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    Iterum rudit leo
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    Predefinito Perchè Kerry non poteva vincere

    New York. Ogni giorno arriva una nuova e brillante spiegazione della vittoria di George W. Bush e della sconfitta di John F. Kerry: il presidente ha vinto per i valori morali, no è stato rieletto per il matrimonio gay o forse per la paura, anzi no per i fondamentalisti cristiani (questa va fortissimo in Italia). No, no, è stato Kerry a perdere, per quella fotografia in windsurf e quell'altra travestito da cacciatore, e poi ci sono state le gaffe di Teresa, i giovani che sono rimasti a casa mentre i poveri hanno votato per tagliare le tasse ai ricchi e bla-bla-bla. E non dimentichiamoci del paese spaccato a metà, dell'affluenza alle urne che ha favorito le truppe crociate, e della guerra in Iraq, e del costo del petrolio, e di Michael Moore, e di Karl Rove, e dell'operazione al cuore di Bill Clinton e dei Boston Red Sox eccetera eccetera.
    Non si capisce, però, perché a nessuno sia venuto in mente di dire una cosa banale, cioè che Bush ha vinto perché ha preso più voti e che ha preso più voti perché i conservatori negli Stati Uniti sono la maggioranza non da ieri, ma da decenni. Con una guerra in corso, e nonostante i problemi in Iraq e le armi che non sono state trovate, solo uno spericolato poteva prevedere che gli americani cambiassero cavallo in corsa e si affidassero al candidato che ha spiegato di non considerare l'11 settembre come una dichiarazione di guerra e una minaccia ai valori su cui è fondata l'America.

    ***
    Dal 1968 a oggi, in trentasei anni, i candidati democratici alla presidenza degli Stati Uniti hanno vinto solo tre volte e perso sette. La prima volta ci sono riusciti nel 1976 con Jimmy Carter, un pio governatore della Georgia (ed ex insegnante di catechismo) che sconfisse l'anonimo presidente Gerald Ford in seguito allo scandalo del Watergate. Ford era debolissimo perché non era stato eletto né presidente né vicepresidente. Era subentrato prima al vice di Richard Nixon, Spiro T. Agnew (nel 1973), e poi a Nixon quando questi, l'anno successivo, si dimise per il Watergate. Avversario e condizioni più facili non ci potevano essere per i democratici, i quali con un candidato del sud, devotissimo al Signore e preferito dagli evangelici, presero il 50,1 per cento contro il 48 dei repubblicani. L'altro vincitore è stato Clinton, nel 1992 e nel 1996. Clinton, anch'egli governatore battista del sud, non riuscì mai a conquistare la maggioranza dei voti, neanche il giorno della rielezione e dovette comunque vedersela con un Congresso a maggioranza repubblicana. La prima volta fu eletto soltanto perché i conservatori presentarono due candidati: Bush padre (che prese il 37 per cento) e Ross Perot (19 per cento). Clinton convinse il 43 per cento degli americani, la maggioranza relativa ma solo una minoranza degli elettori. Quattro anni dopo sconfisse Bob Dole con il 49 per cento contro il 40 del repubblicano e oltre l'8 di Perot. Nel 2000 Al Gore, l'erede di Clinton e degli otto anni di pace, prosperità, surplus di bilancio, armonia e "fine della storia" affrontò George W. Bush, cioè un candidato figlio di papà, inesperto e non particolarmente spigliato. Eppure Gore perse, anche se d'un soffio e con le polemiche sui riconteggi in Florida. Il 53 per cento preso quest'anno da George Bush è dunque una percentuale di voto più alta di quella presa da qualsiasi candidato democratico dal 1964.

    ***
    Il partito democratico americano non è più un partito nazionale. In venti Stati su 50 non ha più senatori eletti ed è assente da dodici Stati del sud e del midwest che un tempo erano sue roccaforti, in Georgia, Carolina del sud, Carolina del nord, Virginia, Kentucky, Tennessee, Alabama, Missouri, Oklahoma, Texas, Kansas e Arizona. Al contrario, i repubblicani sono molto forti negli Stati democratici. In Pennsylvania, che Bush ha perso con uno scarto inferiore rispetto al vantaggio su Kerry in Ohio, i senatori sono entrambi repubblicani. A New York sindaco e governatore sono repubblicani da almeno dieci anni. Arnold Schwarzenegger governa in California, e così via.
    L'ex senatore democratico della Georgia, Zell Miller, l'anno scorso aveva provato a spiegare questo fenomeno con un libro, "A national party no more", ma è stato deriso e insultato dagli intellettuali liberal. Aveva ragione lui, e torto i sapientoni radical chic. Guardate la cartina degli Stati Uniti divisa per contee pubblicata in questa pagina e vi accorgerete che non esiste un'America blu (il colore dei democratici) e un'America rossa (il colore dei repubblicani), come si dice oggi nella chiacchiera post elettorale. Non esiste una nazione divisa a metà tra gli Stati pro Bush e gli Stati pro Kerry. C'è una sola America, quasi tutta rossa, quasi tutta repubblicana, da costa a costa, da nord a sud, con dei piccoli punti blu, democratici, in corrispondenza delle grandi metropoli. Prendiamo New York, per esempio, Stato blu, vinto da Kerry con uno scarto di diciassette punti. A Manhattan Kerry ha raggiunto il 74 per cento delle preferenze. Percentuali simili ha preso negli altri quartieri della città, con l'eccezione di Staten Island, dove ha vinto Bush. Subito fuori la città la differenza tra Kerry e Bush è di soli tre punti, mentre nel resto dello Stato i due candidati sono in parità, 49 a 49. Lo stesso discorso si può fare sulla California, dove con l'eccezione delle grandi città, lo Stato è a grande maggioranza repubblicana. Rispetto al 2000, Bush ha preso quasi tre milioni e mezzo di voti in più nelle grandi città, ha aumentato i consensi in 45 Stati su 50. I margini di vittoria negli Stati rossi si sono ampliati, mentre è diminuito il distacco in quelli blu, al punto che Bush ha fatto meglio di quattro anni fa anche a New York, in Connecticut e addirittura nel Massachusetts di Kerry.

    ***
    Gli Stati Uniti sono un paese in continua crescita e con un popolo in perenne movimento. La gente lascia le città e si trasferisce a ritmi impressionanti alla ricerca di migliori condizioni di vita, di lavoro, di spazio. Nascono nuove comunità, nuove città e i quartieri suburbani delle metropoli sono circondati da un'ulteriore cintura residenziale, "exurbia", che è diventata il paradiso della vita borghese americana. Nella cittadina di Henderson, un ex villaggio a nord di Las Vegas, a settembre sono state aperte 12 scuole elementari. Eppure è come se i democratici non vedessero questo dinamismo, non parlassero a questa gente, come se disprezzassero chi insegue il sogno di una vita tranquilla e a misura familiare. David Brooks ieri sul New York Times ha scritto che quando i democratici ne parlano usano tutti gli stereotipi possibili, descrivono una vita materialista, vuota e conformista. Confermata dalle caricature che ne fa Hollywood, come nei film "American Beauty" o "Il laureato". Secondo Brooks, che sull'argomento ha scritto un libro, invece si tratta della parte più vitale della società americana, gente che lascia mutui, pendolarismo, difficoltà e strutture sociali stressate per andare in posti con ampi spazi, magari facendo un salto nell'ignoto, in città che ancora non sono state costruite, ma che promettono una prospettiva, un futuro, tasse basse e lavori pionieristici nel campo della bio e della nanotecnologia: "I repubblicani hanno vinto anche perché Bush e Rove hanno capito questa cultura". E' la conquista del West che non s'è mai fermata, è la conferma che lo spirito della frontiera non ha mai abbandonato gli americani. Ma i democratici non sanno che cosa mettersi.

    ***
    Come sia possibile che i democratici abbiano perso il contatto con l'America e siano rimasti confinati nelle riserve metropolitane è l'argomento di dibattito di questi giorni. Ovviamente in Italia si tende a confondere le cose. Gli stessi analisti che in questi anni hanno raccontato un'America che non c'era, che non hanno capito che cosa stava succedendo, che non ci hanno preso, che hanno sbagliato analisi e previsione, ora spiegano con la medesima sicumera che Bush ha vinto perché l'America è diventata una nazione di fondamentalisti religiosi in preda alla paura. E' il loro nuovo giochino intellettuale che gli consente di continuare a sentirsi superiori antropologicamente. Secondo quanto scritto ieri da Alexander Stille su Repubblica, quelli che hanno votato Bush sono ignoranti, meno istruiti, insomma inferiori. Il sondaggio cui lo stesso Stille fa riferimento, pubblicato dal New York Times il 4 novembre, dice il contrario: Kerry ha preso più voti tra chi non ha fatto il liceo, non tra chi lo ha fatto. Mentre tra i diplomati e tra i laureati, ha prevalso Bush. Kerry è andato meglio di Bush tra chi ha conseguito un master post laurea, e allora? Stille tra l'altro ha anche scritto che con Bush "il paese ha perduto 1,6 milioni di posti di lavoro", ma è un dato sbagliato, vecchio e che non tiene conto delle assunzioni federali. Gli stipendi persi in questi tre anni post 11 settembre erano meno di 800 mila fino a tre giorni fa, prima che venissero annunciati 332 mila nuovi posti di lavoro creati nel mese di ottobre. La notizia è che le ricette di Bush, nonostante l'11 settembre e nonostante la crisi mondiale, in tre anni hanno creato due milioni e mezzo di nuovi posti di lavoro. Stille non se ne è accorto, gli elettori sì.
    ***
    Bush ha aumentato i consensi rispetto a qualsiasi categoria di elettori: uomini, donne, neri, ispanici, bianchi, sposati, single e ha pure mantenuto il 23 per cento dei voti di gay e lesbiche e il 52 per cento di chi è favorevole alle unioni civili tra omosessuali. Non c'è categoria dove il presidente sia andato male rispetto a quattro anni fa. Tra i cattolici è passato dal 47 al 52 per cento, tra gli ebrei dal 19 per cento al 25.
    Tutto questo gran vociare sul neofondamentalismo che avrebbe fatto vincere Bush nasce dallo stesso exit poll che erroneamente aveva dato in vantaggio Kerry. Il sondaggio dice che il 67 per cento degli evangelici bianchi ha votato per Bush (e il 32 per Kerry). Ma lo stesso sondaggio dice anche che gli evangelici neri hanno votato all'83 per cento per Kerry (e al 16 per cento per Bush). Sessanta a 39 per Bush, invece, è stato il voto degli ispanici evangelici. In generale i protestanti hanno votato per Bush al 59 per cento e al 40 per Kerry. Insomma dire che la coalizione bushiana sia dominata dai fondamentalisti della Bibbia è una stupidaggine autoassolutoria, oltre che una palese dimostrazione di scarsa conoscenza del pluralismo religioso e dello spirito individualista del cristianesimo americano.
    Il sondaggista dei democratici, Geoffrey Garin, ha smentito la vulgata sulla coalizione di fondamentalisti che ha rieletto il presidente: "Il sostegno per Bush è aumentato più tra chi non va regolarmente in chiesa che tra chi ci va". Ma è come se parlasse al vento. E se è vero che in 11 Stati sono stati approvati i referendum che vietano il matrimonio gay, non va dimenticato come in due di questi, Oregon e Michigan, abbia vinto Kerry e con percentuali superiori a quanto ottenne quattro anni fa Al Gore. Andrew Kohut, del centro di ricerca Pew, sul New York Times ha invitato alla cautela nel dipingere come integralista quest'ondata di elettori. Intanto perché la percentuale di chi va in chiesa almeno una volta a settimana e si oppone all'aborto non è aumentata rispetto a quattro anni fa. Poi perché il 60 per cento degli elettori s'è dichiarato favorevole a qualche forma di riconoscimento legale per le coppie omosessuali, con il 25 per cento favorevole ai diritti matrimoniali e il 35 per cento alle unioni civili.

    ***
    La tesi sulla coalizione dei fondamentalisti religiosi si basa su un dato male interpretato e serve ai liberal per dire che, in fondo, "non siamo stati noi a perdere ma sono loro che sono fanatici". S'è detto e scritto che la prima motivazione di voto degli americani (il 22 per cento) è stata quella dei "valori morali". Questa sarebbe la prova del "jihad cristiano" scatenato da Bush, per citare una delle acide espressioni della reginetta chic del New York Times, Maureen Dowd. Solo che non è vero. Intanto va precisato che 20 persone sulle cento che avevano a cuore i "valori morali" hanno votato Kerry e non Bush, poi lo stesso sondaggio dice che il terrorismo (19 per cento) e Iraq (14), insieme, costituiscono la prima motivazione di voto degli americani, con il 33 per cento. Anche l'economia e le tasse, messe insieme, con il 25 per cento sono davanti ai "valori morali". Insomma "i valori" non sono stati né la prima né la seconda motivazione di voto. Ma c'è di più. Uno studio presentato ieri dalla New England Journal of Medicine svela una cosa che ribalta tutte le analisi socio-politiche di questi giorni. Se la percentuale di elettori che quest'anno ha detto di aver votato per i "valori morali" è davvero del 22 per cento, si tratta di una percentuale molto più bassa rispetto a quella di quattro anni fa, quando fu il 49 per cento a votare avendo in mente "aborto" e "valori familiari". Stessa percentuale, 49 per cento, cioè più del doppio rispetto a martedì scorso, anche nel 1996, quando fu eletto Clinton. Nel 1992, ai tempi della prima elezione clintoniana, fu il 27 per cento, 5 punti in più rispetto alla settimana scorsa. La notizia, dunque, è che il consenso sui "valori morali" quest'anno è diminuito. Ed è ovvio perché. In questo momento la guerra al terrorismo e l'economia preoccupano molto di più. Uno dei sondaggisti del partito democratico, Marl Mellman, ha spiegato al New York Times che "la gente ha mal interpretato le elezioni, e questa cattiva rappresentazione rischia di avere degli effetti nel dibattito interno dei partiti e sulle politiche pubbliche". Anche Bush, come i democratici, dovrà stare attento a leggere bene i dati, perché se dovesse governare abbracciando l'agenda politica della coalizione cristiana rischia di sfaldare la maggioranza repubblicana, che "è moderata, non morale" come ha scritto ieri sul Washington Post, E. J. Dionne jr.

    ***
    Martedì scorso il 13 per cento di chi si definisce "liberal", e l'11 per cento di chi è registrato al partito democratico, ha votato per George W. Bush.
    ***
    I democratici sono dunque isolati dentro le metropoli, e con la medesima mancanza di contatto con la realtà americana che hanno dimostrato il 2 novembre ora tendono a semplificare le ragioni della sconfitta: "Se volete capire perché continuano a perdere le elezioni _ ha scritto David Brooks _ basta ascoltare i liberal della costa e delle città universitarie che parlano di quanto sia conformista e intollerante l'America rossa". Finché i democratici non capiranno in pieno che cosa è successo il 2 novembre (e l'11 settembre) sarà difficile che riescano a elaborare una strategia per uscire dall'isolamento. Le reazioni alla vittoria di Bush sono state di tre tipi. La prima, isterica, è quella di cui è alfiere l'editorialista del Times, Paul Krugman, e la maggioranza delle persone che s'incontrano a Manhattan: "No surrender", non arrendiamoci, continuiamo la battaglia contro il nuovo fascismo, le elezioni hanno dimostrato che Bush non è imbattibile "perché non ha vinto a valanga". Krugman insomma chiede, come direbbe Kerry, "more of the same", cioè la stessa solfa di Michael Moore, di Hollywood e dell'intellighenzia girotondista anti Bush. Lotta dura senza paura, anche se nello stesso articolo di fuoco Krugman ha annunciato che lui va via per un paio di mesi a causa di improrogabili impegni editoriali. Sono uscite decine di commenti sull'ignoranza dell'America rossa, sul fondamentalismo e sul neofascismo degli elettori che votano Bush. Su queste basi Howard Dean ha in mente di scalare il partito democratico e diventare il presidente del comitato nazionale, al posto di Terry McAuliffe.
    Poi c'è una seconda categoria di liberal che dice: il michaelmoorismo ci ha fatto perdere le elezioni, ora bisogna colmare il gap culturale con il resto del paese e mostrarsi più accomodanti con le esigenze dell'America rossa. I duri e puri, lo ha scritto anche Stille ieri su Repubblica, pensano giustamente che sia un tradimento dei propri ideali. In realtà questo è quello che ha tentato di fare John Kerry autodescrivendosi (nonostante la sua storia raccontasse il contrario) come un eroe di guerra e durissimo con i terroristi, facendosi fotografare col fucile in braccio, pregando in pubblico, citando la Bibbia, parlando di Dio onnipotente e raccontando di quanto sia stata importante per la sua vita l'esperienza di "altar boy", cioè di chierichetto. Però è difficile che funzioni, perché un esponente dell'élite della costa est, più a suo agio con un bicchiere di Cognac che con una Diet Coke, alla lunga è difficile che risulti credibile. Prima o poi viene fuori quell'insopportabile atteggiamento da esploratore scientifico nei confronti di poveri selvaggi da civilizzare. Kerry, comunque, pare che dal suo banco del Senato voglia continuare a dare leale battaglia a Bush e ha fatto sapere che ha intenzione di ricandidarsi nel 2008.
    Poi ci sono i clintoniani. Il Democratic Leadership Council è il gruppo interno al partito che diede forma alla svolta centrista, e vincente, dell'ex governatore dell'Arkansas. Due giorni dopo le elezioni, il DLC ha diffuso un'analisi del voto straordinaria quanto a schiettezza e acutezza. Non ha perso tempo ad accusare il candidato Kerry, né a demonizzare il presidente né a insultare gli elettori. Su questa stessa linea c'è anche la stella nascente del partito, il neosenatore nero dell'Illinois, Barack Obama, il quale domenica a Meet The Press ha detto che Kerry ha perso contro "un presidente di guerra molto popolare" e che i repubblicani avevano "una delle migliori squadre politiche che si siano mai viste in America".
    Il documento dei clintoniani si chiede "che cosa sia accaduto" e dice subito che i democratici non hanno scuse facili per questa sconfitta: "Avevamo un forte e intelligente candidato, migliori candidati in giro per il paese, eravamo pieni di soldi, con la migliore organizzazione di tutta la nostra vita, un entusiasmo straordinario e la più grande unità nel partito che si ricordi a memoria d'uomo. Abbiamo affrontato un presidente vulnerabile, con un cattivo record... con tanti fallimenti a carico... E con Ralph Nader elettoralmente nullo". Il risultato, riconoscono, è stata un'enorme vittoria per i repubblicani e la conferma della lenta ma significativa erosione dei democratici. Per uscirne, scrivono i clintoniani, "non basta spostarsi meccanicamente a sinistra o a destra, né raccogliere più soldi né mobilitare i militanti né cambiare i vertici del partito né trovare magicamente candidati carismatici. Iniziare una battaglia per l'anima del partito o accusare qualcuno sarebbe una assoluta perdita di tempo". Che fare, dunque? Secondo i clintoniani, i democratici hanno tre deficit di credibilità. Il primo è quello della sicurezza nazionale, che "è diventato una questione cruciale dopo l'11 settembre e lo sarà per il prossimo futuro". Poi, nonostante il partito sia all'opposizione da anni, non riesce più a presentarsi come riformatore, come il partito di chi è determinato a cambiare le istituzioni: "Siamo stati bravi a criticare Bush, ma non siamo stati in grado di comunicare un programma di riforme. I democratici hanno cercato di spaventare gli elettori ogni volta che i repubblicani avanzavano una cattiva e ingannevole proposta di riforma dello Stato, invece che proporre un'idea alternativa. E così facendo hanno spesso rafforzato l'idea che i riformatori fossero i repubblicani". Bush aveva un progetto, insomma, e la battaglia era già vinta in partenza perché "messaggio più mobilitazione batteranno sempre la sola mobilitazione".
    Il terzo problema per i democratici è quello dei valori e della cultura. Milioni di persone non credono che i democratici, al contrario dei repubblicani, prendano sul serio le loro idee. Spesso i democratici hanno creduto che si potesse conquistare il ceto medio attraverso le misure economiche, chiedendo agli elettori di guardare nelle proprie tasche piuttosto che nel proprio cuore. L'errore, probabilmente, è lo stesso che fa Hollywood e che fanno i liberal confinati nelle città, quando liquidano con l'aggettivo "materialista" la vita borghese. I democratici, scrivono i clintoniani, "hanno bisogno di una strategia che raggiunga il cuore dell'America con un messaggio positivo che scaldi sia i cuori sia i portafogli".

    ***
    Nel 1972 la radicalissima e chicchissima Pauline Kael, critica cinematografica della bibbia dei liberal americani, cioè del New Yorker, disse: "Non capisco come abbia fatto Nixon a vincere. Io non conosco nessuno che ha votato per lui".
    ***
    La crisi dei democratici risale agli anni Sessanta, al Vietnam, ha scritto sul Wall Street Journal Daniel Henninger. Anni fa la vecchia guardia di leader democratici della costa est si era formata con la Seconda guerra mondiale. Gente tosta, che non andava per il sottile. Ora il vertice, da John Kerry a Howard Dean a Nancy Pelosi fino agli strateghi elettorali del partito come Bob Shrum, hanno tutti mosso i primi passi col Vietnam e con la stagione del desiderio di cambiare il mondo. Quella formazione ha cambiato la cultura politica dei democratici. In quegli anni il personale è diventato politico, spiega Henninger, e ancora oggi "esprimere emozioni è una cosa che importa moltissimo a questa generazione" di politici cresciuti negli anni della contestazione. Ma è allo stesso tempo una forma d'infantilismo politico. Solo così si spiega come sia diventato argomento di campagna elettorale "l'odio" nei confronti di George Bush o lo spauracchio della Halliburton come causa di tutti i mali. Quante volte, a Manhattan, o nei circoli intellettuali del paese, si è sentita la frase "sono terrorizzato" dai repubblicani? La sinistra americana _ come ha scritto il liberal Nicholas Kristof _ dovrebbe andare a lezione da Tony Blair, il quale alcune riflessioni sui danni della cultura del '68 le ha già fatte.

    Christian Rocca
    IL FOGLIO, 10 novembre 2004

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    Ottima analisi dell'ottimo Rocca. Grazie.

    Senescentemente


    Altri commenti e analisi, pre e post elezioni:

    http://www.politicaonline.net/forum/...hreadid=128091

 

 

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