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Discussione: Il Prete Gianni

  1. #1
    Ospite

    Post Il Prete Gianni

    Parliamo un poco del mondo
    e delle cose che vi si trovano.
    Molte ve ne sono che conosciamo
    e molte di più che non capiamo,
    eppure sono numerosi coloro
    che credono solo alla realtà
    di ciò che hanno visto
    e direttamente sentito.
    Ma vi è molto di più, per chi sa ben cercare;
    più andrà per il mondo, più lo apprenderà.


    (dal prologo di una versificazione anglo-normanna della "Lettera del Prete Gianni")





    Nel corso del Medioevo, e soprattutto nell'età trobadorica (XII-XIII sec), vennero scritte numerosissime opere letterarie di stampo fantastico, a proposito di immaginari viaggi nei “Paesi della Cuccagna”, terre in cui l’umanità vive felice e incontaminata, immersa in una natura prodigiosa. Molti di questi sono incentrati su una figura emblematica, il cosiddetto "Prete Gianni". Questo leggendario personaggio è descritto come un re cristiano di un grandissimo regno dell'Estremo Oriente, nel quale vengono protetti i poveri, vengono tollerati tutti gli stranieri, compresi i Saraceni, ma non i bugiardi, che sono messi a morte; dove i beni sono di tutti e dove si vuole riconquistare la Terrasanta. Altre composizioni includerebbero nel regno del Prete Gianni anche la Terra delle Pulzelle (“fanciulle nobili e belle”, dove nessuno è sposato né tantomeno malato, dove si innalzano splendidi palazzi e vengono organizzati grandi banchetti in cui siedono assieme uomini di diverse religioni, arcivescovi ed emiri).


    Questa figura non è però soltanto un topos letterario della poesia medievale: recenti studi filologici hanno infatti dimostrato, al contrario delle tesi tradizionali, che si tratta di un personaggio storico realmente esistito, di cui parlano molte fonti storiche attendibili.
    Cerchiamo di delineare sinteticamente il suo profilo; prima di tutto il suo nome: Prete Gianni nasce da una traduzione in francese (più precisamente in lingua d'Oc) del veneziano "Preste Zane", nome importato in Europa da Marco Polo, e a sua volta storpiamento del titolo in lingua originale "Mencan").
    Ricaviamo delle prime informazioni da Giovanni da Hildesheim, che nella sua "Historia Trium Regum" (Storia dei Tre Magi), attingendo a fonti apocrife di probabile origine manichea, afferma che i tre Magi, di ritorno dal loro viaggio a Betlemme, “assegnarono in perpetuo il Patriarca Tommaso e il Prete Gianni a tutti i re, principi, vescovi, preti e popoli, come loro signori e reggitori nello spirituale e nel temporale”.
    Se la tradizione riportata da queste fonti vede nei Magi, molto probabilmente sacerdoti della religione di Zarathustra, coloro che hanno messo a capo delle regioni d’Oriente la figura del Prete Gianni, allora si può affermare con sicurezza la sua origine manichea, legata quindi al culto tipicamente zoroastriano della contrapposizione tra Bene e Male e a quello del Sole (la leggendaria religione cristiana del Prete Gianni, potrebbe quindi nascere qui, a causa delle affinità religiose e dogmatiche tra cristianesimo e zoroastrismo).
    Il Prete Gianni, non era quindi una persona ben precisa: nasce piuttosto come figura istituzionale della Chiesa Manichea, e aveva il compito di curare le relazioni politiche e diplomatiche con le istituzioni delle nazioni in cui la Chiesa della Luce agiva.
    Solo successivamente divenne un titolo politico; più precisamente nel 763 d.C., quando il re dell’Orkhon, un regno di ceppo Uiguro, si convertì alla religione manichea e ne divenne la guida religiosa, assumendo quindi anche la carica religiosa di “Prete Gianni”.


    Il Prete Gianni storico da cui nacque la leggenda molto probabilmente fu, basandosi sugli studi del dottor Oppert, un re di nome Yeliutashe della dinastia Liao, che regnò nella Cina Settentrionale dal 906 al 1125, e fondò l'Impero del Kara Khitai, che si estendeva a un tempo dall'Altai al Lago Aral, assumendo il titolo di Korkhan.
    Secondo la narrazione di Marco Polo, in origine anche i Mongoli sarebbero stati tributari del Prete Gianni: temendone la potenza, questi avrebbe tentato di suddividere quella popolazione in gruppi minori e di deportarne una parte; al che i Mongoli sarebbero emigrati verso nord, sottraendosi al suo dominio.
    Un erede di questo Yeliutashe, intorno al 1165 d. C., spinto dalle difficoltà politico-militari in cui versava il proprio principato, scrisse la “Lettera del Prete Gianni” (da cui traggono spunto molte composizioni medievali) a Manuele I Comneno, Imperatore Romano d’Oriente, il quale la rispedì a Federico Barbarossa e a Papa Alessandro III), probabilmente in cerca di aiuti soprattutto di carattere militare.
    E’ probabile, quindi, che testi finora considerati falsi come la "Lettera del Prete Gianni" siano in realtà autentici.
    Fonti storiche affermano che nel 1177 d. C. il papa e Federico Barbarossa risposero alla lettera del Prete Gianni, ma “della spedizione incaricata dell’ambasciata, non si seppe più nulla e svanì per sempre nel deserto dell’Iraq”.
    Fu quindi così che intorno al 1200, Gengis khan affrontò il Prete Gianni in una battaglia campale, uccidendolo e conquistando il suo regno.


    L’ipotesi secondo la quale questo “Presto Giovanni” di cui parla Marco Polo sarebbe stato, come dicevamo, un principe Uiguro che aveva assunto la carica manichea di Prete Gianni, trova un riscontro preciso nella “Storia del conquistatore del mondo” di Djowéïnì ou Gouwaïnì, un autore islamico che nel 1257 si recò alla corte dei re Mongoli. In questo scritto egli riferisce che proprio Gengis Khan sottomise gli ultimi principati Uiguri, e riporta dei passi tratti da scritti religiosi di chiara impronta manichea, in uso presso gli Uiguri passati sotto il dominio mongolo.
    Marco Polo (poi confermato da Giovanni da Montecorvino) aggiunge che un discendente dello sconfitto Prete Gianni, di nome Giorgio, regnava ancora ai suoi tempi come vassallo del khan mongolo, portando ancora lo stesso titolo.
    Era questo Re Giorgio che Frate Giovanni di Montecorvino afferma di aver convertito nel 1292.
    La presenza del Prete Gianni come personaggio storico è inoltre testimoniata in iscrizioni presenti su mappe dell’epoca, come nel “Globo di Behaim”.
    Successivamente il titolo del Prete Gianni scomparì politicamente e religiosamente, ma continuò a vivere in Europa nell’immaginario collettivo, dando vita a moltissimi testi fantastici.



    Davide Ranghetti

  2. #2
    Ospite

    Predefinito

    La lettera del Prete Gianni

    Presbiter Iohannes, potentia et virtute Dei et domini nostri Iesu Christi dominus dominantium, Emanueli, Romeon gubernatori, salute gaudere et gratia ditandi ad ulteriora transire.

    Nuntiabatur apud maiestatem nostram, quod diligebas excellentiam nostram et mentio altitudinis nostrae erat apud te. Sed per apocrisiarium nostrum cognovimus, quod quaedam ludicra et iocunda volebas nobis mittere, unde delectaretur iusticia nostra.

    Etenim si homo sum, pro bono habeo, et de nostris per apocrisiarium nostrum tibi aliqua transmittimus, quia scire volumus et desideramus, si nobiscum rectam fidem habes et si per omnia credis in domino nostro Iesu Christo.

    Cum enim hominem nos esse cognoscamus, te Graeculi tui Deum esse existimant, cum te mortalem et humanae corruptioni subiacere cognoscamus. De consueta largitatis nostrae munificentia, si aliquorum, quae ad gaudia pertinent, habes indigentiam, per apocrisiarium nostrum et per scedulam dilectionis tuae nos certifica et impetrabis. Accipe ierarcham in nomine nostro et utere tibi, quia libenter utimur lechito tuo, ut sic confortemus et corrobore mus virtutem nostram ad invicem. Tigna quoque nostrum respice et considera. Quodsi ad dominationem nostram venire volueris, maiorem et digniorem domus nostrae te constituemus, et poteris frui habundantia nostra, et ex his, quae apud nos habundant, si redire volueris, locupletatus redibis. Memorare novissima tua et in aeternum non peccabis.

    Si vero vis cognoscere magnitudinem et excellentiam nostrae celsitudinis et in quibus tennis dominetur potentia nostra, intellige et sine dubitatione crede, quia ego, presbiter Iohannes, dominus sum dominantium et praecello in omnibus divitiis, quae sub caelo sunt, virtute et potentia omnes reges universae terrae. Septuaginta duo reges nobis tributarii sunt. Devotus sum christianus, et ubique pauperes christianos, quos clementiae nostrae regit imperium, defendimus et elemosinis nostris sustentamus. In voto habemus visitare sepulchrum domini cum maximo exercitu, prout decet gloriam maiestatis nostrae humiliare et debellare inimicos crucis Christi et nomen eius benedictum exaltare.

    In tribus Indiis dominatur magnificentia nostra, et transit terra nostra ab ulteriore India, in qua corpus sancti Thomae apostoli requiescit, per desertum et progreditur ad solis ortum, et redit per declivum in Babilonem desertam iuxta turrim Babel. Septuaginta duae provinciae serviunt nobis, quarum paucae sunt christianorum, et unaquaeque habet regem per se, qui omnes sunt nobis tributarii. In terra nostra oriuntur et nutriuntur elephantes, dromedarii, cameli, ypotami, cocodrilli, methagallinarii, cametheternis, thinsiretae, pantherae, onagri, leones albi et rubei, unsi albi, merulae albae, cicades mutae, grifones, tigres, lamiae, hienae, boves agrestes, sagittarii, homines agrestes, homines cornuti, fauni, satiri et mulieres eiusdem generis, pigmei, cenocephali, gygantes, quorum altitudo est quadraginta cubitorum, monoculi, cyclopes et avis, quae vocatur fenix, et rete omne genus animalium, quae sub caelo sunt.

    Habemus alias gentes, quae solummodo vescuntur carnibus tam hominum quam brutorum animalium ei abortivorum, quae nunquam timent mori. Et cum ex bis aliquis moritur, tam parentes eius quam extranei avidissime comedunt eum, dicentes: "Sacratissimum est humanam carnem manducare". Nomina quarum sunt haec: Gog et Magog, Amic, Agic, Arenar, Defar, Fontineperi, Conei, Samantae, Agrimandi, Salterei, Armei, Anofragei, Annicefalei, Tasbei, Alanei. Istas nempe et alias multas generationes Alexander puer magnus, rex Macedonum, conclu sit inter altissimos montes in partibus aquilonis. Quas cum volumus ducimus super inimicos nostros et data eis licentia a maiestate nostra, quod eos devorent, continuo nullus ho minum, nullum animalium remanet, quin statim devoretur. Inimicis namque devoratis, reducimus eas ad propria loca. Et ideo reducimus, quia, si absque nobis reverterentur, omnes homines et universa animalia, quae invenirent, penitus devorarent. Istae quidem pessimae generationes ante consummationem saeculi tempore Antichristi egredientur a quatuor partibus terrae et circuibunt universa castra sanctorum et civitatem magnam Romam, quam proposuimus dare filio nostro, qui primo nascetur nobis, cum universa Italia et tota Germania et utraque Gallia, cum Anglia, Britannia et Scotia; dabimus ei Hispaniam et totam terram usque ad mare coagulatum. Nec mirum, quia numerus earum est sicut harena, quae est in litore maris, quibus certe nulla gens, nullum regnum resistere poterit. Hae vero generationes, sicut quidam propheta prophetavit, propter suas abhominationes non erunt in iudicio, sed deus mittet super eas ignem de caelo, et ita consummabit eas, quod nec etiam cinis ex eis remanebit.

    Terra nostra melle fluit lacte habundat. In aliqua terra nostra

    nulla venena nocent nec garrula rana coaxat,

    scorpio nullus ibi, nec serpens serpit in herba.

    Venenata animalia non possunt habitare in eo loco nec aliquos laedere. Inter paganos per quandam provinciam nostram transit fluvius, qui vocatur Ydonus. Fluvius iste de paradiso progrediens expandit sinus suos per universam provinciam illam diversis meatibus, et ibi inveniuntur naturales lapides, smaragdi, saphiri, carbunculi, topazii, crisoliti, onichini, berilli, ametisti, sardii et plures preciosi lapides. Ibidem nascitur herba, quae vocatur assidios, cuius radicem si quis super se portaverit, spiritum immundum effugat et cogit eum dicere, quis sit et unde sit et no men eius. Quare immundi spiritus in terra illla neminem audent invadere. In alia quadam provincia nostra universum piper nascitur et colligitur, quod in frumentum et in annonam et corium et pannos commutatur. Est au tem terra illa nemorosa ad modum salicti, plena per omnia serpentibus. Sed cum piper maturescit, accendunt nemora et serpentes fugientes intrant cavemas suas, et tunc excuti tur piper de arbusculis et desiccatum coquitur, sed qualiter coquatur, nullus extraneus scire permittitur. Sed cum piper maturescit veniunt universi populi de proximis regionibus, secum ferentes paleas, stipulas et tigna aridissima, quibus cingunt totum nemus undique, et cum ventus flaverit vehementer, ponunt ignem infra nemus et extra, ne aliquis serpens extra nemus possit exire, et sic omnes serpentes in igne fortiter accenso moriuntur praeter illos, qui suas intrant cavemas. Ecce consumpto igne viri et mulieres, parvi et magni, portantes furcas in manibus, intrant nemus et omnes serpentes assos furcis extra nemus proiciunt et ex eis densissimos acervos componunt, veluti in area fit paleis granis excussis. Sic siccatur piper et de arbusculis combustis colligitur et coquitur.

    Quod nemus situm est ad radicem montis Olimpi, unde fons perspicuus oritur, omnium in se specierum saporem retinens. Variatur autem sapor per singulas horas diei et noctis, et progreditur itinere dierum trium non longe a paradyso, unde Adam fuit expulsus. Si quis de fonte illo ter ieiunus gustaverit, nullum ex illa die infirmitatem patietur, semperque erit quasi in aetate XXX duorum annorum, quamdiu vixerit. Ibi sunt lapilli, qui vocantur midriosi, quos frequenter ad partes nostras deportare solent aquilae, per quos reiuvenescunt et lumen recuperant. Si quis illum in digito portaverit, ei lumen non deficit, et si est imminutum, restituitur et cum plus inspicitur, magis lumen acuitur. Legitimo carmine consecratus hominem reddit invisibilem, fugat odia, concordiam parat, pellit invidiam.

    Inter cetera, quae mirabiliter in terra nostra contingunt, est harenosum mare sine aqua. Harena enim movetur et tumescit in undas ad similitudinem omnis maris et nunquam est tranquillum. Hoc mare neque navigio neque olio modo transiri potest, et ideo cuiusmodi terra ultra sit sciri non potest. Et quamvis omnino careat aqua, inveniuntur tamen iuxta ripam a nostra parte diversa genera piscium ad comedendum gratissima et sapidissima, alibi nunquam visa. Tribus dietis longe ab hoc mari sunt montes quidam, ex quibus descendit fluvius lapidum eodem modo sine aqua, et fluit per terram nostram usque ad mare harenosum. Tribus diebus in septimana fluit et labuntur parvi et magni lapides et trahunt secum tigna usque ad mare harenosum, et postquam mare intraverit fluvius, lapides et tigna evanescunt nec ultra apparent. Nec quamdiu fluit, aliquis eum transire potest. Aliis quatuor diebus patet transitus.

    Est etiam inter mare harenosum et inter praedictos montes in planicie lapis admirandae virtutis, vim in se habens fere incredibilis medicinae. Curat enim tantum christianos vel id fieri cupientes, a quacumque detineantur infirmitate, hoc modo. Est lapis quidam cavus ad modum conchae aeneae, in quo semper est aqua in altitudine quatuor digitorum, et custoditur semper a duobus senibus, reverendae sanctitatis viris. Illi primo interrogant venientes, si Christiani sint vel fieri velint, deinde, si sanitatem toto corde desiderent. Quod quum fuerint pro fessi, vestibus propriis exuti, intrant concham. Et si vera professi sunt, aqua incipit crescere et adeo crescit, quod cooperit ita eum totum, quod super caput eius ascendit. Idque tercio facit. Deinde paulatim decrescit et redit ad cottidianam mensuram. Et sic qui intraverat ascendit de aqua sanus factus a lepra vel a quacumque detinebatur infirmitate.

    Iuxta desertum inter montes inhabitabiles sub terta fluit rivulus quidam, ad quem non patet aditus nisi ex fortuito casu. Aperitur enim aliquando terra et si quis inde transit tunc potest intrare et sub velocitate exire, ne forte terra claudatur. Et quicquit de harena rapit, lapides precio si sunt et gemmae preciosae, quia harena et sabulum nichil sunt nisi lapides preciosi et gemmae preciosae. Et rivulus iste fluit in aliud flumen amplioris magnitudinis, in quod homines terrae nostrae intrant et maximam habun dantiam preciosorum lapidum inde trahunt; nec audent illos vendere, nisi prius excellentiae nostrae ipsos demonstrent. Et si eos in thesauro nostro vel ad usum potentiae nostrae retinere volumus data medietate precii accipimus; sin autem, libere eos vendere possunt. Nutriuntur autem in terra illa pueri in aqua, ita ut propter inveniendos lapides aliquando tribus vel quatuor mensibus sub aqua tantum vivant.

    Ultra fluvium vero lapidum sunt X tribus Iudaeorum, qui quamvis fingant sibi reges, servi tamen nostri sunt et tributarli excellentiae nostrae.

    In alia quadam provincia iuxta torridam zonam sunt vermes, qui lingua nostra dicuntur salamandrae. Isti vermes non possunt vivere nisi in igne, et faciunt pelliculam quandam circa se, sicut alli vermes, qui faciunt sericum. Haec pellicula a dominabus palatii nostri studiose ope ratur, et inde habemus vestes et pannos ad omnem usum excellentiae nostrae. Isti panni non nisi in igne fortiter ac censo lavantur.

    In auro et argento et lapidibus preciosis, elephantibus, dromedariis, camelis et canibus habundat serenitas nostra. Omnes extraneos hospites et peregrinos recipit mansuetudo nostra. Nullus pauper est inter nos. Fur nec praedo invenitur apud nos, nec adulator habet ibi locum neque avaricia. Nulla divisio est apud nos. Homines nostri habundant in omnibus diviciis. Equos paucos habemus et viles. Neminem nobis habere credimus parem in diviciis nec in numero gentium.

    Quando procedimus ad bella contra inimicos nostros, XIII cruces magnas et praecelsas, factas ex auro et lapidibus pretiosis, in singulis plaustris loco vexillorum ante faciem nostram portari facimus, et unamquamque ipsarum secuntur X milia militum et C milia peditum armatorum, exceptis aliis, qui sarcinis et curribus et inducendis victualibus exercitus deputati sunt. Cum vero simpliciter equitamus, ante maiestatem nostram praecedit lignea crux, nulla pictura neque auro aut gemmis ornata, ut semper simus memores passionis domini nostri Iesu Christi, et vas unum aureum, plenum terra, ut cognoscamus, quia caro nostra in propriam redigetur originem id est terram. Et aliut vas argenteum, plenum auro, portatur ante nos, ut omnes intelligant nos dominum esse dominantium. Omnibus diviciis, quae sunt in mundo, superhabundat et praecellit magnificentia nostra.

    Inter nos nullus mentitur, nec aliquis potest mentiri. Et si quis ibi mentiri coeperit, statim moritur id est quasi mortuus inter nos reputatur, nec eius mentio fit apud nos id est nec honorem ulterius apud nos consequitur. Omnes sequimur veritatem et diligimus nos invicem. Adulter non est inter nos. Nullum vicium apud nos regnat. Singulis annis visitamus corpus sancti Danielis prophetae cum exercitu magno in Babilone deserta, et omnes armati sunt propter tyros et alios serpentes, qui vocantur terrentes. Apud nos capiuntur pisces, quorum sanguine tinguitur purpura. Municiones habemus multas, gentes fortissimas et diversiformes. Dominamur Amazonibus et etiam Pragmanis.

    Palatium vero, quod inhabitat sublimitas nostra, ad instar et similitudinem palacii, quod apostolus Thomas ordinavit Gundoforo, regi Indorum, in officinis et reliqua structura per omnia simile est illi. Laquearia, tigna quoque et epistilia sunt de lignis cethim. Coopertura eius dem palacii est de ebeno, ne aliquo casu possit comburi. In extremitatibus vero super culmen palacii sunt duo poma aurea, et in unoquoque sunt duo carbunculi, ut aurum splendeat in die et carbunculi luceant in nocte. Maiores palacii portae sunt de sardonico immixto cornu cerastis, ne aliquis latenter possit intrare cum veneno, ceterae ex ebeno, fenestrae de cristallo. Mensae, ubi curia nostra comedit, aliae ex auro aliae ex ametisto, columpnae, quae sustinent mensas, ex ebore. Ante palacium nostrum est platea quaedam, in qua solet iusticia nostra spectare triumphos in duello. Pavimentum est de onichino et parietes intexti onichino, ut ex virtute lapidis animus crescat pugnantibus.

    In praedicto palacio nostro non accenditur lumen in nocte nisi quod nutritur balsamo. Camera, in qua requiescit sublimitas nostra, mirabili opere auro et omni genere lapidum est ornata. Si vero alicubi propter ornatum sit onichinus, circa ipsum eiusdem quantitatis quatuor sunt corneolae, ut ex virtute earum iniquitas onichini temperetur. Balsamum semper in eadem camera ardet. Lectus noster est de saphiro propter virtutem castitatis. Mulieres speciosissimas habemus, sed non accedunt ad nos nisi causa procreandorum filiorum quater in anno, et sic a nobis sanctificatae, ut Bersabee a David, redit unaquaeque ad locum suum.

    Semel in die comedit curia nostra. In mensa nostra comedunt omni die XXX milia hominum praeter ingre dientes et exeuntes. Et hi omnes accipiunt expensas singulis diebus de camera nostra tam in equis quam in aliis expensis. Haec mensa est de pretioso smaragdo, quam su stinent duae columpnae de ametisto. Huius lapidis virtus neminem sedentem ad mensam permittit inebriari.

    Ante fores palatii nostri iuxta locum, ubi pugnantes in duello agonizant, est speculum praecelsae magnitudinis, ad quod per CXXV gradus ascenditur. Gradus vero sunt de porfiritico, partim de serpentino et alabastro a tercia parte inferius. Hinc usque ad terciam partem superius sunt de cristallo lapide et sardonico. Superior vero tercia pars de ametisto, ambra, iaspide et panthera. Speculum vero una sola columpna innititur. Super ipsam vero basis iacens, super basim columpnae duae, super quas item aliabasis et super ipsam quatuor columpnae, super quas item alia basis et super ipsam VIII columpnae, super quas item alia basis et super ipsam columpnae XVI, super quas item alia basis, super quam columpnae XXXII, super quas item alia basis et super ipsam columpnae LXIIII, super quas item alia basis, super quam item columpnae LXIIII, super quas item alia basis et super ipsam columpnae XXXII. Et sic descendendo diminuuntur columpnae, sicut ascendendo creverunt, usque ad unam. Columpnae autem et bases eiusdem generis lapidum sunt, cuius et gradus, per quos ascenditur ad eas. In summitate vero supremae columpnae est speculum, tali arte consecratum, quod om nes machinationes et omnia, quae pro nobis et contra nos in adiacentibus et subiectis nobis provinciis fiunt, a contuentibus liquidissime videri possunt et cognosci. Custoditur autem a XII milibus armatorum tam in die quam in nocte, ne forte aliquo casu frangi possit aut deici.

    Singulis mensibus serviunt nobis reges VII, unus quisque illorum in ordine suo, duces LXII, comites CCCLXV in mensa nostra, exceptis illis, qui diversis officiis deputati sunt in curia nostra. In mensa nostra comedunt omni die iuxta latus nostrum in dextra parte archiepiscopi XII, in sinistra parte episcopi XX, praeter patriarcham sancti Thomae et protopapaten Sarmagantinum et archiprotopapaten de Susis, ubi thronus et solium gloriae nostrae residet et palacium imperiale. Quorum unusquisque singulis mensibus redeunt ad domum propriam per vices suas. Ceteri a latere nostro nunquam discedunt. Abbates vero secundum numerum dierum anni serviunt nobis in capella nostra et singulis mensibus redeunt ad propria, et alii totidem singulis kalendis ad idem officium capellae revertuntur.

    Habemus aliud palatium non maioris longitudinis sed maioris altitudinis et pulcritudinis, quod factum est per revelationem, quae, antequam nasceremur, apparuit patri nostro, qui ob sanctitatem et iusticiam, quae mirabili ter vigebant in eo, vocabatur Quasideus. Dictum nam que est ei in somnis: "Fac palatium litio tuo, qui nasciturus est tibi, qui erit rex regum terrenorum et dominus dominantium universae terrae. Et habebit illud palatium a Deo sibi totem gratiam collatam: quod ibi nullus unquam esuriet, nullus infirmabitur, nullus etiam intus existens poterit mori in illa die, qua intraverit. Et si validissimam famem quis habuerit et infirmetur ad mortem, si intraverit palatium et steterit ibi per aliquam moram, ita exiet satur, ac si de centum ferculis comedisset, et ita sanus, quasi nullam infirmitatem in vita sua passus fuisset".

    Nascetur etiam in eo fons quidam super omnia sapidissimus et odoriferus, qui nunquam exibit de palacio, sed de uno angulo, quo nascetur, fluet per palacium ad alium angulum ex adverso, et ibi recipiet eum terra, et sub terra revertetur ad ortum suum, quemadmodum sol de occidente revertitur sub terra ad orientem. Sapiet enim in ore cuiusque gustantis quicquid optabit comedere et bibere. Tanto siquidem odore replebit palacium, ac si omnia genera pigmentorum, aromatum et unguentorum ibi pilarentur et commoverentur et multo his plus omnibus. De quo quidem fonte si quis per triennium et trimensium et tres septimanas et per tres dies et per tres horas omni die ter ieiunus gustaverit et in tribus horis ita gustaverit, quod nec ante ipsam horam et post horam, sed in spacio, quod est infra principium et finem uniuscuiusque istarum trium horarum, ter ieiunus gustaverit, ante siquidem trecentos annos et tres menses et tres septimanas et tres dies et tres horas non morietur, et erit semper in aetate extremae iuventutis. Porro quicumque tamdiu vixerit, in ultima die praedictorum temporum convocabit parentes et amicos suos et dicet eis: "Amici mei et proximi mei, ecce iam cito moriar. Rogo vos, ut claudatis super me sepul chrum, et orate pro me". Hoc nempe dicto ilico intrabit sepulchrum et, valedicens eis, deponet se, quasi velit dormire et ut impleatur prophetia "finita iam hora reddet animam creatori suo". Videntes autem hoc omnes more solito plangent super corpus dilecti et clauso sepulchro commendant eum domino et recedunt. Mane facto Quasideus, pater meus, perterritus de tanta visione, surrexit et, cum cogitaret et multum esset sollicitus, audivit alti sonam vocem, quam et omnes, qui secum aderant, audie runt dicentem: "O Quasideus, fac quod praeceptum est tibi, noli aliquo modo hesitare, quia omnia erunt, sicut tibi praedicta sunt".Ad istam nempe vocem admodum confortatus est pater meus et statim praecepit palatium fieri, in cuius compositione non sunt misi lapides preciosi et aurum optimum liquatum pro cemento.

    Caelum eiusdem, id est tectum, est de lucidissimis saphiris, et clarissimi topazii passim sunt interpositi, ut saphiri ad similitudinem purissimi caeli et topacii in modum stellarum palatium illuminent. Pavimentum vero est de magnis tabulis cristallinis. Camera nec alia divisio est infra palatium. Quinquaginta columnae de auro purissi mo ad modum acus formatae intra palatium iuxta parietes sunt dispositae. In unoquoque angulo est una, reliquae infra ipsas locatae sunt. Longitudo unius cuiusque columpnae est LX cubitorum, grossitudo est, quantum duo homines suis ulnis circumcingere possunt, et unaquaeque in suo cacumine habet unum carbunculum adeo magnum, ut est magna amphora, quibus illuminatur palatium ut mundus illuminatur a sole. Sed si quaeris, quare columpnae sint ut acus acutae? Hac videlicet de causa, quia, si ita essent grossae superius ut inferius, pavimentum et totum palatium non ita illuminaretur splendore carbunculorum. Tanta est namque claritas ibi, ut nichil tam exiguum, tam subtile possit excogitari, si in pavimento esset, quin posset ab aliquo intueri. Nulla fenestra nec aliquod foramen est ibi, ne claritas carbunculorum et aliorum lapidum claritate serenissimi caeli et solis aliquo modo possit obnubilari. Porta est una in eo de purissimo et lucidissimo cristallo, circumcincta de auro fulvissimo, posita ad orientem, altitudo cuius est centum XXX cubitorum, quae quando sublimitas nostra venit ad palatium, per se aperitur et clauditur, nullo eam tangente. Sed quando alli intrant, ostiarii eam claudunt et aperiunt. Omni siquidem die intramus palacium istud ad bibendum de fonte, quando sumus in civitate illa, in qua est palacium, quae dicitur Briebric. Quando vero equitamus, facimus de fonte illo, quocumque imus, nobiscum portari, et omni die ter ieiuni gustamus, sicut in paterna visione praeceptum est. In die nativitatis nostrae et cotiens coronamur, intramus palatium istud et tamdiu sumus intus, donec po tuissemus ibi comedisse, et inde eximus saturi, ac si omni genere ciborum essemus repleti.

    Si iterum quaeris, cum creator omnium fecerit nos praepotentissimum et gloriosissimum super omnes mortales, quare sublimitas nostra digniori quam presbiteratus nomine nuncupari se non permittat, non debet prudentia tua admirari. Plures enim in curia nostra ministeriales habemus, qui digniori nomine et officio, quantum ad ecclesiasticam dignitatem spectat, et etiam malori quam nos in divinis officiis praediti sunt. Dapifer enim noster primas est et rex, pincerna noster archiepiscopus et rex, camera rius noster episcopus et rex, marescalcus noster rex et archimandrita, princeps cocorum rex et abbas. Et icirco altitudo nostra non est passa se nominari eisdem nominibus aut ipsis ordinibus insigniri, quibus curia nostra piena esse videtur, et ideo minori nomine et inferiori gradu propter humilitatem magis elegit nuncupari. De gloria et potentia nostra non possumus ad praesens satis tibi dicere. Sed cum veneris ad nos, dices, quia vere sumus dominus dominantium universae terrae. Hoc tantillum interim scias, quod extenditur terra nostra in partem unam fere ad quatuor menses in amplitudine, in altera vero parte nemo potest scite quantum protendatur dominium nostrum.

    Si potes dinumerare stellas caeli et harenam maris, dinumera et dominium nostrum et potestatem nostram.

  3. #3

  4. #4
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    Il racconto del Graal,
    aliâs il mistero delle origini



    Non è molto logico commentare la Presentazione di un libro, tanto più se il volume altrove presentato da altri è il proprio. Ma vale la pena di fare un'eccezione per la premessa scritta dal dott. E. Albrile, redattore di codesta Rivista e nostro gentile patrocinatore presso questa ed altre pubblicazioni semestrali e non, ad un opuscolo del sottoscritto, attualmente in bozze presso un editore pugliese. Facciamo ciò, naturalmente, non allo scopo di farci pubblicità; benché ne avremmo sinceramente bisogno, trattandosi del nostro primo scritto di un certo formato, a parte il volume in corso di pubblicazione presso questo stesso editore.

    L'Albrile è dell'opinione, sulla scorta del Rigbom e del Corbin, che la descrizione del Castello del Graal apparsa attorno al 1275 nel Der jüngerer Titurel di Albrecht von Scharffenberg sia stata occultamente influenzata da una conoscenza dell'architettura emblematica di un antico tempio iranico, il cd. 'Trono degli Archi' (Taxt-i Taqdis). Da ciò, oltreché da altre corrispondenze rilevabili nel Parzival di Wolfram von Eschenbach (scritto compilato fra il 1200 ed il 1210), è deducibile senz'ombra di dubbio un'influenza persiana nella misteriosofia graaliana. Tale influenza non può essere messa in dubbio e si può ritenere motivatamente che essa sia stata trasmessa da parte degli Assassini, i famosi Guardiani ismailiti della Terra Santa. Probabilmente attraverso i Templari, che raggiunsero Gerusalemme un ventennio dopo (1119) la conquista della Città Santa da parte della Prima Crociata (1099). Anche i Templari fungevano da Custodi del luogo sacro, con le medesime prerogative ed una gerarchia iniziatica approssimativamente parallela, nel versante cristiano. Orbene siamo del parere, non meno di un noto scrittore attuale, che anche le idee proprie dei Templari sul Tempio di Salomone e l'Arca dell'Alleanza abbiano influenzato notevolmente il simbolismo graaliano. Vediamo dunque in che maniera le due linee di azione s'intersechino nel raggiungere l'Occidente tardomedievale. Naturalmente qui si parla d'influenze, poiché è chiaro che la letteratura graalica rientra nell'esoterismo cristiano e come tale va intesa. Qualcuno in passato ha espresso però l'opinione che la tradizione celtica non sia finita con la cristianizzazione della Gallia, ma che abbia continuato a sopravvivere attraverso la copertura exoterica della Chiesa culdea (altri lo definisce 'monachesimo kuldeo'). Ragion per cui ad un certo punto, allorché i tempi erano evidentemente maturi, si sarebbero prodotti un incontro ed una fusione a livello esoterico fra la tradizione cristiana e quella celtica. Ci si può chiedere quale fosse la confraternita cristiana coinvolta. A giudicare dalle citazioni di Wolfram, sembrerebbe che la parte intervenuta sia quella dei Templari.

    Ripercorrendo la storia di codesto Ordine, dalla fondazione nel 1119 sotto l'egida di S. Bernardo (nipote di uno dei Nove Cavalieri fondatori e redattore quasi un decennio dopo della Regola loro imposta, dietro il riconoscimento ufficiale della Chiesa) sino alla distruzione del medesimo nel 1306 ad opera del Re di Francia (Filippo IV, altrimenti noto quale Filippo il Bello) e di Clemente V (un papa del periodo avignonese), si arriva a capire quale importante ruolo esso debba aver svolto in ambito esoterico nel corso dei due secoli circa nei quali ha potuto agire liberamente. A giudicare dalle accuse intentate all'Ordine del Tempio durante il processo che ha condannato al rogo i Templari, vale a dire il fatto di praticare culti osceni e venerare il Serpente sethiano , pare lecito affermare che si trattava di una confraternita di tipo gnostico. Ma in che modo è giunta la Gnosi in Europa nel Tardo Medioevo? Gli Gnostici, com'è risaputo, costituivano a loro dire i trasmettitori delle conoscenze segrete degli Apostoli; in altre parole, erano i veri conoscitori dei Misteri cristici.

    Dopo la persecuzione perpetrata a loro danno in epoca tardoantica da parte della Chiesa dei primi secoli (II-IV sec.), le loro dottrine ed i loro riti potrebbero essere stati ripresi occultamente dai Catari, nonostante s'intraveda in costoro una certa influenza manichea. In un'interessante trasmissione televisiva di qualche tempo fa sono state mostrate visivamente in una cartina le tappe percorse dal movimento gnostico durante l'espansione dal Vicino Oriente in Europa. Le tappe considerate sarebbero state le seguenti: dalla Palestina alla Siria e da qui all'Armenia; indi, passando attraverso l'impero bizantino, esso si è trasferito nei Balcani ed in seguito in Bosnia, assumendo attorno al X sec. la denominazione di Bogomilismo. Alla metà del XII sec., sotto il nome di Catarismo, ha conquistato l'Italia Centro-settentrionale e la Francia Meridionale (Provenza, Linguadoca), diffondendosi anche nel resto della Francia ed in Renania. Sul piano pratico il radicalismo cataro propugnava un rigoroso ascetismo, condannando la pratica cattolica dei sacramenti e minando in tal maniera le basi religiose della società feudale. Pur tuttavia nella Francia Meridionale esso è riuscito a diffondersi presso l'aristocrazia. Il suddetto documentario supponeva inoltre che il movimento cataro abbia in tal modo stimolato la nascita della saga del Santo Graal. In particolare sarebbe stato il vate tedesco Wolfram a subire codesta influenza. Altri ha invece supposto che l'epica in questione sia servita a mobilitare la cavalleria del nord contro i Catari. Ma questa seconda tesi francamente non regge. Sta di fatto che è indiscutibile l'influenza dei Templari su von Eschenbach, e da dove hanno tratto i Templari il loro culto e la loro dottrina se non attraverso quelle propaggini della Gnosi che hanno raggiunto l'Europa all'inizio del X sec.? Una volta raggiunta l'Europa l'esoterismo cristiano deve essersi congiunto con certi depositi della tradizione latina serbati dalle associazioni dei mestieri (Collegia Fabrôrum), poiché si deve supporre che anch'essa non si sia estinta nel 391 dopo il proclama di Teodosio, il quale giungeva a vietare le pratiche pagane di culto. Guénon, basandosi su uno scritto di H. Martin (storico francese), ha a suo tempo dichiarato indirettamente che in seguito alla distruzione dell'Ordine del Tempio la Cavalleria del Graal è divenuta la Massenia del San Graal, da cui sembra in parte discendere la stessa Massoneria moderna. I membri di tale confraternita chiamavansi i Templisti. Nel Titurel (1215-1220) di Wolfram, composto dal templare svevo precedentemente al Titurel recenziore del poeta bavarese Albrecht, è il personaggio stesso di Titurel a fondare il Tempio del Graal - nella Gallia Meridionale, ai confini con la Spagna - e la costruzione viene diretta secondo i dettami di Merlino; che è stato iniziato da Giuseppe d'Arimatea al piano del Tempio per antonomasia, vale a dire il Tempio di Salomone. L'opera di Albrecht pone invece il sacro edificio con la preziosa reliquia a Salvaterre in Spagna. Ed infine il Santo Vasello, al fine di essere sottratto alla profanazione da parte degli uomini ingiusti e corrotti del tempo, viene trasportato dagli Angeli agli estremi confini del mondo, in una località attigua al Paradiso Terrestre.

    Ragion per cui, potremmo arguire da tutto ciò, i due fratelli della storia del Parzival di Von Eschenbach (il primogenito Feirefiz ed il secondo nato, appunto Parsifal medesimo) rappresentano in realtà due correnti esoteriche parallele ed ugualmente valide dell'ambiente tardomedievale. Il loro affratellamento spirituale si basava sull'origine comune delle dottrine alle quali i seguaci dell'una e dell'altra parte si ispiravano. È chiaro che alludiamo qui agli Assassini ed ai Templari, i quali fungevano entrambi da Guardiani della Terra Santa. La Terra Santa era un'immagine visibile del Centro del Mondo ossia del Paradiso Terrestre, che le antiche e recondite leggende situavano cosmograficamente al Polo Boreale. Ma la Terra Santa stessa aveva a sua volta un proprio centro ed era esattamente il colle ove era un tempo collocato il Tempio di Salomone. Non è certo un caso che i Templari abbiano stabilito la loro residenza nella Città Sacra, durante la loro permanenza ivi prima della riconquista di Gerusalemme da parte di Saladino nel 1187, nei pressi delle fondamenta di tale distrutto edificio. Il cuore del Tempio era stato in passato l'Arca dell'Alleanza (ebr. Tebah, palaaram. Tebuta / Tebota, et. Tabot), una specie di quadrilatero simbolico che rifacendosi emblematicamente all'Arca di Noè costituiva un simulacro terreno della Gerusalemme Celeste dalle Dodici Porte. Dodici come gli Apostoli di Gesù o le Tribù d'Israele. Tutte immagini terrene dello Zodiaco Celeste, come del resto i Dodici principali Cavalieri della Tavola Rotonda. Ciò spiega perché nel Parzival è scritto che il 'pagano' Flegetanis abbia contemplato il Graal in cielo.

    Orbene, siccome il Graal era custodito secondo l'opera di Albrecht nella Terra del Prete Gianni , il Sacerdos-rex in cui il Tardo Medioevo ha incarnato il Sovrano Universale ossia il Cakravarti, per dirla con gli Indú, ecco che si spiega in tal modo il rapporto d'identità tra il Graal e l'Arca dell'Alleanza giustamente ipotizzato da Graham Hancock, che ha il solo torto di non aver mai letto Guénon. Infatti l'Arca dell'Alleanza, come c'insegna il brillante autore di best-seller mondiali, era stata trafugata dal Tempio di Salomone secondo il Kebra Nagast etiope ad opera di Menelik I, il figlio che il saggio israelita aveva avuto dalla Regina di Saba. È d'altronde innegabile che esista un certo rapporto fra il meticcio Feirefiz di Wolfram e cotal Menelik, così come fra la nera Regina Madre Belacane e la Regina di Saba. Dato che Gianni era il nome del figlio generato a Feirefiz da Repanse de Schoye, tutti i sovrani discesi da quella nobile famiglia avrebbero da allora in poi assunto il nome simbolico, in quanto custodi del Graal (cioè, mutatis mutandis, dell'Arca dell'Alleanza gelosamente custodita dai sovrani etiopi discesi dinasticamente da Menelik), di Prete Gianni. La cosa è apertamente suggerita da Von Scharffenberg, il quale non era che un mero discepolo di Von Eschenbach, come abbiamo già visto.

    Nel contempo possiamo dichiarare che Parsifal, divenuto alla fine della saga graaliana il novello Re Sacro capace di avvicendarsi a Re Anfortas (il Re Pescatore, in altre parole l'Uomo in senso adamitico) dopo che per il proprio valore di puro cavaliere dedito alla ricerca della Verità ultima lo ha guarito dall'insanabile male (provocato dal Tempo corruttore), rappresenta una figura strettamente equivalente a quella di Feirefiz. Nel senso che il cavaliere cristiano incarna l'ideale gnostico dei Templari, mentre il cavaliere 'pagano' impersona l'ideale ismailita degli Assassini. Per cui non sarebbe errato stabilire parallelamente una connessione da un lato fra Re Anfortas ed il Gran Maestro dell'Ordine Templare, dall'altro fra il Prete Gianni ed il Veglio della Montagna. Se è vero allora che il Tempio del Graal risale tramite il Tempio di Salomone e l'Arca dell'Alleanza, venerata dai Patriarchi ebraici, al simbolismo noaico e quindi si rifà per ciò stesso alla tradizione atlantidea, è pur vero che esso per via delle sue implicazioni con l'esoterismo celtico ci rimanda viceversa alla tradizione iperborea. Egualmente l'antico tempio persiano di cui parlavasi al principio della nostra argomentazione (su segnalazione dell'Albrile) deve essere ricollegato per via ario-indoiranica alla Tradizione primigenia, proveniente direttamente dal Paradiso Terrestre; e per via islamica alla Città Santa, al Tempio di Salomone, all'Arca e all'Atlantide. Tra le due tradizioni menzionate non ci può essere dunque contraddizione, ma solo accordo armonico.

    Appendice

    Trattando dei rapporti del Graal coi Rosacroce, Evola cita un enigmatico personaggio come capo dell'Ordine, l'Imperâtor; il cui nome e la cui sede dovevano rimanere sconosciuti, in quanto il personaggio non esercitava la propria funzione in sede temporale, bensì sul piano spirituale. Basta dire che nell'elenco di Imperatôres succedutisi nel corso del tempo figurava persino la figura gnostica di Seth. Dal punto di vista rosicruciano il Papa non era che un usurpatore, siccome si presentava come il capo spirituale per eccellenza di tutta la comunità cristiana, cosa che normalmente non poteva spettare ad un'autorità che esercitava il suo dominio sul piano exoterico. È chiaro che l'Imperatore di cui parlavano i Rosacroce altri non è che il Jagadguru degli Smrti (Tradizione) hindu, venerato dagli Smârta, l'Ordine fondato da Çankaracârya. Si diceva infatti che egli avrebbe esercitato uno speciale ruolo alla 'Fine dei Tempi'. Questo tuttavia non è altro che il compito del Re del Mondo, la cui funzione necessariamente si richiama al mistero delle origini, poiché essa non è molto diversa da quella del Re del Graal. La differenza tra l'una e l'altra consiste nel fatto che la figura del Re del Graal ha un carattere esclusivamente primordiale e costituisce per così dire un punto di riferimento ideale, a livello iniziatico; giacché il Re Sacro è in realtà solo un simulacro e rappresenta l'Uomo Universale (o alternativamente l'Uomo Vero) nella sua dimensione sovrannaturale; mentre la figura del Re del Mondo ha un significato perenne, che va al di là delle Età cicliche ed è strettamente legata ad una particolare vocazione umana. Insomma, rifacendoci a scopo comparativo al simbolismo hindu, potremmo spiegare tale differenza di ruolo paragonando il Re del Graal al I Avatâra; vale a dire a Manu aliâs il Re Pescatore, il quale è più o meno identificabile al Pesce Divino, a seconda che ci si riferisca al Paradiso Terrestre oppure a quello Celeste. Invece il Re del Mondo corrisponde all'Avatâra eterno, che la tradizione islamica conosce sotto il nome di Seyidnâ El-Khidr e tratteggia come un essere di color verde, detentore perpetuo di una sapienza superiore a quella stessa dei Profeti. Tornando alla questione della 'Fine dei Tempi', è chiaro che il magistero esercitato dal Re Mondo, ossia dall'Imperâtor di rosicruciana memoria, ha lo scopo di favorire il recupero dello stato primordiale; ma tale azione si svolge in segreto, non alla luce del sole, come invece è il caso del X Avatâra (denominato Kalkyâvatâra). Quest'ultimo, viceversa, si richiama direttamente a Manu; cioè al Re Pescatore, di cui è un'incarnazione (il termine evoca precisamente l'idea di una 'Discesa terrena') nei tempi ultimi. Kalki è presentato dalle Scritture hindu come una sorta di cavaliere che discende dal Cielo per sconfiggere i Fuori-casta, ma ciò non deve essere preso troppo letteralmente. Piuttosto dovremmo dire che egli giunge tra noi per rammentarci la nostra vera natura. Per questo l'azione di siffatto personaggio non può essere circoscritta all'ambiente indiano, ma deve evidentemente esercitarsi a livello universale. Il che sottintende la riunificazione di tutte le tradizioni e la loro subordinazione alla Rivelazione primeva. Cosmologicamente Kalki, figurativamente descritto con la Testa Equina o addirittura come un Cavallo Bianco , è identificabile all'asterismo di Canopo, che ha retto il Polo Sud nel X Ciclo Avatarico (4.480 a.C.-2000 d.C.); per contro il Jagadguru (lett. 'Maestro del Mondo'), in termini ebraici il 'Re del Mondo', identificasi alla costellazione del Dragone, reggente nello stesso periodo indicato il Polo Nord. Ora, a ben vedere, nel 2000 c'è stato un passaggio di consegne ai due Poli; nel senso che a Nord l'Asse è passato dal dominio ciclico del Dragone a quello della Stella Polare ed a Sud, parimenti, al presidio di Canopo è subentrato quello della Croce del Sud. Dalla qual cosa dobbiamo dedurre che la svolta spirituale di cui si parlava più addietro c'è già stata in effetti, dal momento che secondo la cronologia tradizionale ci troviamo a vivere nell'Alba di una novella Età dell'Oro. Ed è stata una svolta tutta interiore, della quale purtroppo la maggior parte dei contemporanei non ha avuto ancora coscienza, tanto che non ha aggiornato il calendario. Ma, sebbene il freddo della notte appena trascorsa prevalga tuttora, il sorgere di un nuovo Sole - da Virgilio preconizzato in una famosa Ecloga come la nascita di un innocente Puer dai tratti apollinei - è ormai prossimo e non mancherà ben presto di produrre i suoi frutti.

    Giuseppe Acerbi

    Tratto da Algiza 15, pp. 6-11. La presente versione è stata pubblicata priva delle note a pié di pagina.

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    Predefinito Re: Il Prete Gianni

    In Origine Postato da geom.antonio
    L’ipotesi secondo la quale questo “Presto Giovanni” di cui parla Marco Polo...
    63

    Di Carocaron

    Carocaron è una città che gira tre miglia, nella quale fue lo primo signore ch'ebbero i Tartari, quando egli si partiro di loro contrada. E io vi conterò di tutti li fatti delli Tartari, e com'egli ebbero segnoria e com'egli si sparsero per lo mondo.

    E' fu vero che gli Tartari dimoravano in tramontana, entro Ciorcia; e in quelle contrade àe grandi piagge, ove non è abitagione, cioè di castelle e di cittadi, ma èvi buon[e] past[ure] e acque assai. Egli è vero ch'egli none aveano signore, ma faceano reddita a uno signore, che vale a dire in francesco Preste Gianni; e di sua grandezza favellava tutto 'l mondo. Li Tartari li davano d'ogni 10 bestie l'una.

    Or avenne che li Tartari moltiplicaro molto. Quando Preste Gianni vide ch'egli moltipricavano cosí, pensò ch'egli li puotessero nuocere, e pensò di partigli per piú terre. Adonqua mandò de' suo baroni per fare ciò; e quando li Tartari udiro quello che 'l signore volea fare, egli ne furo molto dolenti. Alora si partiro tutti insieme e andarono per luoghi diserti verso tramontana, tanto che 'l Preste Giovanni non potea loro nuocere; e ribellàrsi da lui e no gli facean nulla rendita. E cosí dimorarono uno grande tempo.


    Dal Milione

 

 

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