....Cacciari
Pubblichiamo i testi degli interventi di Giuliano Ferrara e di Massimo Cacciari pronunciati il 16 novembre2004 nell’Aula Magna dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano all’incontro
dal titolo: “Siamo tutti olandesi. Theo van Gogh, un omicidio multiculturale”, organizzato da Tempi, settimanale diretto da Luigi Amicone
Comincerei col dire che quello che è successo lo si può pensare in due modi o da due punti di vista: quello della realtà e quello dei segni. La realtà è una storia molto semplice, apparentemente banale, che però va sotto un titolo drammatico, spettacolare, tragico: “Disordini a sfondo religioso in Olanda e in particolare ad Amsterdam”.
Chiunque sappia qualcosa di Spinoza, chiunque sappia qualcosa della storia del Seicento, del secolo d’oro olandese, della riforma protestante, della storia degli ebrei e dei marrani, e chiunque sappia qualcosa della storia di quella città vista anche dall’anfratto, dal buco di libertà prigioniera scavato da Anna Frank prima del suo sacrificio, capisce che il titolo “Disordini a sfondo religioso in Olanda” è veramente uno dei titoli più drammatici del nostro tempo, che incutono paura e che ci obbligano a una riflessione sulla realtà e su questa storia che connota questa realtà, in un certo senso inimmaginabile fino a ieri.
Poi c’è il capitolo dei segni.
Ma partiamo dalla realtà e dalla storia.
Il mio è un punto di vista parziale, forse giusto, forse sbagliato, sarete voi a deciderlo, ma non siamo qui a commentare e a considerare un normale conflitto interetnico, un episodio singolo, banalmente cronachistico, di una difficoltà di integrazione, un caso individuale.
Stiamo cercando di pensare il significato di una storia che riguarda un artista occidentale, Theo van Gogh, dotato di una vena di provocatore che qualcuno può legittimamente trovare perfino insopportabile, una vena di provocatore libertino alla quale laicamente ciascuno di noi può ribellarsi o che può trovare trascurabile e sciatta. Era un uomo che si vantava di essere un fumatore sano, e che amava un linguaggio sboccato, senza rimedio, senza argini, praticamente senza confini, un linguaggio artistico molto comunicativo e con una sua belluina ferocia. Quest’uomo, Theo van Gogh, aveva concepito, insieme a una donna (badate bene, è il punto principale, secondo me), un cortometraggio di undici minuti che nel luglio scorso è stato mandato in onda sulle televisioni olandesi.
Quest’uomo è un olandese. La donna è un’olandese somala, deputata del partito liberal-conservatore, integrata in modo assolutamente radicale in occidente, in una delle sue grandi capitali culturali, spirituali, psicologiche oltre che storiche, come è Amsterdam.
E’ una donna che ha fatto apostasia, ha rifiutato le sue radici religiose, il suo credo di origine, l’islam, e che ha deciso di combattere nella sua nuova veste, nel suo nuovo status, nella sua nuova identità, una battaglia che lei considera di libertà. Libertà delle donne da un trattamento paternalistico e più che paternalistico (in molti casi dispotico) che lei attribuisce direttamente, senza mediazioni, alle radici religiose dell’islam, conservate e come congelate in una storia di secoli, sempre uguali a se stesse.
La religione della sottomissione al dio unico, la religione del libro dettato da dio, sempre uguale, del quale non è possibile condurre un’edizione critica, che non è sottoponibile a esegesi o lo è stato soltanto a certe condizioni, nell’epoca di akmé filosofica dell’islamismo medievale.
Quel libro non sottoponibile a interpretazioni, sarebbe, secondo lei, il responsabile primo della condizione di sottomissione delle donne nel mondo musulmano. Lei, d’altra parte, è un’apostata, ha rifiutato la religione nella quale era nata ed è quindi spiegabile che la pensi così.
Dall’incontro tra questi due soggetti, un artista libertino e una donna di origini somale, di matrice islamica, olandese laicamente integrata nella società olandese, una donna che ha una unzione pubblica, politica, nasce un film: “Submission” ( sottomissione), che viene trasmesso in televisione nello scorso luglio.
Parallelamente, scorre la storia dell’uomo che incontrerà Van Gogh e lo sgozzerà in modo rituale nel centro di Amsterdam, il 2 di novembre.
Mohamed B., l’assassino, è olandese, ma è parte della umma musulmana, nel senso che in Olanda l’integrazione non è individuale, è comunitaria. In questa dimensione comunitaria questo ragazzo di 26 anni vive in apparenza felicemente, scrive per i giornali di quartiere, non appartiene a una famiglia particolarmente gravata dai segni della povertà e dell’emarginazione, anzi, è bravo a scuola, è seguito dagli insegnanti.
Si adatta a tutti gli spazi, ampi e importanti, che la società olandese offre, in modo sacrosanto, all’immigrazione di prima e di seconda generazione, affinché si sviluppi una vita degna di essere vissuta nelle nuove circostanze spaesanti, stranianti che ogni immigrazione mette di fronte a chi la vive.
La storia di Mohamed B. corre parallela a quella dell’incontro fra Theo van Gogh e la donna somala, apostata dell’islamismo, e del loro film.
Viviamo nel mondo del dopo 11 set tembre, nel mondo dello scontro di civiltà.
(Uso questo termine esattamente nel modo in cui l’ha usato Adriano Sofri nella postfazione del libro di Ian Buruma e Avishai Margalit, “Occidentalismo”. Sofri dice una cosa che secondo me è giusta, puntuale: “Lo scontro di civiltà come auspicio è odioso, ma come constatazione è tutt’altro che infondato”).
In queste storie, non si sa mai bene perché, si parla di un lutto, di uno shock, di un trauma personale e familiare.
Mohamed B., in modo apparentemente misterioso, in questa foresta di segni che circondano il fatto, matura un odio assassino, un rancore che ritualizza, contro l’artista libertino e la sua compagna di avventura artistica e contro il loro film che mette in discussione fondamentalmente due cose: il testo religioso, i precetti del Corano che vengono scritti, come cesellati sulla schiena nuda di una donna islamica, a spiegazione del maltrattamento delle donne islamiche e del loro corpo. Immagine devastante, esplosiva che diventa la bandiera di un rancore irredimibile.
Mohamed B. prende la sua bicicletta, insegue Theo van Gogh in una strada principale di Amsterdam, lo uccide a pistolettate.
E quando Van Gogh è a terra, lo sgozza a metà, in una sorta di decapitazione simulata o tentata, e alla fine appicca un messaggio sulla pancia dell’artista libertino e occidentale ucciso. Un messaggio che un cronista di nera chiamerà “demenziale”, il che potrebbe alludere a un raptus, a una follia.
Tuttavia è un messaggio chiaro, perché esplicita, in modo non simbolico ma testuale, letterale, che l’artista libertino deve pagare proprio questo: l’essersi fatto veicolo di un atto di blasfemia o di profanazione di un testo religioso e, al tempo stesso, l’essersi fatto veicolo della ribellione di una donna.
Da questo messaggio si capisce, con assoluta limpidezza, che l’obiettivo reale non era lui ma lei, la sceneggiatrice del film, la deputata liberal-conservatrice, la ex islamica, colei che compie questo gesto per noi critico, difficile da intendere, che è l’atto di respingere, di allontanare da sé le radici religiose, e di giustificarlo con un’esigenza di liberazione personale, in quanto donna. Chi era lui, chi era lei (la lei dietro le quinte di questo dramma di questo tragico spettacolo), chi era l’assassino, qual è il paese in cui questa realtà prende corpo. E’ un discorso difficile, ma credo che non sia discorso per sociologi o antropologi (sono mestieri importanti, scienze decisive, anche se Croce le considerava pseudoscienze, sono tecniche di comprensione della realtà delle quali probabilmente oggi non potremmo fare a meno).
Ma non è lì che dobbiamo guardare. Dobbiamo considerare la tolleranza olandese, questa mescolanza di libertà negli affari, di libertà nel commercio, di libertà nel mercato, di riconoscimento dell’altro nel proprio interesse, passata per guerre, per disperate tensioni religiose, passata per lo scontro epico tra fondamentalismi.
La tolleranza come chiave di risoluzione dei conflitti, come elemento di destino nazionale, del “destino manifesto” degli olandesi: solcare i mari, fondare un impero, costruire le premesse di un’economia calvinista, di un’economia capitalistica moderna.
Tutto è riassunto in un coacervo di idee, di grandi scandali filosofici gridati in questa sorta di manifestazione forte, vigorosa di un pensiero fondamentalmente ateo, che non crede nei miracoli, che si fonda sulla scienza della critica biblica che è, appunto, il pensiero grandissimo, tormentatissimo, modernissimo di Benedetto Spinoza.
Già siamo entrati nel campo dei segni.
Già abbiamo lasciato la storia e la sua nudità cronistica, che è meno importante dei segni.
Non è una storia di integrazione fallita, di immigrazione difficile, critica, non è microcriminalità. E’ una cosa diversa perché c’è l’elemento chiaro della ritualizzazione, e naturalmente c’è un contesto, il contesto del tempo nostro, il contesto di ciò che succede a tante miglia di distanza dall’Olanda e da Amsterdam, oltre al contesto eccezionale di tipo storico che ci ha portati a cominciare dicendo: “Disordini religiosi in Olanda”.
Il segno forse più importante è l’imbarazzo.
Come reagisce una microrealtà occidentale ai fatti, allo sgozzamento rituale di Theo van Gogh?
Reagisce con l’imbarazzo. Una teste oculare, alla richiesta di indicare i caratteri del presunto omicida, che sarà poi arrestato in un giardinetto non lontano dal luogo del delitto, lo descrive in tutte le sue caratteristiche (se avesse o non avesse gli occhiali, quale fosse la sua altezza e la sua robustezza). Tranne una: il fatto che fosse vestito come un giovane olandese di origine marocchina, che avesse vestiti arabi. E a domanda: “Ma perché tacerlo?”, la testimone oculare ha risposto: “Mi sembrava una connotazione passibile di un giudizio negativo nel nostro ambiente, nella nostra società, forse una definizione nazista, scorretta, e quindi ho tralasciato questo particolare”.
L’imbarazzo della stampa. Questa storia, salvo alcune segnalate eccezioni, nasce in sordina per tutti noi, per l’opinione pubblica occidentale, nasce come una notizia in breve.
Era già successo in un caso analogo, quello di Pim Fortuyn, un politico anche lui libertino, omosessuale, un politico disinvolto, che fu ucciso, in questo caso, da un ecologista, animalista e vegano che non ha mai parlato, di cui non si è mai capita la complessione psicologica, ma che uccise quest’uomo, Fortuyn, che minacciava in qualche modo l’assetto multiculturale del paese, questo politico rampante che stava ottenendo e aveva ottenuto molti voti e che stava lanciando in campagna elettorale la sua sfida politica nazionale per conquistare il trenta per cento dei seggi nel Parlamento olandese.
Teste reticente, anche noi reticenti.
Il Corriere della Sera, se non sbaglio, il giorno successivo all’omicidio aveva solo un breve articolo a pagina 22.
E si è faticato professionalmente perché la realtà, se non ci metti le tue ipotesi, è difficile da raccontare.
Il Corriere è incappato in una iniziale sottovalutazione, e così tanti altri giornali europei.
Poi, piano piano, le cose si sono fatte più chiare, anche perché l’omicidio di Theo van Gogh ha fatto da terribile detonatore di una situazione esplosiva. Ci sono state le reazioni anti-islamiche, anche violente, i tentativi di appiccare fuoco alle scuole e alle moschee. E’ nata la spirale, che purtroppo dura ancora in questi giorni e in queste ore, dei disordini a sfondo religioso in Olanda.
Ma è l’imbarazzo la vera chiave di interpretazione di quello che è successo, a vederlo con i nostri occhi di occidentali.
Del fatto che l’obiettivo fosse una donna e che il corpo, la definizione stessa di ciò che è una donna, sia l’oggetto dello scandalo, è l’oggetto principale del furibondo e fanatico moralismo che divide la umma musulmana nel mondo, e che contrappone stentate e minoritarie avanguardie laicizzanti (che cercano di pensare la donna nei termini “moderni”) a una vasta, congelata platea di pensiero che invece a questo orizzonte non si avvicina neanche un po’.
Anche di questo abbiamo detto.
Ora l’imbarazzo è un rifiuto della realtà.
Un rifiuto della realtà che c’è stato anche nel citato caso di Pim Fortuyn.
Anche quello fu un caso di spettacolare sottovalutazione, anche lì aveva un significato profondo il fatto che un ragazzo apparentemente normale, dedito al bene degli animali, un vegano, cioè un vegetariano integrale, incapace di fare del male a una mosca, incapace di assimilare le proteine nobili che vengono dalla carne, abbia avuto tuttavia la forza di avventarsi su un uomo e di ammazzarlo, in segno di rancore contro chi minacciava di separare la società multiculturale, contro chi voleva darle regole che entravano in conflitto con la visione che del multiculturalismo può avere un giovanissimo ecologista, animalista olandese oggi.
Il caso Rushdie, la fatwa che lo aveva colpito, erano segni che avremmo dovuto interpretare meglio di come abbiamo concretamente fatto.
Rushdie è un grande intellettuale mondano, una specie di super Umberto Eco di dimensione globale.
Aveva scritto anche lui un libro dissacratorio, profano, imbarazzante, in cui si attaccava il testo religioso, si faceva la parodia del testo sacro, ed è stato colpito da una fatwa.
Ma la cosa importante non è il contrasto tra l’ayatollah e lo scrittore occidentale. La cosa interessante, curiosa, è che la fatwa si deposita come responsabilità non su un popolo, il popolo iraniano, non su un ceto, un ceto clericale o collaterale al clero dei mullah.
No! Si impone sulla umma, sulla comunità dei credenti, che è transnazionale e che comprende, oltre agli islamici di tutto il mondo islamico, anche gli islamici di tutto l’occidente.
Se Rushdie è sotto alta protezione ormai da più di dieci anni, questo è dovuto al fatto che era dovere sacro di ogni musulmano applicare la fatwa contro di lui (nella storia di Rushdie ci fu anche una vittima, il traduttore giapponese del suo libro).
Che cos’è la umma? E’ una presenza europea, è una presenza viva, verso la quale abbiamo giustamente esperito quasi tutte le tecniche in modo contraddittorio, senza arrivare sempre a risultati come quelli olandesi che però sono i primi ad andare in crisi di integrazione, di accoglienza, di amore.
Ma più che guardarla direttamente in faccia, la umma musulmana dobbiamo guardarla mettendoci dall’esterno della nostra condizione, guardando chi siamo noi.
Pensate se oggi nel mondo moderno, dall’oriente russo e slavo fino all’estremo occidente, avesse vigore la cristianità, una cristianità senza i complessi procedimenti che hanno portato alla secolarizzazione del mondo occidentale.
Pensate se non ci fosse stato lo scisma d’oriente, se non ci fosse stata la riforma protestante, la scoperta dell’America da parte dei padri pellegrini e la nascita di una nazione così grande, così potente, nella quale gareggiano e competono. da punti di vista diversi e con concezioni morali diverse, denominazioni religiose, congregazioni, chiese a decine e decine (sono trenta e più): una forte e maggioritaria componente cattolica, e poi un grande mare. E poi quella fede, quella particolare religiosità civile di cui tanto oggi si discute tra laici, tra cattolici, sulle pagine di Avvenire, sulle pagine di Repubblica.
Pensate se la cristianità non fosse caratterizzata dallo scisma anglicano, dal misconoscimento della centralità della sede petrina, se non fossero nati il gallicanesimo e le chiese nazionali. Una cristianità orbata di un retroterra che è quello della Rivoluzione francese, dei diritti universali, perfino della sua fase giacobina.
Pensate se esistesse oggi quella cristianità. Il mondo sarebbe totalmente diverso e noi saremmo in presenza di una santa allenza temporalistica, di trono e di altare, in una condizione di ortodossia armata e corazzata da un rapporto forte con lo Stato. E pensate ad una cosa semplice: l’islam è questo, e questo è la umma musulmana (ovvero le grandi masse, dal Pakistan all’Indonesia, al medioriente cosiddetto “allargato”, le università, la teologia insieme possibile e impossibile in ambito musulmano e i pochi episodi, come il sufismo, di differenziazione).
La umma musulmana è la storia che si ferma e che procede avendo sulle spalle il fardello di questo stare ferma, e che quindi si oppone naturalmente, dopo secoli di califfati e sultanati che finiscono sotto il giogo coloniale, dominati dal nostro pluralismo dei valori, che diventa pluralismo dei diritti, che diventa individualismo, che diventa mercato, che diventa scienza, che diventa tecnica, e che escono da questa situazione di soggezione.
E si pongono il problema del loro ruolo nel mondo, ma partendo da quella identità che “a specchio” dobbiamo capire, capendo come saremmo noi se non fossimo quella chiesa cristiana, mondo tra i mondi, quella serie di regioni del pensiero, della elaborazione concettuale, quella difficile sintesi di diritto di forza –al centro della quale c’è però la storica, straordinaria distinzione del regno di Dio e del regno di Cesare e ci sono le grandi acquisizioni, insieme universalistiche ma non prescrittive, dell’evangelizzazione e dei suoi diversi destini.
Di fronte a questo noi dobbiamo porci un problema semplice. Noi non possiamo ricostruire la cristianità per resistere alla sfida islamista, radicale, jihadista; sono tre aggettivi precisi, che uso per distinguerli da islamico. Islamista, radicale, jihadista.
La grande lotta all’interno della civiltà islamica per chi debba assumere la guida della battaglia per il califfato, e comunque della battaglia per la riaffermazione di una identità e di un orizzonte nel mondo moderno.
La grande sfida per chi per primo riesce a colpire questo modo di vita occidentale subdolo e, nella loro idea, vuoto di contenuti spirituali, privo di un’anima. Di questo occidente diviso, patria del selfinterest, dove gli individui giocano tutto nel reciproco riconoscimento, e nello scambio di valori insieme spirituali e materiali.
La grande battaglia che si è aperta per dare sostanzialmente una nuova identità, che faccia fronte alla modernità che noi rappresentiamo nel mondo islamico, non possiamo Se dicon la stessa logica identitaria, ricostruendo il programma di Lepanto. Non possiamo, ma possiamo non fare niente? Possiamo non interrogarci? Possiamo accettare che il famoso politeismo dei valori che la nostra irrinunciabile devozione verso la democrazia, verso le regole della libertà e una relativa libertà dalle regole che ci siamo dati, arrivi fino al punto di scarnificare la nostra identità? Da renderla così evanescente, così leggera, così incapace anche di dialogo, anche di fronteggiare con un dialogo serrato, vero, significativo, in cui tu porti qualcosa della tua identità?
Io penso di no. Non voglio usare parole difficili, complicate ma certo non è roba per cardinali, per vescovi, non è roba solo ed esclusivamente per il magistero pastorale della Chiesa cattolica o delle molte altre Chiese dell’universo interreligioso.
Non è una questione confessionale. Io su questo ho innestato un’aspra polemica intellettuale con gli ambienti laici e anche con gli ambienti cattolici. Porsi questo problema del significato, del senso. Porsi questo problema eminentemente politico, ma carico di cultura, di un sistema di vita che noi presumiamo di dover difendere – poi i modi di difenderlo, con la guerra o senza la guerra, tutto sommato, dopo l’11 settembre, sono grandi questioni di tattica, questioni integralmente politiche.
Ma sul fatto che si debba difenderlo c’è una sostanziale convergenza, in occidente.
Questo sistema di vita che cerchiamo di difendere dobbiamo reinterpretarlo, non nella nostalgia, che è sempre un sentimento regressivo, non nelle chiusure del tradizionalismo, forse perfino con un grande sforzo di innovazione.
Ma dobbiamo reinterpretarlo, perché se difendere il nostro sistema di vita significa difendere il vuoto, questo vuoto sarà riempito.
Dal quartiere di Amsterdam dove hanno ucciso Theo van Gogh, nei modi e nelle forme che ho cercato di raccontare qui come potevo, agli scenari più vasti di uno scontro di civiltà che è odioso come auspicio, ma che non è privo di fondamento come constatazione, questa è la verità che dobbiamo cogliere.
Questo vuoto sarà riempito, e sarà riempito da un altro modo di vita, da un’altra concezione dell’esistenza, da un’altra concezione della trascendenza.
Da una ortodossia e da un puritanesimo (il famoso puritanesimo Wahhabi) che sono una minaccia per tutti i valori in cui noi crediamo.
Giuliano Ferrara su Il Foglio del 20 novembre
saluti