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Discussione: Gli Arafat

  1. #1
    SENATORE di POL
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    Predefinito Gli Arafat

    Esiste o è esistito davvero un uomo chiamato Arafat? Ossia, egli era davvero un solo uomo? Leggendo, ascoltando e confrontando fra loro, in questi giorni in cui il capo dell'Autorità Nazionale Palestinese è sospeso fra la vita e la morte (e la decisione fra le due opzioni pare essere stata sottratta alla natura, ai medici o a Dio, per diventare una decisione politica) i vari punti di vista, sembrerebbe quasi che ci siano e/o ci siano stati più Arafat.
    Più Arafat esistono oggettivamente se si analizza il comportamento coerentemente opportunista e zigzagante di un terrorista che ha conquistato il premio Nobel per la pace, di un eroe del suo popolo che ha usato il potere come un dittatore senza Stato.
    Più Arafat esistono soggettivamente nelle diverse interpretazioni che gli osservatori internazionali hanno dato e danno della sua figura. Dalla sua descrizione come un terrorista impenitente e bugiardo, che si prefiggeva come unico scopo quello della distruzione di Israele, a quella di un grande leader di un popolo oppresso che, abbandonate le velleità rivoluzionarie ha infine lavorato sinceramente, pur in un contesto difficile, per la pace, accettando di spartire la Terra con lo Stato ebraico di Israele.
    Personalmente propendo moderatamente per la prima ipotesi, nel senso che con tutta evidenza Arafat non ha mai rinunciato davvero all'obiettivo finale di "liberazione" di TUTTA la Terrasanta dalla presenza della "entità sionista" costituita dallo Stato di Israele. Tuttavia, ad un certo punto, ha compreso che questo obiettivo poteva essere conseguito anche "a tappe" e utilizzando contemporaneamente diverse armi e diverse strategie, dalla guerra alla diplomazia, dall'arma politica a quella militare a quella demografica, a quella della propaganda, a quella del terrorismo puro.
    Liberare un lembo della Palestina, quello dei "Territori" (Cisgiordania e Gaza) per fare di questo il punto di partenza della "reconquista", da attuare sia con mezzi politico-militari, che terroristici, che diplomatici che demografici , utilizzando l'arma del preteso ritorno dei "profughi" e la maggiore prolificità degli arabo-palestinesi per trasformare lo stesso Israele in uno stato sempre più progressivamente arabo, fino alla sua cancellazione come focolare nazionale ebraico, come terra di approdo di un popolo senza terra.
    Lo zigzagare degli atteggiamenti di Arafat, la sua doppiezza sempre più malcelata negli ultimissimi anni, sono altresì ancorati alla sua concezione del potere, al suo attaccamento al potere dentro al suo mondo, al suo partito, all'OLP e poi all'Autorità Nazionale Palestinese.
    Le sue strette di mano con Rabin e Barak che simboleggiano per molti la sua determinazione a giungere ad una soluzione pacifica della "questione israelo-palestinese", devono essere lette contestualmente ai suoi atti di rottura violenta, di intransigente perseguimento di obiettivi incompatibili con la vita libera e sicura dello Stato di Israele.
    Al tempo stesso, però, sarebbe riduttivo non vedere in lui il capo carismatico di un popolo vittima di eventi storici determinati, in gran parte, da scelte antiche del mondo arabo. Mondo arabo con il quale, dal settembre nero, alla guerra del libano, alla sua scelta pro-Saddam nella prima guerra del golfo, egli ha sempre avuto un rapporto altrettanto ambiguo di quello conservato con i suoi nemici mortali (Israele e Stati Uniti in primo luogo).
    Legato per tanti anni, durante la spaccatura del mondo in due campi contrapposti, a quello dominato dell'Unione Sovietica, Arafat è riuscito ad abbindolare comunque per molto tempo, con l'aiuto della propaganda profonda di coloro che anche in Europa occidentale simpatizzavano per il "campo socialista", gran parte dell'opinione pubblica occidentale e soprattutto europea.
    Questo è stato il risultato più brillante che ha conseguito dal punto di vista del consolidamento della sua inammovibilità, visto un largo riconoscimento internazionale, da unico e legittimo rappresentante del popolo palestinese, anche in momenti in cui la sua popolarità fra gli arabi e fra gli arabo-palestinesi era tutt'altro che all'apogeo.
    Tra tutti "gli Arafat", questo è stato quello che portato più risultati, non solo simbolici (il Nobel) ma anche pratici (la formazione del semistato sotto l'autorità dell'ANP), alla causa del suo popolo.

    Con Senescenza

  2. #2
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    dal quotidiano LIBERO di ieri

    " IL TERRORISTA MILIARDARIO CHE RUBAVA AL SUO POPOLO

    di ANGELO PEZZANA

    Se pensava di entrare nei libri di storia, Arafat può riposare tranquillo. Dopo quasi quarant’anni di scena sul palcoscenico palestinese ci entrerà sicuramente. Anche se non sarà l’Arafat statista ad essere ricordato. La divisa militare che ha sempre indossato, insieme alla keffiah, rappresenta il limite che non ha mai superato nella sua lotta per conquistare al suo popolo uno S t at o. Uno Stato che è nato nell’immaginario palestinese unicamente in funzione anti Israele, non avendo avuto quel popolo nella sua storia mai alcuna rivendicazione di indipendenza. Arafat è rimasto per tutta la vita un terrorista, non è mai stato capace di entrare nel ruolo successivo, di fatto è rimasto lontano dai reali bisogni della sua gente. Che ha potuto governare e controllare soltanto grazie ad un sistema di corruzione interna e complicità internazionale. Tenere nelle proprie mani i cordoni della borsa gli ha consentito di condizionare alleanze e fedeltà, rendendo le istituzioni dell’Autor ità palestinese espressioni politiche di pura facciata. Il consenso che è riuscito a raccogliere nel mondo intero avrebbe dell’incredibile se pensiamo quanto poco interessino, anche e soprattutto ai pacifisti, i conflitti locali che non coinvolgano ovviamente America e Israele. La carta di Arafat non è stata la Palestina, ma Israele. Sullo Stato ebraico non gli è stato difficile raccogliere consenso. Dopo la seconda guerra mondiale e dopo la Shoah, sembrava (o almeno ci si illudeva) che sarebbe stato impossibile assistere alla rinascita dell’antisemitismo. Ci sbagliavamo. Sono quarant’anni che l’attenzione di gran parte dell’infor mazione mondiale è puntata sul conflitto israelo-palestinese, indicando in Israele il principale pericolo per la pace mondiale, quasi come se il futuro del pianeta dipendesse dall’esistenza o meno di uno Stato palestinese. Arafat l’aveva capito benissimo, tant’è che quell’appoggio ha saputo conservarlo non tanto lavorando per la costruzione del suo Stato, ma garantendo i suoi mentori con una guerra infinita contro l’esistenza stessa di Israele. Arafat ha sempre saputo, da quel gran bugiardo che era, dire tutto e il suo esatto contrario a seconda se parlava in arabo o se si esprimeva in inglese. Si riempiva la bocca della parola pace se parlava in inglese, mentre in arabo chiamava i suoi alla conquista di Gerusalemme. Dal massacro degli atleti israeliani durante le olimpiadi di Monaco ai dirottamenti aerei, dalle stragi negli aeroporti ai kamikaze usati per uccidere civili in Israele, Arafat è stato il rais che ha regalato all’opinione pubblica occidentale la parola “resistenti” che ambiguamente i media usano al posto di terroristi. Quando, sotto il benevolo sguardo di Clinton, disse no a Barak (laburista, non il falco Sharon) che gli offriva su un vassoio d’argento lo Stato palestinese formato dal 97% della Cisgiordania, Gaza per intero e Gerusalemme est per capitale, quanti si chiesero cosa gli stesse passando per la testa? Era lo Stato di cui tanto aveva blaterato e ora rispondeva no, grazie, non interessa. Quanti si sono chiesti in quei giorni se non era Israele ad interessargli, come da tante parti si continuava a insistere che quello e non altri era il suo vero progetto. Arafat ha potuto permettersi di tutto e continuare ad essere ugualmente credibile nel mondo democratico occidentale. Sembra che abbia dichiarato di voler essere sepolto sulla spianata delle moschee, ma questo suo ultimo desiderio, come la scomparsa dell’“entità sionista”, rimarrà tale. Sharon ha risposto di no, nemmeno in altro luogo di Gerusalemme. Per motivi di ordine pubblico, non tanto per il timore che il ricordo del rais defunto possa trasformarsi in un’icona pronta per la venerazione futura. Qualcuno si ricorda ancora in Egitto di Nasser? Nessuno, e tra breve anche il ricordo di Arafat svanirà, sostituito, speriamo, dalla volontà che una nuova leadership avrà per affrontare e risolvere tutti i problemi lasciati irrisolti. Sicuramente lo rimpiangeranno, a destra come a sinistra, quelli ai quali non importa nulla che l’Iran stia per dotarsi della bomba atomica, quelli ai quali la riconferma di Bush alla Casa Bianca non vuole dire guerra al terrorismo ed esportazione della democrazia ma l’“impero americano” che si riconferma tale, quelli ai quali importa solo che i diritti umani siano verificati e protetti in America e Israele ma se ne fregano bellamente di quanto avviene altrove. A tutte queste anime belle Arafat mancherà. A noi no. La sua dipartita rappresenta una boccata di ossigeno per il futuro, libero e democratico, di una parte del Medio Oriente.
    "


    Con senescenza

  3. #3
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    Dal più importante quotidiano israeliano:

    " Il tragico lascito di Arafat

    Quando morì Stalin, milioni di russi piansero l’uomo che aveva assassinato milioni di loro concittadini. Ancora oggi c’è chi rimpiange Stalin, sebbene la storia consideri il suo dominio uno dei periodi più cupi di quel paese.
    Un lascito simile è quello di Yasser Arafat.
    Arafat è responsabile per la morte di innumerevoli più palestinesi che israeliani: tantissimi nel lungo e brutale cammino per diventare “l’unico legittimo rappresentante del popolo palestinese”, per non dire dei molti che sono morti nella guerra, totalmente evitabile, attualmente in corso.
    Eppure sarà pianto, e sinceramente, da milioni di palestinesi non solo come un capo carismatico, ma come un padre della patria, come l’uomo che ha creato dal niente il nazionalismo palestinese e che ha imposto all’agenda internazionale la mancanza di stato della sua gente.
    Un padre della patria, tuttavia, che è stato tutt’altro. Definendo il nazionalismo palestinese con un solo obiettivo, la cancellazione di Israele, Arafat più di qualunque altro leader ha negato uno stato al suo stesso popolo. Arafat è stato un distruttore, non un costruttore, perché oltre ad essere un padre fondatore del nazionalismo palestinese, è stato il padre fondatore di qualcosa di ben più vasto: il moderno terrorismo.
    Arafat ha dimostrato che il terrorismo può servire per ottenere legittimazione più che per perderla. Se non fosse stato terrorista, non sarebbe mai arrivato al podio delle Nazioni Unite nel 1974 con la pistola alla cintola, né al prato della Casa Bianca il 13 settembre 1993, né da Tunisi a Gaza dieci anni fa.
    Naturalmente questi ultimi due traguardi vennero raggiunti con la promessa di porre fine al terrorismo, promessa che Arafat non ha mai mantenuto. Persino durante i giorni migliori del processo di Oslo, vari esponenti palestinesi di tanto in tanto ammettevano francamente che il terrorismo era stato semplicemente sospeso fino a quando non sarebbero più riusciti a strappare altro da Israele al tavolo delle trattative. Quel momento giunse al summit di Camp David del luglio 2000, quando Arafat si trovò di fronte a un scelta molto semplice: iniziare a edificare lo stato per il quale sosteneva d’essersi battuto o tornare al terrorismo nella lotta per tutta la terra, Israele compreso.
    Ora i successori di Arafat potrebbero avanzare la richiesta che venga sepolto a Gerusalemme. L’amara beffa è che, se Arafat avesse accettato l’offerta di Barak, oggi assai probabilmente verrebbe sepolto senza problemi nella metà palestinese di Gerusalemme, capitale dello stato palestinese . Invece, avendola rifiutata, questo non avverrà, quasi a simboleggiare la condizioni di “senza stato” che egli stesso a perpetuato.
    Arafat lascia un’altra pesante eredità: la prima società nella storia che ha glorificato su scala nazionale, a cominciare dai bambini delle elementari, l’assassinio di gente innocente tramite suicidio. Resta da vedere come questa società – alimentata con le fantasie del “ritorno”, nella convinzione che ogni città israeliana sia un “insediamento”, e nell’idea che Israele si trovi tutto su “terra rubata ai palestinesi” – come potrà insegnare un nazionalismo che non sia fondi sulla cancellazione di Israele.
    E’ difficile immaginare che gli immediati successori di Arafat riescano a fare qualcosa che inizi a portare la loro gente su questa nuova strada. E così già si incomincia a dire che Israele, con Arafat, perde un’opportunità perché Arafat era l’unico che avrebbe potuto porre fine una volta per tutte alla guerra con Israele. È vero il contrario. Proprio il carisma di Arafat, il suo status e i suoi instancabili sforzi contribuivano a tenere viva la guerra contro Israele.
    E tuttavia, se per Arafat era sempre meno facile restare al comando di una coalizione di terroristi e contemporaneamente addossare a Israele la colpa per lo stallo nel processo di pace, per i suoi successori sarà ancora più difficile usare l’arma del terrorismo e nello stesso tempo incolpare Israele. Né sarà facile, per loro, preservare un’altra delle tragiche eredità di Arafat: l’autocrazia di un solo uomo. Soltanto Arafat fu capace di prendere un popolo che in linea di principio era uno dei più istruiti, navigati e potenzialmente democratici di tutto il mondo arabo e, con il tacito assenso di Israele e della comunità internazionale, imporgli uno spietato stato di polizia.
    La tentazione adesso sarà quella di giudicare la nuova dirigenza palestinese soltanto in base alle sue capacità di controllo. Tuttavia, affinché tale controllo sia usato al servizio della pace, dovrà essere radicato su solide fondamenta di legittimità democratica. A lungo termine un governo veramente rappresentativo è più importante di un governo superficialmente condiscendente verso la comunità internazionale. Perché prima o poi una dittatura corrotta finisce inevitabilmente per fare affidamento sul conflitto esterno per reggere se stessa.

    (Da: Jerusalem Post, 7.11.04) "
    www.israele.net

    Shalom

  4. #4
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    da www.tempi.it

    " Premiata Arafat spa

    Il capo dell’Olp ha sempre fatto un uso spregiudicato dei soldi dei palestinesi e favorito la corruzione
    per fini politici. Da qui le liti e i misteri
    attorno alla sua persona

    Uscendo di scena, Yasser Arafat lascia dietro di sé un patrimonio che non è solo politico: secondo varie stime il leader palestinese è detentore di una ricchezza personale superiore a 1,3 miliardi di dollari, mentre all’Olp sono attribuite proprietà e partecipazioni finanziarie per un valore di 10 miliardi di dollari. Mentre buona parte del patrimonio dell’Olp è stato accumulato attraverso il traffico di armi e droga, sequestri di persona, contrabbando di merci contraffatte, estorsioni ai danni di imprenditori e commercianti, riciclaggio di denaro sporco e altre attività criminali, l’attuale ricchezza personale di Arafat è soprattutto frutto della distrazione di fondi dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) in conti bancari e proprietà immobiliari all’estero intestate a lui o a persone del suo circolo.

    Scomparso il 43% del bilancio Anp
    La furiosa reazione della signora Suha nei confronti della dirigenza dell’Olp, accusata di seppellire il leader prima che sia morto, si spiega anche col fatto che ogni mese Arafat pescava 100mila dollari dal bilancio della presidenza e li mandava a Parigi per le spesucce della sua signora e della di lei famiglia, un’usanza che la nuova dirigenza palestinese potrebbe decidere di interrompere. Ma non bisogna concludere avventatamente che il patrimonialismo di Arafat abbia motivazioni banalmente familistiche: per il leader dell’Olp i soldi sono sempre stati uno strumento politico, da usare per garantirsi consenso, lealtà e servigi nell’altrimenti incontrollabile mondo palestinese. Dalle manifestazioni “popolari” di sostegno ad Arafat per le vie di Gaza e Ramallah fino alle decisioni dell’equivalente palestinese del governatore della Banca d’Italia organiche agli interessi della cricca intorno al capo dell’Anp, tutto è comprato con denaro o favoritismi che permettono ai beneficiari di accumulare denaro. Gli esempi abbondano. Nel 1997 la Corte dei Conti palestinese ha appurato l’assenza di rendiconto per 326 milioni di dollari su 800 nel bilancio dell’Anp (il 43% del totale). Ne è seguita un’indagine del parlamento palestinese che ha scoperto una serie infinita di abusi: utilizzo di fondi ministeriali per spese personali da parte di tre ministri; affitti, salari e note spese gonfiate; tangenti; tasse non dovute estorte e fatte sparire in conti personali; esenzioni doganali abusive su merci importate concesse ad amici degli amici. Il rapporto finale chiedeva l’allontanamento di almeno due ministri, il parlamento votò 51 a 1 una mozione per lo scioglimento del governo. Arafat si limitò a fingere di avviare una sua investigazione sulla materia, i ministri rimasero in carica e tutto continuò come prima.
    Nel 1999 Arafat ha ottenuto l’approvazione dell’Autorità monetaria palestinese al decreto di scioglimento del Consiglio di amministrazione della Palestine International Bank (Pib), la più grande banca privata palestinese accusata di varie irregolarità, ma in realtà colpevole di un solo delitto: non aver permesso a Muhammad Rashid, il consigliere economico di Arafat, di prendere il controllo della banca. Il nuovo Consiglio di amministrazione della banca, di gradimento di Arafat nonostante ne faccia parte un bancarottiere ricercato dall’Interpol, da cinque anni non convoca assemblee degli azionisti né pubblica il bilancio annuale (al momento della confisca la banca aveva fondi e proprietà per 105 milioni di dollari). Anche le proprietà personali del fondatore della banca, Issam Abu Issa, sono state sequestrate, compresa la sua automobile, diventata un possesso personale di Yasser Arafat.

    Yasser ruba con l’aiuto di un israeliano
    Un’altra truffa sistematica autorizzata dal presidente dell’Olp riguarda gli stipendi della funzione pubblica, in particolare quelli delle 14 forze di polizia e sicurezza presenti nei Territori. Nel sistema voluto da Arafat, gli stipendi sono trasferiti ai responsabili dei vari corpi, che poi provvedono a pagarli agli agenti. Nell’aprile scorso si è scoperto che il generale Haj Ismail Jabber ha vantato per anni un libro paga di 77mila poliziotti, avendone alle dipendenze solo 70mila, per una distrazione di fondi pari a 2 milioni di dollari al mese. Ci sono indizi che parte di questa cifra sia stata usata per finanziare azioni terroristiche della seconda Intifada.
    Moltissimo altro si potrebbe raccontare, ma vale la pena concludere con un dettaglio paradossale: parte dei maneggi di Arafat si sono compiuti con la collaborazione israeliana; il trasferimento di una cifra imprecisata fra i 400 e i 900 milioni di dollari spettanti all’Anp nei conti privati di Arafat in Svizzera è stata resa possibile dall’assistenza di una finanziaria israeliana, la Arc di Yossi Ginossar (un ex agente segreto!). Incredibile ma vero: di giorno si fanno la guerra, di notte rubano insieme!
    di Casadei Rodolfo
    "

    Shalom

  5. #5
    Iterum rudit leo
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    Predefinito Non piangete per Arafat

    Ci dispiace, ma proprio non ce la sentiamo di unirci
    al coro funebre che canta le lodi di Yasser Arafat.
    Dei morti non si dovrebbe dire che bene, ma in un
    momento politico così delicato bisogna anche evitare
    di dire bugie.

    Non è vero che con Arafat scompare il padre del popolo
    della Palestina.
    Se il popolo palestinese dei Territori resta uno dei
    più poveri del mondo, la colpa è in buona parte di Arafat
    e della sua avida famiglia.
    Secondo la Cnn gli Arafat - negozianti e piccoli
    impiegati quando comincia l'ascesa di Yasser - sono tra
    le venti famiglie più ricche del mondo.
    Arafat e una quarantina di familiari - moderna versione
    di Alì Babà e dei quaranta ladroni - sono più ricchi di
    molte dinastie imprenditoriali europee.
    Personalmente, Yasser Arafat era il sesto capo di Stato
    o di governo più ricco del pianeta secondo la rivista
    Forbes: subito dopo la regina Elisabetta ma molto più
    avanti di Silvio Berlusconi.

    Da dove vengono questi soldi?
    Non più dall'Arabia Saudita, che da tempo ha tagliato i
    fondi ad Arafat e preferisce sostenere Hamas.
    Il grosso viene dall'Unione Europea, che negli anni 2000
    ha versato in media all'Autorità Nazionale Palestinese
    232 milioni di Euro all'anno, senza contare i contributi
    indiretti passati tramite l'Onu.
    Un autentico fiume di denaro prelevato dalle tasche dei
    contribuenti europei, italiani compresi, che si è
    disperso per conti bancari di tutto il mondo e ha
    permesso al "padre del popolo" di diventare uno dei
    grandi miliardari internazionali mentre i suoi "figli"
    continuano a vivere di stenti.
    Si comprende come, quando si parla di lotta per
    l'eredità di Arafat in corso senza esclusione di colpi
    tra collaboratori e familiari, non si tratti solo di
    un'eredità politica.

    Non è vero che Arafat era un uomo di pace.
    Certo, si può affermare che non utilizzava il grosso dei
    fondi europei per finanziare il terrorismo, visto che la
    parte più cospicua rimaneva nelle tasche sue, della
    moglie e di una variopinta corte dei miracoli.
    E tuttavia rimaneva abbastanza per sostenere gli
    attentati.
    Due avvocati che rappresentano i familiari dei morti di
    nazionalità francese negli attentati suicidi in Israele
    in una causa davanti al Tribunale di Parigi dove
    chiedono che si accertino le responsabilità personali
    del leader palestinese nel terrorismo hanno appena
    pubblicato presso la casa editrice Albin Michel "Le
    dossier Arafat", un'impressionante compilazione di
    documenti che attestano pagamenti sistematici da parte
    del raìs e dei suoi più diretti collaboratori a
    terroristi delle Brigate dei Martiri al-Aqsa (la
    branca laico-nazionalista del terrorismo palestinese,
    concorrente di quella religiosa di Hamas) e alle
    loro famiglie.

    Emergono anche documenti politici, secondo cui Arafat
    incoraggiava consapevolmente gli attentati per rendere
    più difficile una pace che, favorendo una Palestina
    democratica, avrebbe permesso ai palestinesi di
    spazzare via il suo regime di corruzione.

    Non manca neppure qualche sordida storia di coltivazione
    e commercio di droga, in aggiunta al contrabbando e ai
    contatti con la criminalità organizzata di mezzo mondo.

    Infine, non è vero che Arafat garantisse la Palestina
    dal caos.
    Ormai non controllava più gran che.
    Il caos era già scoppiato non perché gli ultra-
    fondamentalisti islamici fossero migliori di lui sul
    piano morale o politico, ma perché gli infiniti
    scheletri nell'armadio del raìs gli impedivano di
    condannarli, e tra le sue stesse truppe era scoppiata
    la guerra per dividersi il tesoro dei quaranta ladroni.

    Massimo Introvigne
    (C) il Giornale, 11 novembre 2004
    http://www.cesnur.org/2004/mi_arafat2.htm

  6. #6
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    " Se subentrano i rivali di Arafat

    Sebbene Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e Mohammad Dahlan cerchino di minimizzare l’incidente avvenuto l’altra sera a Gaza smentendo che si sia trattato di un tentativo d’attentato, la teoria che va per la maggiore fra i palestinesi è che si trattasse di un chiaro segno che vasti ambienti in Cisgiordania e Gaza si rifiutano di accettare Abu Mazen come erede di Yasser Arafat.
    L’opposizione ad Abu Mazen e Dahlan prevale soprattutto fra la giovane guardia di Fatah, nota come Tanzim, e nella sua ala militare, le Brigate Martiri di Al Aqsa (che adesso si fanno chiamare Brigate Arafat). Costoro, insieme a tanti altri nei territori, hanno assistito allo scontro degli ultimi due anni fra Arafat e il duo Abu Mazen-Dahlan, sfociato nelle dimissioni di Abu Mazen da primo ministro palestinese poco più di un anno fa. In seguito a quello scontro, Abu Mazen troncò tutti i rapporti con Arafat per quasi un anno, mentre a Gaza Dahlan si faceva una fama come di qualcuno che criticava Arafat quasi apertamente. Le critiche furono accompagnate nell’ultimo anno da scoppi di violenza fra gli uomini di Dahlan e i capi dei servizi di sicurezza palestinesi leali ad Arafat, al comando di Mussa Arafat e Ghazi Jibali.
    L’impressione oggi, nei territori, è che gli avversari di Arafat ne stiano prendendo il posto, col rischio di scatenare furibonde reazioni in Cisgiordania e a Gaza. Gli studenti dell’università Bir Zeit, ad esempio, hanno marciato per le vie di Ramallah all’indomani della morte di Arafat gridando “No a Dahlan e no ad Abbas (Abu Mazen), Abu Amar (Arafat) è il fondamento”. Intendendo che coloro che succedono ad Arafat devono seguire la strada da lui indicata e non devono scaturire dalle fila dei suoi oppositori.
    È corretto presumere che l’opposizione ad Abu Mazen e Dahlan sia più forte a Gaza che in Cisgiordania, giacché nella striscia la lotta di potere intestina di Fatah è più accanita. Yasser Arafat esercitava una funzione di equilibrio fra rivali all’interno di Fatah a Gaza e ora, senza Arafat, l’equilibrio nella striscia è minacciato e c’è il rischio che la violenza aumenti.
    Nei giorni scorsi si sono uditi commenti insultanti nei confronti di Abu Mazen e Dahlan nelle piazze delle città palestinesi. Abu Mazen viene accusato d’essere troppo incline alla capitolazione e al compromesso, quando non espressamente d’essere un “servo” di Stati Uniti e Israele, anche solo perché è stato il primo e unico importante leader palestinese che abbia criticato la “militarizzazione” dell’intifada.

    (Danny Rubenstein su Ha’aretz, 15.11.04)
    "


    Shalom

 

 

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