistere che la guerra e la sicurezza nazionale restano priorità fondamentali.
    Con il senno di poi, era sciocco pensare che le differenze tra l’America e gran parte del resto dell’“occidente” non si sarebbero in qualche modo manifestate nell’ambito dell’America stessa.

    L’incarnazione della scelta
    Malgrado coloro che si lamentano con falsa noia sulla scelta dei candidati – il minore dei due mali, il peggiore di due incompetenti, uffa – il sistema politico ha trovato il modo di presentare due uomini che sono l’incarnazione quasi perfetta della scelta che il paese si trova ad affrontare. John Kerry, con la sua brama di conferenze al vertice, il suo francese ideale, la sua infinita saggezza retrospettiva, dopo che altri hanno preso le ardue decisioni cui lui si è sottratto, la sua moderna accettazione di Viet Cong e sandinisti e perfino di Saddam nei giorni in cui invadeva il Kuwait, è quasi la parodia di un nobile europeo.
    Tuttavia, l’America non può essere un Grande Belgio, un Grande Canada o una Grande Spagna.
    L’unica cosa che può consentire al Belgio, al Canada e alla Spagna di essere quello che sono è che l’America sia l’America.
    Se (…) saremo tutti pigri, deboli e semi-non allineati, le cose non potranno funzionare. Gli americani non abbandoneranno la determinazione nazionale a favore della compiacenza transnazionale.

    Mark Steyn
    © Daily Telegraph
    (traduzione Studio Brindani)

    su Il Foglio del 3 novembre

    saluti

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    Predefinito L'Europa senza....

    ...Kerry

    Bruxelles. Con George W. Bush rieletto alla Casa Bianca come si orienteranno gli europei? Molto dipenderà dalla maggiore o minore continuità che il presidente imporrà alla propria politica estera, a cominciare da chi sarà chiamato (oppure confermato) alla sua guida. Secondo una banale legge della politica, anche internazionale, è sempre più facile voltare pagina e ricominciare daccapo con qualcuno non identificato con la gestione precedente – anche all’interno dello stesso “campo” politico –piuttosto che con coloro con cui si sono avuti scontri e differenze di qualche rilievo. Così ha iniziato a fare il presidente della Repubblica francese, Jacques Chirac, quando ha sostituito Dominique de Villepin con Michel Barnier al ministero degli Esteri. Non sarà dunque indifferente se Donald Rumsfeld resterà al Pentagono o no, se Colin Powell lascerà il posto a Condoleezza Rice al Dipartimento di Stato, o addirittura se qualche esponente democratico si presterà a dare una copertura bipartisan al vecchio/nuovo presidente.
    La maggior parte degli europei cercherà ora di capire le intenzioni dell’Amministrazione soprattutto su tre dossier. Il primo è, ovviamente, l’Iraq. Paradossalmente, l’atteggiamento di partenza della media degli europei potrebbe non essere influenzato tanto dall’esito del voto in sé quanto dai passi successivi della nuova Amministrazione. Chi è già sul terreno a fianco della coalizione, infatti, potrebbe comunque volere maggiori garanzie sul ruolo dell’Onu, sull’effettivo passaggio dei poteri agli iracheni attraverso le elezioni già previste per il gennaio 2005, nonché su una presenza maggiore di altri paesi (europei e arabi) e un miglior riequilibrio di responsabilità per il mantenimento della pace. Segnali in questo senso sono già venuti sia da Varsavia sia da Sofia, e potrebbero presto venire anche da Kiev. Per parte loro, olandesi e danesi potrebbero legare di più la loro permanenza al futuro coinvolgimento della Nato. Il che, a sua volta, sposterebbe la palla nel campo di chi si è opposto alla guerra in Iraq. I piccoli segnali di disponibilità espressi negli ultimi giorni dal ministro della Difesa tedesco Peter Struck e dal capo della diplomazia francese Michel Barnier, anche se probabilmente diretti più al candidato Kerry che al presidente Bush, dovranno misurarsi con la realtà di una riconferma dell’Amministrazione attuale per altri quattro anni. Il Quai d’Orsay aveva fatto sapere alcune settimane fa che, con qualunque presidente, Parigi era pronta a rifondare le basi dell’alleanza con Washington. Resta da vedere che cosa chiederanno Francia e Germania in cambio di un’apertura sull’Iraq – ad esempio sul fronte israelo-palestinese – e, soprattutto, che cosa potrebbero ottenere. Molto dipenderà anche dallo “stile” del dialogo transatlantico da rinnovare.

    Il secondo dossier e la variabile dollaro
    Il secondo dossier copre diversi aspetti del “multilateralismo”, dai negoziati in sede Wto (organizzazione mondiale del commercio) al destino del Protocollo di Kyoto. I negoziati commerciali entreranno in una fase decisiva, e il nuovo commissario europeo, Peter Mandelson, e il trade representative statunitense, Robert Zoellick (se confermato), si troveranno di fronte ad alcune scelte cruciali, dalla questione Boeing-Airbus al pacchetto finale del Doha Round. Quanto a Kyoto, neppure la sua imminente entrata in vigore (grazie all’adesione di Mosca) convincerà Bush ad aderirvi, presumibilmente: ma Kyoto è solo un accordo parziale, in fondo, e potrebbe essere comunque integrato e/o fiancheggiato da accordi più settoriali, soprattutto se gli europei saranno capaci di formare coalizioni di interesse anche con alcune corporation americane: un’Amministrazione repubblicana non potrebbe restare indifferente. Di nuovo, il modo in cui si discuterà sarà importante.
    C’è un’ultima variabile decisiva: il dollaro. Molti analisti, indipendentemente dall’esito delle presidenziali, avevano già previsto una caduta della moneta statunitense sui mercati internazionali, in parte per attutire la bolletta petrolifera e in parte per riconquistare competitività sui mercati, a danno dei concorrenti europei. Il presidente della Fed, la Banca centrale americana, Alan Greenspan potrebbe cominciare fin da oggi, e a noi non resterebbe che assistere quasi impotenti alla resistibile ascesa del super euro e al conseguente peggioramento delle nostre previsioni di crescita. Lo scenario coinvolgerebbe, probabilmente, anche la sterlina. Ecco perché i toni del dibattito transatlantico sono cruciali anche dal punto di vista degli interessi economici, che possono allontanare o avvicinare le due sponde dell’oceano.

    da Il Foglio del 3 novembre

    saluti

  6. #6
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    Predefinito Intanto....

    …in Olanda

    Amsterdam. Per la seconda volta in due anni e mezzo l’Olanda resta sgomenta per un assassinio politico. Ieri mattina alle 8.45 il regista e giornalista Theo Van Gogh, andando in bici nel Linnaeusstraat, nel centro di Amsterdam, è stato superato da un altro ciclista che gli ha sparato diversi colpi d’arma da fuoco. Mentre Van Gogh cercava di fuggire a piedi, l’assassino lo ha inseguito e finito con un coltello.
    Il regista è morto sul colpo.
    Poco dopo, la polizia è riuscita a catturare il presunto autore dell’attentato, che nel frattempo aveva ferito un passante e un agente.
    Come d’obbligo in Olanda, la sua identità non è stata resa nota. Si tratta di un uomo di 26 anni, con la doppia nazionalità olandese e marocchina. L’assalitore ha lasciato il coltello e una lettera (il cui contenuto non è stato ancora reso noto) sul corpo del regista, il che prova che si tratti di un omicidio premeditato e aumenta le probabilità che Theo Van Gogh, uno dei più noti critici dell’islam in Olanda, sia diventato la prima vittima del jihad nel paese.
    L’assassinio del regista, quarantasette anni, mostra delle somiglianze e coincidenze più che preoccupanti con quello di Pim Fortuyn, l’astro nascente della nuova destra olandese che il 6 maggio 2002 cadde sotto il piombo di un sicario solitario, un ecologista e animalista fanatico nemico della diversità culturale e conservatrice di Pym.
    Come Fortuyn, anche van Gogh fu una voce fuori del coro, con delle idee politiche molto esplicite, specie sull’impossibilità di una società multiculturale. E non è un caso che proprio in questi giorni stesse completando le riprese per “0605”, il film che narra l’ascesa e l’uccisione dello stesso Fortuyn.
    Il film, il cui titolo deriva dalla data della morte di Fortuyn, entrerà comunque nelle sale cinematografiche olandesi all’inizio del 2005. Ma prima sarà visibile su Internet, perché i diritti sono già stati acquistati da Tiscali, che lo metterà in rete a dicembre.
    Theo van Gogh, pronipote del fratello del pittore Vincent, Theo appunto, è sempre stato un provocatore.
    Già il suo primo film, Lüger di 1981, scandalizzò il pubblico con una scena in cui tre gattini finirono nella lavatrice. Dopo una serie di cortometraggi, negli anni Novanta vinse due volte il Vitello d’Oro per il miglior film olandese. Nel frattempo era diventato anche presentatore televisivo e collaboratore di una lunga serie di giornali e riviste, dove di solito partiva sbattendo la porta.
    Van Gogh usava uno stile spesso ironico ma anche estremamente aggressivo, con feroci attacchi personali ai vip olandesi. Inclusi i reali, perché in un paese dove pochi si scomodano a contrastare la monarchia, Theo era un membro attivo dell’Associazione Repubblicana.
    (Comunque, anche la regina Beatrix ieri ha espresso il suo “orrore e sgomento” per l’assassinio.)
    E mentre molti attori che hanno lavorato con van Gogh lo descrivono come una persona amabile e piena di humour sul set, lui stesso si era affrettato a dichiarare che faceva il gentile solo per farli lavorare meglio.
    Più per il tono che per il contenuto, parecchi giornali si rifiutarono di pubblicare i commenti di van Gogh, che finirono poi prontamente sul suo sito privato e molto frequentato, De Gezonde Roker (Il Fumatore Sano: un riferimento alla sua abitudine di fumare Gauloises a catena).
    Inoltre, con le sue analisi taglienti e la sua mole inconfondiblie – ricci biondi, occhi blu, vestiti sciatti e decisamente sovrappeso – divenne una presenza pressoché costante in vari programmi televisivi.
    Da diversi anni van Gogh, il quale amava chiamarsi un
    ‘reazionario vecchio stile e un visionario mal compreso’, si occupava del problema della minoranze etniche, specie quelle musulmane. “Non credo nell’integrazione”, usava dire.
    E nei suoi articoli e interventi esprimeva una feroce critica all’ideale della società multiculturale, che rischierebbe di trasformare l’Olanda in ‘una specie di Belfast’: “C’è qui una cultura che si mette costantemente contro le norme e i valori dell’Occidente e difende l’aggressione e l’arretratezza dell’islam. Questo mi rode parecchio”.
    Com’era nel suo carattere, non esitò a usare parole forti: “Perché io non posso dare dello scopacapre a un musulmano? Non ha forse scritto l’imam Khomeini che quando la donna ha le mestruazioni, l’uomo può prendersi la capra? E le nostre donne, non si sentono forse continuamente insultate per strada da uomini marocchini? E allora, noi dobbiamo accettare tutto questo? Che strana forma di tolleranza è questa!”.
    Ma nello stesso tempo, nel 2002 per la tv olandese van Gogh diresse un telefilm in dodici puntate, intitolato Najib e Julia. E in questa tragedia d’amore puberale tra un pizza-corriere marocchino e una ragazza bene olandese si dimostrava assai più benevolo verso i musulmani d’Olanda.
    La molla che probabilmente ha fatto scattare l’ira dei fondamentalisti islamici è il film recente, Submission.
    In questo cortometraggio, che quest’estate è stato trasmesso dalla tv pubblica olandese, van Gogh mette in mostra delle donne musulmane maltrattate dai mariti in vestiti trasparenti che fanno intravedere i loro corpi nudi con sopra scritti misogini presi dal Corano. Il regista ha preparato quest’opera insieme a Ajaan Hirsi Ali, una exprofuga somala che ora è parlamentare olandese per il partito liberale VVD.
    Da diversi anni, Hirsi Ali è una delle voci più ascoltate della critica antimusulmana in Olanda, avvertendo i suoi nuovi compatrioti contro l’invadenza di una cultura assolutista e misogina di cui lei stessa è rimasta vittima.
    Sia lei che van Gogh sono stati ripetutamente minacciati da estremisti musulmani e dopo la trasmissione del film hanno goduto per un breve periodo di una scorta della polizia, cosa finora molto rara in Olanda.
    In Olanda lo sconforto è totale. Van Gogh aveva molti nemici, e ne andava fiero, ma un omicidio sembrava impensabile. Anzi, un secondo omicidio perché il paese aveva ormai superato il trauma di quello di Fortuyn, archiviato come un atto di uno squilibrato solitario. In questo caso però, pare che il delitto (anche se uscito dalla testa di un fanatico isolato) faccia parte di un disegno terroristico mondiale, quello della guerra santa islamica. E come tale è la prova che ormai non ci possiamo più sentire al sicuro neanche in casa nostra, dice la gente.
    Ad Amsterdam ieri sera si è già svolta una prima commemorazione pubblica. Con fischi e trombe perché, come disse il sindaco Job Cohen, “Theo non avrebbe voluto una cosa tranquilla”.
    Le reazioni sono pressoché unanimi, inclusa quella dei musulmani moderati.
    Secondo la capogruppo alla Camera della Sinistra Verde (non proprio il partito di van Gogh), Femke Halsema, “con lui l’Olanda perde un provocatore professionale con il senso dell’humour, un ottimo regista e anche un combattente per la libertà d’espressione.
    Theo poteva esprimere dei giudizi molto duri, anche su di noi, ma non perdeva mai il suo impegno. E’ rimasto vittima dell’ultima vergognosa intolleranza. Purtroppo sembra inevitabile che anche in Olanda personaggi pubblici debbano ricevere una protezione personale’.

    Aart Heering su Il Foglio del 3 novembre

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    Predefinito Dopo....

    …l’11 settembre

    La campagna presidenziale del 2004 è cominciata con un urlo.
    Un grido animalesco, un “Aaaarghhh” che ha fatto il giro del mondo.
    Era il 19 gennaio, in Iowa. Howard Dean, il dottore ex governatore del Vermont, era stato per mesi idolatrato dalla stampa: era il politico che entusiasmava le folle, che sapeva coinvolgere i più giovani, che era in grado di ottenere tante piccole donazioni via Internet, che poteva riportare il partito democratico alle sue radici, sradicandolo da quel centro tanto caro a Bill Clinton.
    Ma, in quella notte in Iowa, Dean ebbe la prima, cocente sconfitta. E gridò.
    Rosso in viso, le vene fuori dal collo: un’esplosione di rabbia.
    Quel giorno finì il sogno presidenziale del dottore e incominciò la corsa del senatore John F. Kerry, che fino ad allora era “uno dei candidati”.
    Il mondo della sinistra americana ebbe un sussulto: le iniziali di questo candidato che si avviava a vincere le primarie (il suo avversario più insidioso, John Edwards, avvocato e senatore della Carolina del nord, gli diede un po’ di filo da torcere, lo accusò di non essere in grado di avere una posizione stabile su nessun tema della campagna elettorale, lo fece quasi vacillare negli Stati del sud, ma poi si piegò al volere popolare e finì per accettare persino di diventare il compagno di ticket di quel candidato così “inaffidabile”) erano le stesse del mito storico, di quel JFK di cui Kerry poteva raccogliere l’eredità.
    Non ci pensò due volte, il mondo della sinistra, e seguì con enfasi quel che il partito democratico voleva, cioè chiudere in fretta la “questione primarie” in modo da poter cominciare prima possibile il testa a testa con il rivale, il presidente George W. Bush.
    Non c’era il tempo, in queste prime elezioni dopo l’11 settembre, di scannarsi all’interno della stessa compagine politica: l’avevano capito subito i repubblicani – che decisero di concentrare gli sforzi della macchina elettorale soltanto su Bush – e lo capirono poco dopo anche i democratici.
    Così, ancor prima della nomina ufficiale del partito, è cominciata la battaglia tra il senatore del Massachusetts e il presidente del Texas: due mondi – si pensava – due visioni, due ideologie, due strategie, due mondi, due Americhe, insomma.
    Ci si aspettava una bella lotta, dal momento che, mai come quest’anno, il popolo americano era sembrato agli esperti tanto polarizzato: la logica elettorale – sedurre più votanti possibile – e il paese impegnato su un fronte di guerra – che accentua il patriottismo –avrebbero poi smussato gli angoli più spigolosi dei due candidati, moderandone toni e animi.
    La lotta c’è stata, come vuole il copione di una sfida presidenziale, ma si è caratterizzata per due particolarità: i due candidati non si sono (quasi) mai tirati colpi bassi direttamente (ma i colpi bassi non sono mancati) e uno dei due contendenti si è rivelato, strada facendo, un po’, come dire, indeciso. Il “lavoro sporco” è toccato non alle campagne elettorali ufficiali, ma alle cosiddette “527s”, organizzazioni che prendono il nome dall’articolo del codice che regola il finanziamento ai partiti e che, di fatto, si possono permettere di dire tutto quello che al buon gusto ufficiale è vietato.
    Così “Moveon.org”, la più attiva da parte democratica, ha potuto pubblicare sul suo sito (e su alcune reti televisive minori) un video in cui un’immagine di Hitler si trasformava nel volto di Bush, mentre i “Veterani per la Verità”, sul fronte repubblicano, hanno messo in piedi una campagna contro il passato in Vietnam di Kerry (che alla convention di Boston si era presentato sul palco dicendo: “Soldato Kerry, a rapporto), smantellandolo in ogni sua parte, spinti dal ricordo del suo “tradimento” a favore della causa pacifista una volta rientrato in patria.
    In mezzo ci sono state valanghe di libri, film, documentari, prodotti, con l’unico scopo di colpire Bush.
    Uno su tutti: Michael Moore e il suo “Fahrenheit 9/11”, che ha vinto la Palma d’Oro al Festival di Cannes ed è stato accolto da orge di pubblico nelle sale.
    La portata di questo documentario è stata più volte valutata da commentatori e politologi, ma la parola definitiva al dibattito l’ha messa niente meno che Osama bin Laden che, nel suo ultimo, terrificante messaggio, è arrivato a citare la favola della capretta (letta da Bush mentre le Torri gemelle erano sotto attacco) per sintetizzare l’incapacità dell’attuale presidente degli Stati Uniti nel guidare il suo paese.
    Le attività “extra campagna”, targate prevalentemente anti Bush, hanno dunque influito sull’andamento di questo lungo percorso che si è concluso ieri con l’Election Day: alcune però si sono trasformate in un boomerang in faccia agli stessi democratici.
    E’ il caso di Dan Rather, anchorman della Cbs, che ha cercato di distruggere il passato di Bush con un documento inedito e, nelle intenzioni del giornalista, definitivo che si è invece rivelato, miseramente, un falso, coinvolgendo il volto storico della televisione americana in uno scandalo le cui conseguenze devono ancora essere determinate da una commissione d’inchiesta. Paradossalmente, Rather si è andato a infilare in un pasticcio professionale per colpire, senza riuscirci, quel passato presidenziale che lo stesso Bush non ha esitato a definire, in più occasioni, “un fiasco”.

    Due team, due guru, due strategie
    La campagna vera è stata comunque condotta dai due candidati e dai loro team.
    Anzi, la differenza fondamentale sta tutta qui.
    Dall’inizio delle primarie in poi lo staff di Kerry, guidato dal suo guru elettorale, Bob Shrum (storico consigliere democratico con un unico difetto: non ha mai visto un suo consigliato vincere le elezioni), ha subito ben tre rivoluzioni fino a raggiungere dimensioni faraoniche. “Più idee circolano migliori sono le scelte che si prendono”, spiegava Kerry, ma, con il senno di poi, sarebbe
    stato meglio per lui affidarsi a un’unica voce per cercare di arginare la sua naturale (lo dimostra il suo “record” in Senato) inclinazione al “flip-flopping”.
    L’inefficienza nella comunicazione, le lotte di potere interne alle varie correnti (principalmente shrumiani contro ex clintoniani) e la mancanza di uno slogan efficace hanno contribuito a sfilacciare l’onda d’urto dell’intera campagna democratica.
    Clinton ha provato a salvarla: dal letto d’ospedale (è stato operato al cuore) ha intimato a Kerry di smetterla con il suo ondivagare e con i riferimenti al suo passato in Vietnam, ché i rivali lo stavano massacrando; una volta ripresosi dall’operazione, ma ancora convalescente e smagrito, l’ex presidente si è presentato al fianco del candidato per dargli il suo appoggio – anche la figlia Chelsea ha fatto la sua prima apparizione pubblica, a Tampa, in Florida, dove ha arringato la folla con un “non potrei essere da nessun’altra parte se non qui”, mentre mamma Hillary si è volutamente tenuta in disparte – ma non è riuscito a scaldare gli animi del popolo democratico, ormai rassegnato a votare Kerry “turandosi il naso”, come ha montellianamente detto la rivista di sinistra The Nation.
    Il suo candidato vice, Edwards, è spesso scomparso dai palchi dei comizi, tanto che a un certo punto, in molti si sono chiesti se non fosse proprio lui il primo a dubitare della riuscita di questa campagna elettorale.
    Quando poi Edwards è riapparso, nel dibattito contro l’altro vice, Dick Cheney, ha passato la maggior parte del tempo a specificare quello che il suo compagno di ticket non era ancora riuscito a dire in modo univoco.

    I repubblicani, invece, si sono affidati, come nel 2000, a Karl Rove, “il cervello di Bush”, come lo definiscono con malignità gli avversari, che non ha deluso le aspettative. Prima di tutto, Rove ha tenuto le redini della campagna, evitando sbandamenti persino nei momenti più delicati, come quando il segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, ha cominciato a millantare un disimpegno quasi immediato dall’Iraq, quando il resto dell’Amministrazione ribadiva la strategia del non ritiro. Rove ha mantenuto la coerenza interna alla campagna di Bush ed è riuscito a perseguire il suo obiettivo primario: portare gli elettori alle urne. Nel farlo ha adottato una strategia opposta a quella dei democratici: si è cioè concentrato sulla base del partito senza obbligare il suo candidato a occhieggiare in giro per trovare nuovi, incerti sostenitori. Il suo imperativo è sempre stato: galvanizzare gli elettori repubblicani.
    E’ stata di Rove l’idea di organizzare in alcuni Stati, nello stesso giorno delle elezioni, referendum riguardanti le cosiddette “moral issues” (matrimoni gay, diritti civili), alle quali il popolo americano è altamente sensibile. Ed è sempre stata sua l’idea di giocare la carta della “fede” in modo del tutto innovativo, con l’intento di coinvolgere nel voto quei quattro milioni di evangelici che, nel 2000, non si erano mossi da casa.
    Bush si è sempre definito un “born again christian” e non ha mai fatto mistero della sua devozione, delle sue preghiere mattutine, del suo aderire alla causa del “destino manifesto” dell’America che affonda le sue radici nella coscienza religiosa.
    L’ha ribadito spesso nei suoi comizi elettorali, al punto di costringere il suo avversario a scendere nell’arena della fede. Kerry è caduto nella trappola: nei suoi ultimi discorsi si è trovato costretto a mostrare un misticismo mai rivelato.
    Ha citato la Bibbia, ha chiesto agli elettori di pregare affinché il nuovo presidente fosse in grado di “rendere più sicuro e pacifico il mondo” e di “guidare il popolo nel successivo passo del viaggio dell’America verso ‘quella luminosa città sulla collina’”. Nonostante lo slancio, Kerry non ha trovato molti consensi: la comunità cattolica l’ha sempre rinnegato per la sua strategia “prochoice” su questioni cruciali come l’aborto o il matrimonio degli omosessuali.
    L’arcivescovo Charles J. Chaput, il più alto prelato della Santa romana Chiesa in Colorado, è arrivato a fare un proclama in cui chiedeva ai fedeli di non votare per il candidato cattolico.

    La credibilità per essere comandante in capo
    C’è poi la questione Iraq. Su questo tema Bush non ha dovuto far molto di più che ribadire le convinzioni che già avevano determinato la sua strategia dall’11 settembre in poi: guerra al terrore “senza se e senza ma” (in particolare senza i “ma” della comunità internazionale), politica della guerra preventiva e del “regime change”, intimidazione agli Stati canaglia, esportazione di democrazia e libertà. Bush ha argomentato queste sue decisioni, ne ha palesato la drammaticità e l’inevitabilità, le ha suggellate con uno dei suoi slogan più riusciti:
    “Freedom is on the march”.
    Kerry invece è partito sulla difensiva, quasi da subito. I suoi voti al Senato non l’hanno aiutato: ha votato “sì” alla campagna irachena, ma “no” agli 87 miliardi di dollari necessari per sostenerla. Negli ultimi giorni il suo motto è stato:
    “La guerra sbagliata, nel posto sbagliato, nel momento sbagliato”, ma, durante le primarie, aveva accusato il pacifista Dean di non avere né “la capacità di giudizio” né “la credibilità” per essere eletto presidente perché “dubitava che il mondo e l’Iraq fossero più sicuri senza Saddam”.
    Kerry ha dovuto rispiegare più e più volte la sua posizione nei confronti della guerra al terrore e, nel farlo, ha avuto bisogno sia del suo candidato vice, Edwards, sia del supporto di decine di testate giornalistiche che, mai come quest’anno, hanno esplicitato la loro preferenza di voto.
    Ma, quando si è trovato a tu per tu con un interlocutore, Matt Bai del New York Times Magazine, e ha definito il terrorismo una “nuisance”, una seccatura, al pari della “prostituzione”, ha sancito la sua irresolutezza e ha dato la possibilità al rivale repubblicano di accusarlo della peggiore delle politiche: quel “September 10th mindset” che fa tanta paura agli elettori.
    Durante il primo dibattito presidenziale ha detto che la politica estera degli Stati Uniti si deve sottoporre al “test globale”, cioè al lasciapassare della comunità internazionale, ma ha poi ammesso il diritto di un presidente alla guerra preventiva. Kerry ha enfatizzato l’importanza del consenso, del multilateralismo, criticando la “qualità” della “sparuta coalizione” che ha appoggiato la campagna irachena: Bush gli ha fatto notare che non era il caso di parlare male degli attuali alleati dal momento che, se fosse poi stato eletto presidente, quelli sarebbero diventati i “suoi” alleati (e il presidente polacco, risentito, ha fatto, sul Wall Street Journal, pubblica rimostranza).
    Kerry ha sprecato più energie nel ribadire, puntualizzare, rettificare, specificare che nella costruzione di una solida strategia. In questo delirio di parole sono risultate fuori tiro persino le bordate su temi cruciali di politica interna: per esempio il fatto che Bush, in quattro anni, ha perso più posti di lavoro di quanti sia riuscito a crearne, e che ha generato un deficit nel bilancio pubblico che soltanto un rigido taglio alle spese potrà recuperare.
    Kerry non è quasi mai riuscito a porre all’attuale inquilino della Casa Bianca le domande giuste sul futuro degli Stati Uniti, sulla dipendenza americana, in termini di bilancia dei pagamenti, dall’estero, sulla sottovalutazione del dopoguerra iracheno, sulla crisi della gestione multilaterale dei conflitti, sui nuovi fronti che possono aprirsi e che devono essere, militarmente ed economicamente, gestiti.
    E non è riuscito a scaldare gli animi neppure quando ha avuto la possibilità di sfoggiare le sue capacità retoriche, molto più articolate rispetto a quelle del suo avversario. Così ha ridotto i democratici a un ripensamento su uno degli slogan più sentiti in questa campagna: “Anybody but Bush”. Kerry ha dimostrato che “anybody” non è sufficiente per diventare presidente degli Stati Uniti.
    Bush è risultato persino più spigliato del suo avversario, andando oltre quei limiti di comunicazione che, all’inizio del suo mandato, lo avevano spesso penalizzato.
    Ha riordinato la politica estera americana, dandole una priorità e una soltanto: la lotta al terrorismo.
    Si è presentato all’Election Day con i costi della campagna irachena molto più evidenti per gli elettori rispetto ai benefici ottenibili con un’ottica più a lungo periodo, ma con la convinzione di aver assolto uno dei compiti principali di un presidente: difendere il suo paese.
    Ha avuto molte armi a sua disposizione, ma alla fine ne ha usate due. Semplicità e determinazione.

    Paola Peduzzi su Il Foglio del 3 novembre

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    Predefinito Le quattro svolte strategiche e...

    ...….sagge di W.

    La presidenza di George W. Bush è stata a tal punto caratterizzata dal medio oriente che, a mio avviso, gli storici lo giudicheranno essenzialmente in base alla linea di azione sancita in quella regione.
    (…)
    Non è stato pienamente apprezzato il fatto che per quanto riguarda il medio oriente Bush abbia sistematicamente reagito ai problemi della regione abolendo prassi accettate da decenni, per sostituirle con approcci straordinariamente diversi.
    Al contrario, John Kerry in modo prosaico resta fedele alle linee politiche del passato che non hanno ottenuto successo.
    Bush ha rovesciato la politica americana in quattro settori principali:

    Guerra piuttosto che ricorrere alle forze dell’ordine.
    Dal 1979, dai primordi della violenza islamista ai danni degli americani (inclusa l’occupazione dell’ambasciata statunitense a Teheran, in Iran, durata 444 giorni), Washington affrontò il problema considerandolo di natura criminosa e reagì a esso con uno spiegamento di investigatori, avvocati, magistrati e direttori di carceri. L’11 settembre 2001, Bush dichiarò che eravamo “in guerra contro il terrorismo”. Da notare bene il termine “guerra”. Ciò implicava l’utilizzo dell’esercito e dei servizi di intelligence, oltre che delle forze dell’ordine. Al contrario, Kerry ha detto ripetutamente di essere favorevole a tornare al modello del mantenimento dell’ordine.

    Democrazia e non stabilità.
    “Sessanta anni in cui le nazioni occidentali hanno giustificato e si sono dimostrate accomodanti nei confronti della mancanza di libertà in medio oriente non ci hanno resi sicuri”.
    Questa dichiarazione, rilasciata da Bush nel novembre 2003, ricusava una politica bipartisan focalizzata sulla stabilità che era stata posta in essere a partire dalla Seconda guerra mondiale. Bush lanciò una sfida alle prassi stabilite, una di quelle che ci si aspetterebbe di sentire a un seminario accademico, e non da un leader politico. Al contrario, Kerry preferisce l’ottuso, vecchio e screditato modello di stabilità.

    Prevenzione e non dissuasione.
    Nel giugno 2002, Bush accantonò l’annosa politica della deterrenza, rimpiazzandola con l’approccio più attivo di eliminare i nemici prima che siano loro a colpire. “La sicurezza statunitense – egli affermò –esigerà che tutti gli americani siano lungimiranti e determinati, che siano disposti a delle azioni preventive, qualora risultino necessarie per difendere la loro libertà e la loro vita”. Questo nuovo approccio ha fornito una giustificazione alla guerra contro Saddam Hussein per la rimozione dal potere del dittatore iracheno prima che egli potesse sferrare un attacco. Al contrario, Kerry blatera su questa questione, schierandosi solitamente a favore del vecchio modello della deterrenza.

    Leadership e non reazione nel fissare gli obiettivi per una risoluzione del conflitto arabo-israeliano.
    Nel giugno 2003, io definii la rinnovata politica di Bush nei confronti del conflitto arabo-israeliano come “il passo più sorprendente e ardito della sua presidenza”. Piuttosto che lasciare alle parti la facoltà di decidere sulla pace, Bush tirò fuori una tabella di marcia. Invece di accettare i leader esistenti, egli impedì a Yasser Arafat di giocare. Invece di lasciare che fossero le parti a sancire l’obiettivo finale, Bush trovò la soluzione nella creazione di uno Stato palestinese. Piuttosto che tenersi fuori dalle negoziazioni fino all’ultimo, Bush ne fece parte sin dall’inizio. Al contrario, Kerry tornerebbe al processo di Oslo e tenterebbe ancora la via già utilizzata e senza successo di avviare delle negoziazioni tra gli israeliani e Arafat.

    Le riserve e il paradosso
    Nutro delle riserve in merito all’approccio di Bush, specie per quanto riguarda la sua interpretazione del conflitto arabo-israeliano, che a mio avviso è troppo personale, ma ammiro la maniera energica e creativa, con la quale egli ha reagito a quelli che rappresentano i peggiori problemi esterni del paese. La sua eccezionale disponibilità ad accettare i rischi e a dare uno scossone al deleterio status quo del medio oriente ha delle buone possibilità di riuscita.
    Non si manca spesso di rimarcare il radicalismo di cui Bush dà prova in medio oriente, poiché in fondo egli è un conservatore, ossia è incline a preservare quanto di meglio legato al passato. Ma anche un conservatore comprende che la protezione di ciò cui egli tiene talvolta esige il ricorso all’attivismo creativo e all’agilità tattica.
    Al contrario, sebbene Kerry sia liberal, vale a dire qualcuno disposto a rinunciare al vecchio e a sperimentare il nuovo, in tema di medio oriente, egli ha sempre mostrato, sia quando era senatore sia nel corso della campagna presidenziale, una preferenza a mantenere i vecchi e buoni metodi anche se essi non funzionano. Paradossalmente, sul tema del medio oriente, Bush è il radicale, contro Kerry il reazionario.

    Daniel Pipes
    (traduzione di Angelita La Spada) su Il Foglio del 3 novembre

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    Predefinito Bush attua il nation building...

    ….anche su se stesso e sull’America

    Spaccheremo qualche culo”, avrebbe detto George W. Bush a Richard Clarke, esperto di controterrorismo per il Consiglio di sicurezza nazionale la notte dell’11 settembre 2001, entrando nel Presidential Emergency Operations Center della Casa Bianca.
    Che si tratti di una leggenda o della verità poco importa, l’aneddoto rispecchia il personaggio politico George W. Bush inventato da George W. Bush.
    “Una parte importante di quello che i politici fanno – i politici di primo livello, comunque – è costruire personaggi totalmente realizzati sul piano teatrale, che esistono in un’intima relazione con il pubblico votante”, ha scritto Nicholas Lemann sul New Yorker del 18 ottobre, in un lunghissimo affresco del presidente e di come l’uomo, da politico, abbia saputo reiventarsi.
    Lo ha saputo fare benissimo Bush.
    Rampollo poco brillante di un’importante famiglia di brillanti politici e uomini d’affari, è riuscito a trasformare molti suoi punti deboli in punti di forza.
    A partire, ricorda il New Yorker, dalla sua repulsione verso le élite, maturata ai tempi degli studi nell’elitaria Yale:
    “Diventando un conservatore marziale, un tagliatore di tasse, un uomo d’affari cristiano fondamentalista del sudovest, Bush si è mosso nella sua vita nella stessa direzione del suo partito. Se fosse stato vicino alle élite nella maniera in cui lo fu suo nonno, rispetto a essere vicino alle élite come lo è ora, non avrebbe avuto una grande carriera politica”.
    Già, perché la grande intuizione di George W. Bush è stata quella di formulare una strategia: abbandonare la partita che non poteva vincere e crearne una nuova che fosse in grado di dominare.
    Lampo di genio. Svolta. Tant’è che il giornalista del New Yorker, settimanale che per la prima volta quest’anno ha pubblicamente dato il suo sostegno al candidato John Kerry, stupito, torna in parte sui suoi passi:
    “Agli inizi del 2000, scrivendo di Bush su queste pagine, dissi che sembrava volesse diventare presidente con tutte le sue forze, ma che non sembrava voler fare molto una volta in carica. Ragazzi, mi sbagliavo! Se gli elettori dessero a Bush un secondo mandato, governerebbe, sembra, con gli obiettivi di un livello di trasformazione alla Franklin Roosvelt – nella direzione opposta ovviamente – della relazione tra cittadini e Stato e Stati Uniti e resto del mondo. Perseguirebbe mete che sono oggi fuori da quello che la maggior parte delle persone reputa essere il punto focale del dibattito, con mezzi che sono più aggressivi di quelli cui siamo abituati”.
    Nei primi giorni della sua Amministrazione non era chiaro che Bush avrebbe preso la via di una presidenza tutt’altro che moderata. Anche se a ben vedere qualche segnale poteva far intendere molto ai più vicini osservatori.

    Primo aneddoto. Secondo Clay Johnson, texano come il presidente, suo compagno di stanza a Yale, oggi vicedirettore dell’ufficio del Management e del Budget, Bush ha scelto subito Dick Cheney come suo vice. Cheney avrebbe gentilmente declinato la proposta, offrendo però il suo aiuto nella ricerca del vicepresidente. Qualche mese più tardi, dopo consultazioni varie con la moglie Lynne, ci ripensa e accetta. Sembra che a fargli cambiare idea sia stata la constatazione del fatto che Bush faceva sul serio. “Il vicepresidente ha realizzato che il presidente voleva fare veramente la differenza. Non avrebbe tentato di non correre rischi. Non avrebbe tentato di estendere un facile e moderatamente fortunato mandato di quattro anni in un altro moderatamente fortunato di otto. Avrebbe tentato di fare cambiamenti radicali nelle questioni che reputava ci fosse bisogno di affrontare. E il vicepresidente si è sentito molto molto eccitato da questo aspetto. E così abbiamo Dick Cheney come vicepresidente”.

    Costruzione di un leader e di una leadership
    Secondo aneddoto con funzione di Sibilla. A sfondo sportivo. Bush non era ancora presidente, ma candidato.
    Nello stesso week-end in cui era stato invitato alla convention dei repubblicani della California, nella Orange County, decise di andarsene con la famiglia a Boston, per seguire la Ryder Cup di golf. Il capitano della squadra, che non se la stava passando bene contro gli avversari europei, era un amico texano di Bush e aveva chiesto al candidato presidente di fare un piccolo discorso d’incoraggiamento al team prima della prova. La sera della vigilia della sfida finale, Bush si presentò agli atleti, munito del testo della lettera di William Barret Trevis da Fort Alamo. Trevis, quando il Texas combatteva per diventare indipendente, era comandante delle forze texane sconfitte nella battaglia di Alamo dall’esercito messicano nel 1836. Secondo Lemann, la lettera rappresenta per i texani quello che il discorso di Gettysburg rappresenta per gli americani.
    Comunque sia Bush la riadatta al contesto golfistico:
    “Ho sostenuto bombardamenti e cannonate per ventiquattro ore e non ho perso nessun uomo. Il nemico ha chiesto la resa senza condizioni, altrimenti, se il forte fosse stato preso, la guarnigione sarebbe stata passata alla spada. Ho risposto alla richiesta con un colpo di cannone e la nostra bandiera sventola ancora fiera dalle mura. Non mi arrenderò né mi ritirerò mai. O vittoria o morte”.
    Alamo cadde. Una battaglia persa, ma la guerra (e l’indipendenza) la vinse il Texas nella battaglia di San Jacinto.
    E in quesi momenti a sfondo sportivo si sarebbe potuto intravedere molto della reinvenzione del personaggio che il futuro presidente americano stava attuando e della svolta che preparava e che ha avuto il suo culmine con l’11 settembre.
    Sua moglie ha detto du lui:
    “Mio marito ha un grande senso dell’umorismo. E’ molto divertente. E’ amante della compagnia. Gli piacciono le persone. Gli piace stare con le persone. Si ricorda le persone. E’ molto consapevole della storia delle persone. Quando incontra le persone s’informa su di loro. E’ acuto. E’ pronto d’ingegno. E’ divertente. Penso abbia queste caratteristiche, ha imparato a essere questo tipo d’uomo, a far ridere i suoi genitori quando è morta sua sorella e lui aveva sette anni. E’ molto competitivo. Competitivo come un atleta. Devi essere molto competitivo per candidarti a una carica politica”.
    In breve, sempre nell’ottica della costruzione della sua figura politica, secondo la signora Laura, Bush “è molto forte, duro, e questi sono tempi che richiedono che una persona sia forte”.
    E sembra che Bush sia riuscito nel suo intento di costruire un personaggio che prima di tutto piaccia a se stesso.
    Secondo Lemann, a Bush piace fare il presidente. “E’ divertente!”, si racconta che dica ogni tanto, con “l’entusiasmo di un ragazzino, ma si sforza di creare un sentimento di autorità attorno a sé”. Non si presenta mai all’Oval Office in abiti sportivi, come non si presenta mai ai comizi in completo.
    La costruzione del personaggio risoluto e forte porta dritto alla decisione, forse presa subito, il 12 settembre 2001, di attaccare l’Iraq.
    “Cercate di capire se lo ha fatto Saddam. Capite se è legato ai fatti in qualche modo”, avrebbe detto a Clarke, anche se l’idea di rimuovere il regime di Baghdad, secondo il New Yorker, circolava nell’Amministrazione anche prima dell’11 settembre, connessa alla volontà del presidente d’impostare il proprio mandato sul cambiamento radicale, anche se
    “quelli che sapevano qualcosa di Iraq avvertivano, ad alta voce, che portare a termine una vittoria militare convenzionale sarebbe stata la parte più facile dell’operazione. La parte difficile sarebbe stata far funzionare l’Iraq dopo, come una nazione democratica coerente, a causa della sua storia di divisioni etniche, violenze e di resistenza all’autorità centrale di governo. Bush non sembrava perdere molto tempo a preoccuparsi di questo”.
    D’altronde l’eroe su cui sembra aver plasmato il suo personaggio, il texano comandante Trevis, ad Alamo aveva scritto: “Non mi arrenderò né mi ritirerò mai”.
    Dal golf all’Iraq l’atteggiamento non cambia.
    “Nella campagna presidenziale, Bush ha sapientemente attratto l’attenzione lontano dall’alto prezzo pagato dagli Stati Uniti nella guerra in Iraq.
    E’ difficile trovare qualcuno a Washington, da entrambe le parti, che difenda seriamente la gestione di Bush in Iraq. (…) La campagna di Bush ha affrontato il dibattito sulla guerra, che nello specifico è a lui sfavorevole, sul piano a lui più propizio della generalizzazione: i democratici e la comunità internazionale non sono capaci di trovare una risposta al male e al pericolo. Non vi sentite più sicuri con Bush alla Casa Bianca?”.
    Il presidente uscente ha saputo crearsi un ruolo e portare la partita su un campo dove si muove a suo perfetto agio, e si è visto durante la campagna elettorale, quando raramente è apparso spiazzato davanti al candidato democratico John Kerry. Lo schema vincente è stato basare il gioco sul cambiamento radicale.
    “Bush, diversamente da suo padre, è attratto da grandi idee capaci di cambiare il panorama e, ancora a differenza di suo padre, pensa come un politico. Molto di quello che ha pianificato per il secondo mandato è pensato per raggiungere l’obiettivo
    di rendere il partito repubblicano dominante nella politica nazionale allo stesso modo in cui la politica estera di Bush intende
    rendere dominanti gli Stati Uniti negli affari mondiali”.

    (rs) su Il Foglio del 3 novembre

    saluti

  10. #10
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    ...voto

    Prendiamo per esempio Jack Lang. Francese, socialista, un tempo autocandidatosi a ministro della bellezza e dell’intelligenza, è intervenuto a modo suo alla vigilia del voto americano. Ha detto di essere contro Bush e questo è ovvio. Ha detto anche, e già questo è meno ovvio, di stare a fondo con Kerry in quanto Kerry, che pure non ha mai conosciuto personalmente: perché Bill Clinton aveva garantito per lui e gli aveva detto che Kerry è un vero uomo di sinistra. Lang sognava la doppia felicità: liberarsi di un petro-presidente ottuso e fanatico e ritrovare l’altra America, quella che ha la giusta visione dell’uomo, della società, del mondo.

    Prendiamo per esempio Sergio Romano. L’uomo è misurato e conosce come pochi la politica internazionale. Dice, sul Corriere della Sera, che non si ha troppo il diritto di prendere posizione in una vicenda che non ci concerne ma crede di dover esprimere lo stesso una distaccata preferenza per Kerry, migliore di Bush “che ha dilapidato il patrimonio morale e civile della democrazia americana ed è circondato da uomini arroganti e saccenti che hanno parlato all’Europa con toni altezzosi e sprezzanti”. Con Kerry, dice, almeno si litigherà civilmente.

    Prendiamo Barbara Spinelli, editorialista fra i più importanti. Sulla Stampa ha detto che bisognava liberarsi dell’ideologia della paura. Lo ha detto con toni accorati, citando una prestigiosa televisione pubblica, che al potere degli incubi ha dedicato addirittura molte puntate e concluso che da quando tutte le grandi idee hanno perso credibilità, “la paura d’un fantomatico nemico è tutto quel che resta ai politici per mantenere il potere”. La televisione in questione non è la Rai, è la Bbc.

    In Europa dunque la quasi totalità dei giornali, compreso il Financial Times organo della City, la grande maggioranza degli editorialisti e commentatori, intellettuali, artisti, politici di destra e di sinistra stavano con Kerry. Hanno, si dice, fatto endorsement. Chi in modo viscerale, chi seguendo percorsi improbabili come scale di Escher, magari dando ragione a Bush ma augurandosi la sua sconfitta per spazzare via l’alibi texano e spingere l’Europa franco-tedesca ad assumere finalmente nella guerra al terrorismo le responsabilità che le competono.

    Di solito le mosche cocchiere danno fastidio: invece questa immagine della vecchia ragionevole Europa che vola al soccorso del campione del campo democratico aveva qualcosa di malinconico, di ansiogeno. L’ansia, stato di emozione negativa caratterizzata dal timore di pericoli imminenti nei confronti dei quali si avverte dolorosamente la propria impotenza, è in generale una brutta bestia. Più insidiosa della paura stessa, perché è una paura senza oggetto.

    L’Europa vive oggi nell’ansia.
    Mette in atto meccanismi di autodifesa che la spingono a ricercarne le cause nell’altro da sé, in un paese ferito e in una presidenza accusata di voler procedere comunque e nonostante le grandi difficoltà alla costruzione di un nuovo ordine mondiale. In quella che Bush vive come missione, l’Europa vede solo come un miscuglio pericoloso di messianismo religioso e arroganza militare. Assiste con comprensibile diffidenza all’influenza crescente delle chiese, dei movimenti pro life e di difesa della famiglia sulla politica americana e si interroga.
    Con ansia. Ovviamente nessuno può sostenere che un altro presidente avrebbe suonato un’altra musica, che il dialogo sarebbe ripreso d’incanto. Che basterebbe essere a favore dell’unione civile tra omosessuali o della ricerca sulle staminali per far sì che Chirac e Schröder rinuncino al sottile piacere di far abbassare la cresta all’America e concedano sull’Iraq quello che finora hanno negato.

    L’alma mater che fu
    Per ritrovare un po’ di serenità la sinistra europea, democratica e progressista, dovrebbe ammettere che questa America la si conosce poco e la si capisce ancora meno, dovrebbe smetterla di farsi orientare dall’opinione liberal della costa est, dalle Tina Brown di turno. Dovrebbe assumere a postulato dell’agire politico che quella conservatrice è stata una vera rivoluzione.
    Che è riuscita a intercettare umori e movimenti reali, aspettative profonde di una società, a cambiare un paese e la faccia del mondo.
    E’ un processo che viene da lontano, cominciato con Nixon e acceleratosi con Reagan.
    Solo una visione angusta dei conflitti lo può ridurre ai misfatti del neoliberismo. I
    In fondo la nuova America si riconosce di più in quello che tempo fa ha scritto sul Monde Alain Minc, non sospettabile di simpatie neocon: “Con gli indù al posto degli ebrei, i cinesi che si sostituiscono ai wasp e gli ispanici che rimpiazzano i cattolici irlandesi, come immaginare ancora che l’Europa resti l’alma mater degli americani?”.

    Lanfranco Pace su Il Foglio

    saluti

 

 

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