La liberazione degli schiavi fu gestita in modo approssimativo
Lincoln: che noia emancipare i neri

Posti di fronte agli scontri razziali che si ripetono in Gran Bretagna, in Germania e altrove, molti osservatori esaltano la figura di Abraham Lincoln, il presidente che vinse la guerra civile americana del 1861-65, giustamente considerato il grande emancipatore degli schiavi d’origine africana.
In realtà, come hanno riferito gli storici Benjamin Thomas (1952), Benjamin Quarles (1962), Nathaniel Weyl (1971) e William Marina (1971) e come è stato commentato dal giornalista Robert Morgan (1993), pur considerando la schiavitù una istituzione ingiusta, Lincoln non riteneva che i neri potessero serenamente convivere con i bianchi. Con argomentazioni che susciterebbero orrore e sgomento al giorno d’oggi, respingeva infatti la nozione dell’uguaglianza fra le razze umane e, per risolvere il problema di “cosa fare di quei quattro milioni di schiavi liberati”, proponeva la deportazione in terre tropicali. Scriveva nel 1857:"esiste presso quasi tutti i bianchi una naturale ripugnanza all'idea di una mescolanza senza discriminazioni tra la razza bianca e quella nera.Mi ribello alla logica secondo cui se non voglio una donna negra come schiava debbo volerla necessariamente per moglie.Non ho bisogno ne dell'una ne dell'altra.Sotto certi aspetti essa non è certamente una mia pari.La separazione delle razze è la sola maniera efficace per prevenire l'amalgama". Era, insomma, quello che oggi si definisce un “razzista”: non per caso, nell’Illinois, era riuscito a far vietare i matrimoni misti.
Liberi, dunque, gli schiavi. Ma spediti ben lontano. E di quell’idea Lincoln non faceva mistero, tanto più che essa rispecchiava quanto nel 1785 aveva scritto il futuro presidente Thomas Jefferson: “Dopo l’emancipazione gli schiavi devono essere trasferiti in località che le circostanze indicheranno come appropriate, dove costituiranno un popolo libero e indipendente al quale noi daremo alleanza e protezione”. Forte di quel precedente, Abraham Lincoln, parlando a Springfield nel luglio 1852, affermò essere "perfettamente morale l’idea di restituire all’Africa i suoi figli”. Ancora, in occasione di un discorso tenuto il 16 ottobre 1854 a Peoria, si disse favorevole al "trasferimento in Africa degli schiavi liberati”. E, rispondendo alle domande di alcuni elettori, nel 1854 e 1857 andò ben oltre: “Personalmente ritengo, e lo ritiene anche l’opinione pubblica, che non è possibile trasformare gli ex schiavi in cittadini con pieni diritti sociali e politici”. E ancora: “Quasi tutte le persone di razza bianca respingono, per naturale repulsione, l’idea di una indiscriminata amalgamazione fra bianchi e neri”.
Nel 1858, in occasione di un discorso tenuto a Ottawa, fu ancora più esplicito: “Non penso di introdurre il concetto di uguaglianza fra bianchi e neri. Esistono fra le due razze differenze tali da non consentire una coesistenza basata sulla assoluta eguaglianza”. Nel 1860 Lincoln inserì le sue idee sull’emancipazione dei negri in parecchi discorsi pubblici: come riferisce lo storico Richard N. Current, in una conferenza tenuta a New York ribadì che “l’emancipazione degli schiavi deve essere graduale e accompagnata da un programma di trasferimento oltre frontiera”.
La guerra esplose, ci si dice, a causa delle contrastanti vedute sulla schiavitù esistenti fra gli stati del nord e quelli del sud. Va però ricordato che, come riferisce lo storico Leland D. Baldwin, solo un terzo della popolazione bianca degli stati meridionali traeva vantaggio dalla schiavitù, e che ben cinque stati schiavisti (Delaware, Missouri, Maryland, Kentucky e District of Columbia) si schierarono a favore dei nordisti. E va ricordato altresì che esistevano negli stati del sud oltre 250 mila negri liberi e che nella città di New Orleans, per fare un esempio, c’erano tremila negri proprietari di schiavi negri. Ciò che in realtà preoccupava gli abitanti degli stati del sud era lo spaventoso livello di criminalità esistente nelle città del nord a causa della presenza di migliaia di negri liberi ma disoccupati.
Come in proposito ha scritto lo storico Allan Nevins, “se non ci fossero state le differenze razziali, la soluzione del problema della schiavitù sarebbe stata facile”.
Invece, è sempre Nevins a dirlo, “l’eliminazione della schiavitù fece esplodere il problema dei negri, un problema di cui la gente del nord, lasciandosi dominare dai sentimenti, negava l’esistenza; al nord, infatti, i negri erano considerati dei bianchi dalla pelle un po’ più scura e che avevano solo bisogno di qualche anno di scuola”.
I fatti purtroppo confermarono alcune di quelle tristi previsioni. Nel corso della guerra civile gli schiavi vennero man mano a trovarsi liberi e, con un certo sgomento, si accorsero di essere abbandonati a se stessi. Quale destino li attendeva? Molti di loro, dopo avere vagabondato, si dettero alla malavita e subirono persecuzioni e vendette. Si tentò di rimediare promulgando una legge speciale, chiamata Confiscation Act, che stabiliva che gli schiavi liberati dovevano essere condotti in speciali campi di concentramento, detti Contraband Camps, dai quali era impossibile comunicare con l’esterno e nei quali la mortalità superava il 5 per cento.
Il sospetto, più che fondato, che quei poveracci stessero meglio quando erano schiavi, rafforzò in Lincoln l’idea di mandarli altrove. Prese in esame la Liberia che però non poteva accogliere tutta quella gente. Così prese contatto con un certo Ambrose W. Thompson, proprietario di immense piantagioni nell’istmo di Panama, e studiò con lui la possibilità di un trasferimento in America Centrale. Il Congresso, con verbale n. 568 della 36a Camera dei Rappresentanti, espresse parere favorevole e suggerì di prendere in considerazione anche Haiti e il Brasile. Il senatore Frank P. Blair invitò il presidente a non dare corso all’emancipazione se non si fosse varato un sicuro programma di deportazione all’estero. Anche la Chiesa la pensava nello stesso modo: il 18 maggio 1862 il reverendo James Mitchell, rivolgendosi al presidente, auspicò una rapida soluzione del problema: “La presenza di molti neri in mezzo a una popolazione bianca”, disse, "costituisce una minaccia per la vita nazionale”. Incoraggiato da quelle parole, il 14 agosto 1862 Lincoln invitò alla Casa Bianca una delegazione di colore: “È superfluo discutere se ciò sia giusto o ingiusto”, disse ai suoi ospiti. “Ci basta sapere che voi siete a disagio in mezzo a noi e che noi mal sopportiamo la vostra presenza. In breve, è bene separarsi”.
Ma la guerra rendeva difficile l’applicazione di qualsiasi progetto complesso. Tutte le navi erano impegnate per scopi militari, e a ciò si aggiunsero le proteste dell’Honduras, del Nicaragua e del Costarica che tramite l’ambasciatore Luis Molina senza complimenti dissero a Lincoln che l’America Centrale non intendeva diventare “luogo di discarica di una piaga della quale gli Stati Uniti vogliono disfarsi”. Lincoln riuscì a malapena a spedire in Liberia e ad Haiti poche migliaia di ex schiavi: il 31 gennaio 1865 il Congresso, ritornando sui propri passi, dichiarò illegale la schiavitù anche senza un programma di deportazione. E in aprile la guerra ebbe termine. Quanto a Lincoln, continuò a rimpiangere il proprio progetto. Il 15 aprile 1865, poco prima della sua tragica morte, parlando col generale Benjamin F. Butler disse che rinunciare all’espulsione dei negri era stato un imperdonabile errore: “Mi chiedo cosa faremo di loro”, borbottò. “L’idea di una guerra razziale mi terrorizza”.