Serve una vera e nuova rappresentanza dei lavoratori per garantire la democrazia del lavoro.
di Francesco Pasquali - 5 novembre 2004
Il sindacato in Italia (Cgil, Cisl, Uil), per ragioni esclusivamente intrinseche, rappresenta un tappo allo sviluppo. In base all'età media degli iscritti, pensionati e lavoratori prossimi alla pensione, è il più vecchio sindacato d'Europa, e la composizione degli aderenti ne influenza le scelte [DATI: EUROBAROMETRO]. La sua azione miope, quindi, si limita a difendere lo status quo (privilegi inclusi): interessi degli ex lavoratori e di chi il lavoro lo ha già. Poco importa ai sindacati dei giovani, dei disoccupati e dei precari, facilitare l'accessibilità al mercato del lavoro non rientra nella sua strategia, non gli conviene. Il sindacato è così uno dei soggetti sociali rimasti al palo, dotato di una struttura pesante, trincerato dai suoi tabù e arroccato alle sue sclerosi classiste.
Il prezzo pagato per questa dannosa e pericolosa politica sposata dalle associazioni, è stata una fisiologica e crescente riduzione dell'area sociale rappresentata. Accade così che il sindacato non riconosce né le ragioni della controparte né quelle della collettività (utenti), danneggiata dalle frequenti e schizofreniche paralisi dell'erogazione dei servizi pubblici.
Il sindacato continua a rivendicare un fantasioso sistema di welfare piuttosto che una nuova e più flessibile regolamentazione del contratto di lavoro compatibile con le nuove caratteristiche dell'offerta di lavoro. Non ha alcuna importanza per i populisti sindacalisti che le realtà locali siano diverse e che conseguentemente lo siano anche le esigenze dei lavoratori, degli utenti e delle aziende; il sindacato continua a restare ingessato dai suoi apparenti principi di egualitarismo, che non coincidono con eguaglianza, ed egoisticamente ancorato al suo strumento sovietico per eccellenza (che insieme ai finanziamenti statali rappresentano le vere armi della triplice), il contratto nazionale di lavoro.
La contrattazione decentrata, infatti, vista la sua sostanziale subalternità al contratto nazionale, appare mortificata ed incapace di esprimersi in ragione di tutte le specificità locali. È necessario rovesciare il rapporto gerarchico che esiste tra i due livelli contrattuali: limitare il contratto nazionale ad una semplice cornice in cui incamerare esclusivamente le competenze normative e retributive di carattere generale, e conseguentemente spostare in sede locale gli elementi retributivi e organizzativi. Per i lavoratori significherebbe finalmente partecipare alla vita dell'azienda, riappropriarsi di una rappresentatività finora negata, attraverso organismi liberamente eletti, si introdurrebbe nelle aziende un meccanismo che tende alla corresponsabilizzazione dei lavoratori per governare rischi e condividere le scelte gestionali.
Una contrattazione locale in condizioni di derogare alle norme del contratto nazionale, rappresenterebbe una chance in più per far riacquistare quella minima affidabilità al sindacato, specie nelle piccole e medie imprese, vale a dire in quelle realtà dove è necessaria una flessibilità operativa per garantire sviluppo ed occupazione (come sostengono da qualche tempo i diversi sindacati indipendenti).
Anziché agire da libera associazione e da attivo interprete del dialogo sociale, il sindacato agisce come un "clandestino attore istituzionale", rinnegando così la sua funzione sociale: riceve ingenti finanziamenti pubblici (patronati, Caf, cariche statali riservate a sindacalisti e altro) ma non è soggetto a quei tipici controlli pubblici (non rende pubblici i bilanci, non assicura al suo interno un ordinamento pienamente democratico); tutto ciò è il frutto delle scellerate scelte effettuate dalle precedenti legislature, che, pur di garantirsi la cosiddetta pax sociale, non hanno esitato a delegare loro delle funzioni di pubblico interesse dietro pubblico e cospicuo compenso.
I lavoratori, quindi, sono stati utilizzati dai loro paladini come merce di scambio e, i loro diritti sono stati svenduti: le confederazioni, in cambio del consenso sociale, hanno ricevuto privilegi finanziari e consolidato il monopolio sindacale, il tutto a danno dei lavoratori. Non solo, le confederazioni continuano ad entrare a gamba tesa nel sistema politico; il primato in questo campo è rappresentato dalla Cgil, il più ideologico, che attraverso il suo speaker, Epifani, ha persino contribuito alla stesura del programma della Grande Alleanza Democratica, l'ennesima alchimia che si tenta a sinistra.
Anche se non sono pochi i casi di conversione dalla gerarchia sindacale all'attività politica, non dovremmo mai stancarci di denunciare queste invasioni di campo che provocano soltanto delle zone grigie all'interno della nostra democrazia. Un ravvedimento delle più accreditate confederazioni sindacali italiane è difficile immaginarlo, e forse sarebbe tardivo; è richiesto molto coraggio, una qualità che il sindacato ha nel suo dna, il problema è ritrovarlo (le bombe alle sedi della Cisl e i fischi ricevuti da Pezzotta non possiamo dimenticarli). Per il momento ci regalano slogan poco incoraggianti come "no senza se e senza ma" e l'ennesimo sciopero nazionale, questa volta unitario, previsto per il 30 di novembre. La protesta sembra essere ormai l'unico collante che nasconde le profonde diversità tra le tre confederazioni, un compromesso che insulta la storia del sindacato.
Il sindacalismo moderno, quello di cui il nostro Paese ha urgente bisogno, armato di passione ed orgoglio, deve diventare il vero interprete e rappresentante di tutti i lavoratori, indipendentemente dalla loro fede politica, consentendogli di essere un soggetto libero nella società moderna ed avviare il cammino verso una compiuta democrazia del lavoro.
Francesco Pasquali