FALLUJA


«Una città fantasma, che puzza di esplosivo e cadaveri» (Fadhil Badrani, giornalista). «Una città atterrata da un altro pianeta, isolata da tutto e da tutti» (Hamid Flewa, avvocato). «Una città che è un peccato dover distruggere per colpa di un migliaio di combattenti» (tenente dei marine Shawn Gniazdowski). «Una città dove fino all’ultimo gli scontri sono stati molto ravvicinati, molto violenti: guerriglia urbana» (sergente Roy Meek). Sono poche le voci che emergono da Falluja, la cittadina dai 200 minareti, il covo di Al Zarkawi, la prigione di tanti ostaggi, attaccata dagli americani da una settimana, in una battaglia terminata di fatto ieri. Pochissime voci che riescono a superare il blackout elettrico (nemmeno i telefonini funzionano più da giorni), il terrore che porta a scappare se si può o a rinchiudersi in qualche rudere, le censure. Tra loro spicca Badrani, free-lance iracheno per molti media, da Reuters ad Al Jazira, uno dei pochissimi che ha resistito nella città. «Le strade sono vuote, come molte case - racconta, ammettendo di aver perso il conto dei giorni -. Tra i combattimenti ci sono periodi di silenzio, assoluto e sinistro. Una città di fantasmi». Fantasmi come quella famiglia, continua Badrani, «arrivata da me una notte cercando del cibo. Gli ho detto che Arafat era morto, erano scioccati, han detto che era una cospirazione per eclissare con quella notizia quanto stava accadendo a Falluja. A noi dei media chiedono sempre se parliamo della città».
Sindrome da isolamento, paura di essere dimenticati dal mondo: «Senza acqua, senza elettricità, senza possibilità di fuga. Spero che il mio messaggio raggiunga i fratelli in Usa e in Inghilterra, che questa città non sia appena atterrata da un altro pianeta», riesce a scrivere su un sito Internet l’avvocato Flewa, dal centro di Falluja. «Dove ci sono corpi abbandonati nelle strade - spiega - e le famiglie seppelliscono i morti in giardino». Ancora su Internet Yunis Daoud, che si firma «residente di Falluja», racconta la paura che ha pervaso la città, «gli attacchi aerei che nessuno si aspettava così forti: io e i miei amici eravamo rimasti mandando via le famiglie, ma l’altra mattina siamo scappati in barca attraverso l’Eufrate, poi su stradine che gli americani non conoscono». Ma per chi è rimasto è continuata, la paura («la gente ha il terrore dei cecchini, i feriti restano in mezzo alla strada», dice Ahmad Al Rawi). E anche la fame. «Datteri, la gente sta sopravvivendo mangiando datteri», spiega Fardus Al Ubaidi della Croce Rossa, autorizzata ad entrare in città solo ieri. «Molti non hanno fatto scorte adeguate, i surgelati sono andati a male senza elettricità, non si trova cibo né acqua potabile né medicine né carburante».
Ancora più rare le voci degli americani: le loro testimonianze emergeranno col tempo, finita la battaglia. Molte resteranno riservate. Dai pochi reporter «embedded», come Paul Wood della Bbc o Dexter Filkins del New York Times, filtra qualche episodio. Come la battaglia di ore (quasi una scena da film) tra 150 marines e un cecchino iracheno, poi scappato (pare) in bicicletta. O la scoperta su un muro della scritta «Viva i mujahidin», che «noi abbiamo trasformato in "Viva chi uccide i muj"», racconta un marine. E qualche commento militare («Nel sud di Falluja sparano meglio che nel nord», dice il tenente Steven Brench).

Cecilia Zecchinelli
Fonte:www.corriere.it
14.11.04