La strada Radicale verso Copenaghen

• da Terra del 11 novembre 2009

di Elisabetta Zamparutti, Marco Cappato

Tra meno di un mese si apre il vertice mondiale sul clima, nel disinteresse del ceto politico italiano. Mentre i leader mondiali si muovono sulla china sottile tra scenari futuri del pianeta da una parte e interessi di breve termine per le economie nazionali dall’altra, in Italia la questione è rimossa, come se fossimo rassegnati a subire le decisioni altrui. Eppure le poche settimane che ci separano da questo appuntamento sarebbero sufficienti per iniziare a dotarsi di una strategia, affinché Copenaghen si trasformi in occasione non solo per contribuire a ridurre il consumo globale di risorse non riproducibili - aria, acqua, suolo, biodiversità, riserve ittiche - ma anche per impostare una riforma strutturale del nostro sistema fiscale. La parola chiave in Europa è oggi «tassa sulle emissioni di anidride carbonica». Danimarca, Svezia e Finlandia sono i Paesi pionieri in Europa, il governo francese ha deciso di dotarsene, l’Unione europea ne sta discutendo. La posizione italiana - se c’è - è sconosciuta. Eppure per apprezzare l’impatto della questione basterebbe leggere le conclusioni del recente rapporto di Althesys: se applicassimo la tassa “alla francese” (17 euro per tonnellata di CO2) otterremmo un gettito aggiuntivo di 5,6 miliardi; il modello svedese (108 euro per tonnellata) porterebbe un introito di 35 miliardi, cioè il valore di una finanziaria. Naturalmente, dare i numeri non basta a fare una politica, e i facili entusiasmi sul tema, così come ogni illusione di emulazioni sbrigative, sarebbero fuoriluogo. Le differenze tra i sistemi produttivi e fiscali sono tali e tanti che l’implementazione della tassa non potrebbe non includere meccanismi originali per il nostro Paese. Ma la decisione che può - e a nostro avviso deve - essere presa subito, riguarda l’impianto di fondo del nostro sistema fiscale. Tutti o quasi sembrano concordare sull’eccesso di pressione fiscale sul costo del lavoro e sulle attività produttive. Ma in condizioni di debito pubblico esorbitante e di welfare iniquo il taglio delle tasse rimane uno slogan. Come Radicali da molto tempo abbiamo individuato nella riforma del sistema pensionistico la prima leva per il risanamento delle finanze pubbliche e la riforma del welfare. La seconda da attivare è quella dello spostamento della pressione fiscale dal lavoro e dalla produzione al consumo delle risorse non riproducibili (non solo l’emissione di CO2 dunque, ma anche il consumo selvaggio del “territorio”, che in Italia è addirittura incentivato dalla necessità dei Comuni di fare cassa con le aree edificabili). Una riforma del genere non potrebbe che essere graduale, integrata con il sistema Ets e proiettata nel mediolungo periodo, per consentire di adeguarsi attraverso investimenti da iniziare ora, sia da parte dello Stato (in particolare le infrastrutture di trasporto pubblico) che delle imprese e del cittadino consumatore. Sul piano della sostenibilità politica, è evidente che l’imposizione di nuove tasse sarebbe accettabile per l’opinione pubblica a una sola condizione: la creazione di un meccanismo vincolante che impedisca alla pressione fiscale complessiva di aumentare anche di un solo euro. Non solo: parte del ricavato dovrebbe essere destinata all’efficienza energetica e ai meccanismi compensativi per quelle categorie economicamente “deboli” che sarebbero penalizzate dal nuovo sistema. Con tutte le precauzioni e attenzioni che una riforma di tale portata implicherebbe, non esistono ostacoli insormontabili a fronte di una precisa volontà politica. Partire subito con un sistema come quello consigliato a Sarkozy dall’ex premier Rocard (32 euro per tonnellata), integrato da disincentivi fiscali sul consumo di territorio, attraverso un percorso vincolante di avvicinamento al modello svedese, consentirebbe all’Italia di orientare gli investimenti per i prossimi decenni e di candidarsi a essere, anche sul piano tecnologico, tra i Paesi che guidano le politiche globali invece di subirle. L’alternativa, quella dell’immobilismo, ci ha già fatto pagare un prezzo salato nei negoziati interni della Ue negli scorsi anni. Ora la presidenza svedese spinge per una tassa europea di 30 euro per tonnellata entro il 2013, mentre la Francia propone di tassare anche i prodotti importati dai Paesi terzi. Piuttosto che trovarci tra qualche anno a pagare più degli altri, danneggiando ulteriormente la competitività delle nostre imprese, governo e Parlamento dovrebbero recuperare il tempo perduto e definire una strategia rispettosa sia dell’ambiente che del libero mercato, anche sul piano globale. Se infatti la tassazione del consumo di risorse ambientali è perfettamente giustificata anche in un’impostazione liberista dell’economia, e quella sul commercio internazionale è giustificata dalla difesa contro il dumping ambientale extra Ue, il gettito ottenuto alle dogane ai confini dell’Unione dovrebbe essere interamente destinato a investimenti per la riduzione delle emissioni nei Paesi in via di sviluppo, dando così un ulteriore contributo al raggiungimento di un accordo vero a Copenaghen. È ora che l’Italia si muova.

Marco Cappato, segretario Associazione Luca Coscioni ed Elisabetta Zamparutti, deputata radicale in commissione Ambiente

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