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  1. #11
    Estremista del Welfare
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    I non americani che apprezzano il pensiero neocon stanno molto molto vicini al concetto di "traditore".

    Ancora di più da quando abbiamo l'euro in tasca. Perchè abbiamo euro non dollari nei portafogli non dimenticatevelo.

    I neocon hanno in testa solo e soltanto la "global leadership americana contro tutto e tutti per il prossimo secolo" tutto il resto è fuffa di contorno.
    Il loro discorso è soprattutto un discorso di politica estera americana. Politica che per loro dev'essere aggressiva e tendere ad una "non rivaleggiata da chicchessia" egemonia globale.

    Qui non è questione di quale pensiero politico si ha (conservatore, liberale, di sinistra ecc.) qui è questione di avere cura per i propri interessi o per gli interessi di un'altra nazione.

  2. #12
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    In Origine Postato da yurj
    La merda neocon è tutta uguale. Gente che giustifica l'assassinio, buoni per Pinochet 73'.
    AHAHAHAHA

    Scusami se rido, ma dimostri solo la tua ignoranza.....

    E' proprio su questioni tipo il Cile che i neocons si distinguono dalla "real politik" ideata da Kissinger (l'europeo Kissinger) e sostenuta, finora, da quasi tutti i presidenti USA.
    A prescindere da quello che ne puoi pensare, non riconoscere la carica RIVOLUZIONARIA del pensiero neo-cons può essere solo frutto di ignoranza.

  3. #13
    x il Socialismo Mondiale
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    Unhappy Come pensano i conservatori


  4. #14
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    Predefinito 11 Settembre un nuova......Pearl Harbour

    L'11 Settembre , come Pearl Harbour , e' stato troppo funzionale alal strategia americana e tempestivo per non destare seri sospetti.tanto tanto tempestivo.

    Per non dire di tanti altri "precedenti" americani.

    For Sunter , Corazzata Maine , Lusitania , Pearl Harbour appunto, Golfo del Tonchino etc.

    Su Pearl Harbour leggere: Pearl Harbour il giorno dell'inganno
    di Robert Stinnett.Lo sapevate che Roosvelt aveva commissionato uno studio su cosa si doveva fare per esasperare il Giappone fino a portarlo a sparare il primo colpo e spostare l'opinione pubblica americana verso quell'interventismo che serviva al Presidente per portate gloi USA in guerra contro Giappone Italia e Germania ?

    Leggete con quali mezzi ed azioni ci riusci'.Negli USA l'impatto di questo loibro e' stato grandissimo.

  5. #15
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    Predefinito Dal PNAC

    November 22, 2004

    MEMORANDUM TO: OPINION LEADERS

    FROM: WILLIAM KRISTOL

    SUBJECT: Toward Regime Change in North Korea

    Recent reports suggest the presence of emerging cracks in the Stalinist power structure of North Korea, and even the emergence of serious dissident activity there. These should remind us that one of President Bush's top priorities in his second term will have to be dealing with this wretched regime. Nicholas Eberstadt provides useful guidance for an improved North Korean policy in the current issue of the Weekly Standard, ("Tear Down This Tyranny: A Korea strategy for Bush's second term," November 29).

    To move beyond a policy that is "long on attitude (axis of evil) but short on strategy," Eberstadt writes that the Bush administration must recognize that North Korea cannot be talked or bribed out of its nuclear program, and that getting rid of Kim Jong Il and the current government should be our goal. From there, Eberstadt recommends several steps:

    Bring in new officials to rethink and fix a stalled policy;
    Stop the "perverse dynamic" of endless negotiating while Pyongyang builds up its nuclear arsenal;
    Reject ambiguous and counterproductive behavior by China;
    Develop a strategy to deal with problems created by the government now in office in Seoul;
    Make clear that regime change in North Korea and reunification of the Korean peninsula are our ultimate policy goals.
    Simply blaming the current state of affairs on the legacy of the Clinton Administration is not a policy. Eberstadt's clear headed and practical advice provides a good action agenda for an incoming secretary of state and a new policy team. As Eberstadt rightly says, "If North Korea's threat to America is greater four years from now than today, that will be a Bush administration legacy. And history is unlikely to judge such a legacy kindly."

  6. #16
    Hanno assassinato Calipari
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    Predefinito

    In Origine Postato da Luca_liberale

    A prescindere da quello che ne puoi pensare, non riconoscere la carica RIVOLUZIONARIA del pensiero neo-cons può essere solo frutto di ignoranza.
    Tu sei pazzo.

    È roba vecchia, gli interessi economici spiattellati.... cambia solo che lo dicono, ma l'hanno sempre fatto.

    Sembri un fan di Stalin

  7. #17
    Hanno assassinato Calipari
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    Predefinito Re: Dal PNAC

    In Origine Postato da Luca_liberale
    November 22, 2004

    MEMORANDUM TO: OPINION LEADERS

    FROM: WILLIAM KRISTOL

    SUBJECT: Toward Regime Change in North Korea

    Recent reports suggest the presence of emerging cracks in the Stalinist power structure of North Korea, and even the emergence of serious dissident activity there. These should remind us that one of President Bush's top priorities in his second term will have to be dealing with this wretched regime. Nicholas Eberstadt provides useful guidance for an improved North Korean policy in the current issue of the Weekly Standard, ("Tear Down This Tyranny: A Korea strategy for Bush's second term," November 29).

    To move beyond a policy that is "long on attitude (axis of evil) but short on strategy," Eberstadt writes that the Bush administration must recognize that North Korea cannot be talked or bribed out of its nuclear program, and that getting rid of Kim Jong Il and the current government should be our goal. From there, Eberstadt recommends several steps:

    Bring in new officials to rethink and fix a stalled policy;
    Stop the "perverse dynamic" of endless negotiating while Pyongyang builds up its nuclear arsenal;
    Reject ambiguous and counterproductive behavior by China;
    Develop a strategy to deal with problems created by the government now in office in Seoul;
    Make clear that regime change in North Korea and reunification of the Korean peninsula are our ultimate policy goals.
    Simply blaming the current state of affairs on the legacy of the Clinton Administration is not a policy. Eberstadt's clear headed and practical advice provides a good action agenda for an incoming secretary of state and a new policy team. As Eberstadt rightly says, "If North Korea's threat to America is greater four years from now than today, that will be a Bush administration legacy. And history is unlikely to judge such a legacy kindly."
    Sembra un comunicato della resistenza irachena

  8. #18
    Totila
    Ospite

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    In Origine Postato da Luca_liberale
    AHAHAHAHA

    Scusami se rido, ma dimostri solo la tua ignoranza.....

    E' proprio su questioni tipo il Cile che i neocons si distinguono dalla "real politik" ideata da Kissinger (l'europeo Kissinger) e sostenuta, finora, da quasi tutti i presidenti USA.
    A prescindere da quello che ne puoi pensare, non riconoscere la carica RIVOLUZIONARIA del pensiero neo-cons può essere solo frutto di ignoranza.
    Trotzkismo in salsa liberal-mondialista.
    Roba vecchia riciclata dai soliti visitors...

    Cmq che ci sia una carica "rivoluzionaria" è pacifico: basta vedere quanti ex-comunisti in fregola neo-rivoluzionaria aderiscono al pensiero neocon: Ferrara, Adornato, Panella, Capuozzo, Guzzanti etc etc.

  9. #19
    email non funzionante
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    Predefinito Re: La Quarta Guerra Mondiale

    In Origine Postato da Luca_liberale
    Ecco un BELLISSIMO SAGGIO di N. Podhoretz sul momento storico attuale.
    Visione NEOCON D.O.C.G.

    Una nota per il lettore
    La scorsa primavera, quando sembrava che in Iraq stesse andando tutto storto, un’epidemia di amnesia ha cominciato a diffondersi per tutto il paese. Intrappolati nelle notizie e nei dettagli con cui venivamo bombardati ventiquattro ore al giorno, sembrava che avessimo perso di vista il contesto sulla base del quale questi dettagli potevano essere valutati e connessi l’uno all’altro. Piccole cose sono diventate enormi, cose importanti sono divenute invisibili e l’isteria si è fatta galoppante.
    Da allora, naturalmente, e specialmente dopo il trasferimento d’autorità a un governo provvisorio iracheno avvenuto il 30 giugno, la situazione si è fatta più complessa. Ma l’inarrestabile pressione degli eventi, e il continuo attacco sia dei dettagli sia della loro spesso tendenziosa interpretazione, non si è affatto allentata. E’ per questo motivo che, nelle pagine che seguono, ho cercato di tenermi fuori dal battage quotidiano e di ricomporre la storia di ciò che questa nazione ha cercato di realizzare fin dall’11 settembre 2001.
    Facendo questo, ho usato diversi miei scritti già pubblicati in passato, e in particolare tre articoli apparsi su questa rivista poco più di due anni fa. In alcuni casi, ho inserito alcuni passaggi di questi articoli in un nuovo contesto, altri passaggi sono stati rivisti e aggiornati.
    Per raccontare in modo appropriato questa storia non bastava un semplice resoconto dei fatti avvenuti dall’11 settembre ad oggi. Da un lato, ho dovuto interrompere più volte la narrazione degli eventi per discutere ed eliminare parecchi fraintendimenti, distorsioni e vere e proprie mistificazioni. Inoltre, ho dovuto ampliare la prospettiva per sottolineare che la grande battaglia in cui gli Stati Uniti sono stati coinvolti dopo l’11 settembre può essere compresa soltanto se la concepiamo come la quarta guerra mondiale.
    (...)

    Questo nuovo nemico ci ha già attaccato sul nostro stesso territorio (cosa che né i nazisti né tantomeno la Russia sovietica erano mai riusciti a fare), e minaccia di colpirci di nuovo, ma questa volta con armi infinitamente più potenti di quelle usate l’11 settembre. Il suo obiettivo non è semplicemente quello di uccidere il maggior numero possibile di americani e di conquistare la nostra terra. Come già i nazisti e i comunisti prima di lui, vuole la distruzione di tutto ciò per cui l’America ritiene giusto combattere.
    E’ proprio questo, quindi, che (per parafrasare George W. Bush e numerosi suoi predecessori, sia repubblicani che democratici) noi, non meno della “grande generazione” degli anni quaranta e della sua erede spirituale degli anni cinquanta, abbiamo il dovere e l’onore di difendere. Un fulmine a ciel sereno L’attentato è avvenuto, metaforicamente ma anche letteralmente, come un fulmine a ciel sereno. Letteralmente, nel senso che gli aeroplani dirottati schiantatisi contro il World Trade Center la mattina dell’11 settembre stavano volando in un cielo di un blu così limpido da sembrare irreale. Quel giorno mi trovavo, come membro della giuria, in un’aula di giustizia a circa settecento metri da quello che è stato poi chiamato Ground Zero. Poche ore dopo lo schianto dei due aeroplani, uscimmo tutti in strada, proprio mentre la seconda torre stava crollando. Questo tremendo spettacolo, come se non fosse già quasi impossibile da credere di per sé, fu reso ancora più incredibile dal colore terso e meraviglioso del cielo. Mi sembrava di essere stato catapultato in uno di quei vecchi film del genere catastrofico girati in technicolor. Ma l’attacco è stato un fulmine a ciel sereno anche in senso metaforico.
    Circa un anno dopo, nel novembre 20 sarebbe stata nominata una commissione per svolgere un’inchiesta sui motivi per cui un simile attentato ci abbia potuti cogliere di sorpresa e per verificare se fosse stato possibile evitarlo. Poiché sono cominciate soltanto dopo l’inizio della accesissima campagna elettorale americana, le udienze della commissione sono ben presto degenerate in un tentativo da parte dei democratici di dimostrare che l’amministrazione Bush aveva ricevuto sufficienti avvertimenti ma che li aveva semplicemente ignorati. Questo tentativo ha ricevuto un’ulteriore spinta dalla testimonianza di Richard A. Clarke, che era stato il direttore delle operazioni antiterrorismo all’interno del Consiglio di sicurezza nazionale durante la presidenza di Clinton e poi anche di Bush, fino alle sue dimissioni all’indomani dell’11 settembre. Ciò che in pratica ha fatto Clarke (sia alle udienze sia nel suo libro “Against all Enemies”) è stato dare la colpa a Bush, il quale, al momento degli attentati, era salito alla Casa Bianca soltanto da otto mesi, ed escludere da ogni accusa Clinton, che aveva passato otto lunghi anni senza fare nulla di significativo per rispondere alla serie di attacchi terroristici contro obiettivi americani in varie parti del mondo.
    Il punto che voglio sottolineare non è che Clarke abbia esagerato o addirittura mentito. Il fatto è che l’attentato dell’11 settembre è stato effettivamente improvviso nel senso che nessuno aveva mai preso veramente sul serio una simile possibilità. Persino Clarke ha dovuto ammettere che se anche tutte le sue raccomandazioni fossero state rispettate l’attentato non sarebbe stato in ogni caso prevedibile. E nel suo rapporto finale, reso noto il 22 luglio di quest’anno, la commissione, pur evidenziando non meno di dieci episodi che si possono considerare come mancate “opportunità operative”, ha concluso che queste opportunità non sarebbero comunque servite a impedire l’attacco. O almeno non nell’America di quei giorni: un’America in cui erano state messe le catene alla Cia e all’Fbi; in cui era stato eretto un “muro di separazione” per impedire la comunicazione e la collaborazione tra le forze di polizia e gli agenti della sicurezza nazionale; in cui, infine, i politici e tutta l’opinione pubblica erano ancora incapaci e non disposti a credere che il terrorismo potesse rappresentare un’autentica minaccia.
    Contraddicendo in parte sé stessa, la commissione ha detto che “gli attentati dell’11 settembre sono stati uno shock, ma non avrebbero dovuto essere considerati come una sorpresa”. Forse è proprio così; ma non c’è una sola persona, all’interno del governo o al di fuori, che non li abbia considerati una sorpresa. La commissione ha parlato anche di un “fallimento della capacità d’immaginazione”. Ancora una volta, può essere che sia così; ma la parola “fallimento” può essere inappropriata in quanto implica che un successo fosse possibile.
    Un fallimento così completo deve essere considerato inevitabile. Per il New York Times, tuttavia, il fallimento non era affatto inevitabile. In un editoriale di prima pagina camuffato da “resoconto”, questo giornale ha scritto che il rapporto finale della commissione indicava che “un attacco descritto come inimmaginabile era stato in realtà immaginato, varie volte”. Ma nessuna delle testimonianze citate dal Times per la sua categorica affermazione prediceva in realtà che al Qaida avrebbe dirottato aerei di linea per farli schiantare sugli edifici di New York e Washington. Per di più, tutte queste testimonianze appartenevano agli anni Novanta. Ciononostante, il “resoconto” del Times cercava di convincere i suoi lettori che, nell’autunno del 2000, l’Amministrazione Bush (in quel momento non ancora in carica) aveva ricevuto sicuri avvertimenti di un attacco imminente. Per rafforzare quest’impressione, il Times ha citato un briefing fatto a Bush un mese prima dell’11 settembre. Ma il documento in questione era piuttosto vago e, in ogni caso, era soltanto uno dei tanti briefing fatti dall’intelligence, senza alcuna speciale pretesa di credibilità rispetto ad altre informazioni che lo contraddicevano.
    Così l’Amministrazione Bush, che era appena stata severamente criticata nelle udienze tenute dal Senate intelligence committee per avere invaso l’Iraq sulla base di sbagliate informazioni di intelligence, veniva ora ulteriormente criticata per non avere agito sulla base di informazioni ancora più vaghe al fine di prevenire gli attentati dell’11 settembre. Questa contraddizione ha suscitato un sarcastico commento di Charles Hill, ex funzionario di governo che era stato un abituale “consumatore”di informazioni d’intelligence: “La raccolta e l’analisi dell’intelligence è un’attività molto imprecisa. Il rifiuto di ammettere questo fatto ha prodotto la davvero ridicola contraddizione del Senate intelligence committee che critica l’Amministrazione Bush per avere agito sulla base di informazioni scadenti, nello stesso momento in cui la commissione di indagine sull’11 settembre la critica per non avere agito sulla base di informazioni dello stesso tipo”.
    Comunque, il punto che mi preme sottolineare è che nelle recriminazioni su tale questione c’era qualcosa di immorale, per non dire di sacrilego, che ha insudiciato le udienze pubbliche della commissione e alcuni dei rapporti preliminari dello staff. E’ stata perciò allo stesso tempo uno shock e una sorpresa che questo stesso spirito sacrilego sia stato quasi interamente esorcizzato dal rapporto finale.
    Alla fine la commissione ha concluso che nessun presidente americano poteva essere ritenuto responsabile per l’aggressione subita dagli Stati Uniti l’11 settembre 2001. Punto e a capo. Infatti, la semplice verità è che la responsabilità tocca esclusivamente ad al Qaida, insieme ai regimi che le hanno dato appoggi e protezione. Inoltre, se è vero che la passività e l’inazione dell’America ha aperto le porte all’11 settembre, è anche vero che né i democratici né i repubblicani (né tantomeno i liberal o i conservatori) possono trarne qualche vantaggio ideologico.
    La ragione, molto semplicemente, è che le amministrazioni di entrambi i partiti hanno sempre usato praticamente gli stessi metodi per affrontare il terrorismo, a cominciare da Richard Nixon nel 1970, passando attraverso Gerald Ford, Jimmy Carter, Ronald Reagan (sì, pure lui), George H. W. Bush, Bill Clinton, fino a George Bush.
    Una “tigre di carta”
    La storia ci offre un quadro sconsolante. Dal 1970 al 1975, durante le amministrazioni di Nixon e Ford, parecchi diplomatici americani sono stati uccisi in Sudan e in Libano e molti altri rapiti. I colpevoli erano agenti di una delle tante fazioni dell’Olp.
    Anche in Israele molti cittadini americani sono stati assassinati dall’Olp, sebbene, fatta eccezione per i missili sparati dal Fronte popolare per la liberazione della Palestina contro la nostra ambasciata e altri edifici americani a Beirut, questi attacchi non fossero direttamente rivolti contro gli Stati Uniti. In ogni caso, non c’è stata alcuna forma di ritorsione militare da parte degli americani.
    I nostri diplomatici venivano dunque già da alcuni anni impunemente uccisi dai terroristi musulmani quando, nel 1979, con Carter alla Casa Bianca, alcuni studenti iraniani (con l’avallo dell’ayatollah Khomeini) entrarono nell’ambasciata americana di Teheran e presero 52 ostaggi americani. Per cinque mesi, rimase a tentennare. Alla fine, facendosi coraggio, ha autorizzato un’operazione militare di salvataggio finita nel nulla dopo una serie di clamorosi sbagli che sarebbero stati degni di figurare in un film dei fratelli Marx, se non fosse che erano più umilianti che comici. Dopo 444 giorni, e poche ore dopo l’insediamento di Reagan alla Casa Bianca nel gennaio 1981, gli ostaggi furono finalmente rilasciati dagli iraniani, evidentemente perché temevano che il nuovo e bellicoso presidente potesse effettivamente lanciare un vero colpo militare contro di loro. Tuttavia, se avessero potuto prevedere come sarebbe andata durante la presidenza Reagan, non sarebbero stati così timorosi.
    Nell’aprile 1983, Hezbollah (un’organizzazione terrorista islamica appoggiata dall’Iran e dalla Siria) mandò un attentatore suicida a fare esplodere il suo camion di fronte all’ambasciata americana di Beirut. Rimasero uccisi 63 impiegati, tra i quali il direttore della Cia per il Medio Oriente, e altri 120 furono feriti. Ma Reagan non fece nulla. Sei mesi dopo, nell’ottobre 1983, un altro attentatore suicida appartenente a Hezbollah fece saltare in aria una caserma americana nell’aereoporto di Beirut uccidendo nel sonno 241 marine e ferendone altri 81. Questa volta Reagan approvò un piano di ritorsione, ma diede poi il permesso al suo segretario della difesa Caspar Weinberger di cancellarlo (perché avrebbe potuto danneggiare le nostre relazioni con il mondo arabo, verso il quale Weinberger era sempre stato teneramente sollecito). Poco tempo dopo, il presidente ritirò i soldati dal Libano.
    Dopo essere fuggito dal Libano in ottobre, Reagan non fece nulla nemmeno in dicembre, quando fu bombardata l’ambasciata americana in Kuwait. E non fece nulla neppure quando, poco dopo il ritiro degli americani da Beirut, il capo della sezione locale della Cia, William Buckley, fu rapito e poi ucciso da Hezbollah. Buckley era il quarto americano ad essere rapito a Beirut; tra il 1982 e il 1992 molti altri subirono la stessa sorte (anche se non tutti furono uccisi).
    A quanto pare, furono proprio questi rapimenti a convincere Reagan (il quale aveva giurato che non avrebbe mai negoziato con i terroristi) a fare un patto segreto con l’Iran che prevedeva la fornitura di armi in cambio di ostaggi. Ma mentre gli iraniani furono pagati profumatamente con quasi 1500 missili anticarro, tutto quello che gli americani ottennero furono tre ostaggi americani (senza parlare del grave scandalo Iran-contra).
    Nel settembre 1984, sei mesi dopo l’assassinio di Buckley, un annesso dell’ambasciata americana a Beirut fu colpito da un’altra bomba (la responsabilità fu nuovamente ricondotta a Hezbollah). Reagan ancora una volta non fece nulla. O piuttosto, dopo avere dato luce verde a operazioni segrete di ritorsione delegate ad agenti dei servizi segreti libanesi, vi rinunciò non appena una di queste operazioni (diretta contro il religioso che si pensava essere il capo di Hezbollah) fallì, uccidendo per sbaglio 80 persone. Ci vollero solo altri due mesi prima di un nuovo attacco di Hezbollah. Nel dicembre 1984, fu dirottato un aereo di linea kuwaitiano, e due passeggeri americani (funzionari della U.S. Agency for international development) furono uccisi. Gli iraniani, che avevano fatto irruzione sull’aereo dopo il suo atterraggio a Teheran, promisero di processare i dirottatori, ma invece gli permisero di lasciare indisturbati il paese.
    A questo punto, tutto quello che seppe fare l’Amministrazione Reagan fu offrire una ricompensa di 250.000 dollari a chi fornisse informazioni utili all’individuazione e all’arresto dei dirottatori. Ma non si fece avanti nessuno. Il giugno seguente, i combattenti di Hezbollah dirottarono un altro aereo di linea, questa volta di bandiera americana (Twa volo 847) e lo fecero atterrare a Beirut, dove fu costretto a rimanere per più di due settimane. Durante questi giorni, un ufficiale di marina americano che si trovava a bordo dell’aereo fu ucciso, e il suo corpo fu brutalmente gettato sulla pista. Grazie a questo loro exploit, i dirottatori furono premiati con il rilascio di centinaia di terroristi detenuti in Israele in cambio della liberazione dei passeggeri.
    Sia gli Stati Uniti che Israele negarono di avere violato la propria politica di non negoziazione con i terroristi, ma, come nel caso dell’affare “armi in cambio di ostaggi”, e per le stesse buone ragioni, nessuno gli credette, e si ritenne scontato che Israele avesse agito su pressione da Washington. Successivamente, quattro dirottatori furono catturati, ma soltanto uno fu processato e condannato (peraltro dalla Germania, non dagli Stati Uniti). Lo stillicidio proseguì. Nell’ottobre 1985, un gruppo guidato dal membro dell’Olp Abu Abbas (con l’appoggio della Libia) prese in ostaggio l’Achille Lauro, un nave da crociera italiana. Un terrorista gettò giù dalla nave un vecchio passeggero americano, Leon Klinghoffer.
    Quando i terroristi cercarono di fuggire con un aereo, gli Stati Uniti inviarono alcuni caccia per intercettarlo e lo costrinsero ad atterrare. L’assassino di Klinghoffer fu poi catturato e condannato in Italia, ma le autorità italiane lasciarono libero Abu Abbas. Washington (che evidentemente aveva esaurito il suo repertorio di ritorsioni militari) si limitò a protestare per il rilascio di Abu Abbas. Senza ottenere nulla. Il coinvolgimento della Libia nel sequestro dell’Achille Lauro fu, comunque, l’ultima concessione dell’Amministrazione Reagan al dittatore di quel paese, Muammar Gheddafi.
    Nel dicembre 1985, in due attentati negli aeroporti di Roma e Vienna rimasero uccise venti persone (tra cui cinque americani); poi, nell’aprile 1986, venne fatta esplodere una bomba in una discoteca di Berlino ovest regolarmente frequentata da soldati americani. I servizi segreti americani attribuirono tutti questi attentati alla Libia: la conseguenza finale fu un attacco aereo americano, nel corso del quale fu colpita una delle residenze di Gheddafi.
    Per ritorsione, il terrorista palestinese Abu Nidal uccise tre cittadini americani che lavoravano presso l’università americana di Beirut. Ma Gheddafi – rimasto senza dubbio sorpreso e scosso dalla ritorsione americana – si eclissò temporaneamente come sponsor del terrorismo. Per quanto ne sappiamo, ci vollero tre anni (fino al dicembre 1988) prima che si decidesse ad organizzare una nuova operazione: l’attentato contro il volo 103 della Pan Am, caduto sopra Lockerbie, in Scozia, nel quale persero la vita 270 persone. Dei due agenti segreti libici processati, soltanto uno è stato condannato (soltanto nel 2001), mentre l’altro è stato rilasciato. Lo stesso Gheddafi non ha dovuto subire altre punizioni dai caccia americani.
    Nel gennaio 1989 divenne presidente George H. W. Bush, il quale, in riferimento all’attentato contro il volo 103 della Pan Am, si accontentò di seguire l’approccio al terrorismo già adottato da tutti i suoi predecessori. Durante la sua presidenza, ci sono stati parecchi attentati delle organizzazioni terroristiche islamiche contro gli americani in Turchia, Egitto, Arabia Saudita e Libano. Nessuno di questi è stato sanguinoso quanto i precedenti, e nessuno ha provocato alcuna risposta militare da parte degli Stati Uniti.
    Nel gennaio 1993 è salito alla Casa Bianca Bill Clinton. Anche durante i suoi otto anni di presidenza, cittadini americani sono stati feriti o uccisi in Israele e in altri paesi da terroristi che non si rivolgevano direttamente contro gli Stati Uniti. Ma numerosi e spettacolari operazioni terroristiche dirette esplicitamente contro gli Stati Uniti sono avvenute sotto gli occhi di Clinton. Il prima, il 26 febbraio 1993, soltanto 38 giorni dopo il suo insediamento, è stata l’esplosione di una bomba nel garage del World Trade Center a New York. In confronto a quello che è poi avvenuto l’11 settembre 2001, questo lo si può definire un incidente minore, in cui sono rimaste uccise “soltanto” sei persone e oltre mille ferite. I sei terroristi musulmani colpevoli dell’attentato sono stati arrestati, processati e condannati con severe sentenze.
    Ma nel seguire l’ormai tradizionale modello di considerare simili attentati come crimini comuni, o come l’opera di gruppi canaglia che agivano in proprio, l’Amministrazione Clinton ha consapevolmente ignorato esperti esterni come Steven Emerson e persino il direttore della Cia, R. James Woolsey, il quale aveva grossi sospetti che dietro i singoli colpevoli ci fosse una rete terroristica islamica con il proprio quartier generale in Sudan. Questa rete, allora niente affatto nota al pubblico, si chiamava al Qaida, e il suo leader era un saudita che in Afghanistan aveva combattuto al nostro fianco contro i sovietici, ma che poi si era rivoltato contro di noi. Il suo nome era Osama bin Laden. L’episodio successivo si verificò non molto dopo l’attentato al World Trade Center.
    Nell’aprile 1993, vale a dire meno di due mesi dopo, gli agenti segreti iracheni (come i nostri investigatori hanno dimostrato) cercarono di assassinare l’ex presidente George H. W. Bush, in visita in Kuwait. L’Amministrazione Clinton impiegò altri due mesi per ottener l’approvazione dell’Onu e della “comunità internazionale” a una ritorsione contro questo proditorio assalto nei confronti degli Stati Uniti. Alla fine, un paio di missili cruise furono lanciati su Baghdad, dove caddero nel mezzo della notte senza provocare vittime su edifici vuoti.
    Negli anni immediatamente successivi, i terroristi islamici hanno compiuto numerosi attentati (in Turchia, Pakistan, Arabia Saudita, Libano, Yemen e Israele) non direttamente rivolti contro gli Stati Uniti ma nei quali cittadini americani sono comunque stati uccisi o rapiti. Nel marzo 1995 un camion del consolato statunitense di Karachi, in Pakistan, è rimasto intrappolato in un’imboscata nella quale sono morti due diplomatici americani e un terzo è rimasto ferito.
    Nel novembre dello stesso anno, sono morti cinque americani per l’esplosione di un’autobomba a Riyadh, in Arabia Saudita, nei pressi di un edificio in cui viveva un gruppo di consiglieri statunitensi. Tutto questo è stato di gran lunga sorpassato nel giugno 1996 quando un’autobomba ha fatto saltare in aria un altro edificio in cui vivevano militari americani, le Khobar Towers a Dhahran, in Arabia Saudita. Sono stati uccisi 19 nostri soldati e altri 240 americani sono rimasti feriti.
    Nel 1993, Clinton era stato così deciso nel considerare l’attentato al World Trade Center come un crimine comune che per un periodo relativamente lungo si rifiutò persino di incontrare il direttore della Cia da lui stesso nominato. Forse sapeva già che, sul terrorismo e sugli Stati che lo appoggiavano, Woolsey gli avrebbe detto cose che Clinton non avrebbe voluto sentire, perché non aveva alcuna intenzione di imbarcarsi in qualche azione militare che queste notizie avrebbero potuto rendere necessaria. E anche questa volta Clinton affidò l’inchiesta alla polizia; ma la persona incaricata, ossia il direttore dell’Fbi Louis Freeh (che nutriva sospetti su un legame con l’Iran) non aveva su Clinton maggiore influenza di quella che aveva avuto in precedenza Woolsey. Ci furono alcuni arresti, e tutto finì nelle corti di giustizia. Nel giugno 1998 sono state lanciate alcune granate, fortunatamente senza danni, contro l’ambasciata americana a Beirut.
    Poco tempo dopo, le nostre ambasciate nelle capitali del Kenia (Nairobi) e della Tanzania (Dar es-Salaam) non furono altrettanto fortunate. In un solo giorno (il 7 agosto 1998) contro queste due ambasciate vennero lanciate delle autobombe che hanno provocato oltre 200 morti, dodici dei quali americani. Entrambi gli attentati furono rivendicati da al Qaida. Con quella che, a ragione o a torto, fu ampiamente interpretata, soprattutto all’estero, come una mossa per distrarre l’attenzione dai suoi problemi legali per lo scandalo Lewinsky, Clinton fece lanciare alcuni missili cruise contro un campo d’addestramento di al Qaida in Afghanistan e contro un edificio in Sudan che ospitava una base di al Qaida. Ma bin Laden riuscì a scamparla; per di più non si riuscì ad accertare se l’edificio bombardato in Sudan fosse davvero un laboratorio per la preparazione di armi chimiche o semplicemente una fabbrica di prodotti farmaceutici.
    Questo fiasco (come abbiamo saputo da ex membri della sua amministrazione) tolse a Clinton ogni intenzione di intraprendere altre azioni contro bin Laden, per quanto diverse fonti abbiano rivelato che Clinton autorizzò alcune operazioni segrete di antiterrorismo e parecchie iniziative diplomatiche che hanno portato a un certo numero di arresti in paesi stranieri. Ma, a detta di Dick Morris, il consigliere politico di Clinton in quel periodo: “I settimanali incontri strategici svoltisi alla Casa Bianca per tutto il 1995 e il 1996 furono caratterizzati da un numero sempre maggiore di pressanti consigli al presidente Clinton affinché prendesse iniziative concrete per combattere il terrorismo. I sondaggi davano ragione a questi consigli.
    Ma Clinton continuò a esitare e rinunciò ad agire, trovando sempre un pretesto per considerare più importanti altre questioni. Dopo l’uscita di scena di Morris, molte altre cose cominciarono a fermentare dietro le quinte, ma la maggior parte continuò a restare nell’ambito delle parole o di progetti che non portavano a nulla di concreto. In netto contrasto con la lusinghiera immagine che Richard Clarke avrebbe poi dato di Clinton, Woolsey (che, dopo un breve periodo come direttore della Cia, rassegnò le proprie dimissioni in completa frustrazione) ha offerto un devastante resoconto retrospettivo dell’approccio di Clinton:“Fai qualcosa per dimostrare che non te ne infischi. Lancia un paio di missili nel deserto, fagli prendere un po’ di strizza, e arrestane qualcuno. E poi rinvia la palla”.
    La palla la raccolse bin Laden il 12 ottobre 2000, quando mandò una squadra di attentatori suicidi contro la USS Cole, ancorata per rifornimento in Yemen. I terroristi non riuscirono ad affondare la nave, ma la danneggiarono gravemente, uccidendo 17 marinai americani e ferendone altri 39. Clarke, e qualche altro analista dei servizi segreti, non ebbe dubbi che il colpevole fosse al Qaida. Ma né il capo della Cia né quello dell’Fbi ritennero che le prove fossero decisive. Di conseguenza gli Stati Uniti non alzarono nemmeno un dito contro bin Laden o il regime talebano in Afghanistan, dove in quel momento bin Laden si nascondeva.
    Quanto a Clinton, era talmente preso dal suo futile tentativo di ottenere un accordo tra gli israeliani e i palestinesi che tutto quello che riuscì a vedere in questo attacco contro una nave da guerra americana fu un tentativo “di dissuaderci dalla nostra missione per la promozione della pace e della sicurezza in medioriente”. I terroristi, proclamò con enfasi, avrebbero “completamente fallito” in questo tentativo. Non sembrava avere alcuna importanza il fatto che non vi fosse la minima indicazione che bin Laden fosse interessato ai negoziati di Camp David tra israeliani e palestinesi o che la stessa questione palestinese fosse per lui più importante di altre. In ogni caso, fu Clinton a fallire e non bin Laden. I palestinesi, sotto la guida di Yasser Arafat, dopo avere gettato al vento un’offerta straordinariamente generosa fatta dal primo ministro israeliano, Ehud Barak, e entusiasticamente sottoscritta da Clinton, scatenarono una nuova ondata di terrorismo. E bin Laden avrebbe presto ottenuto un successo clamoroso nel suo progetto di colpire ancora gli Stati Uniti.
    La semplice audacia dell’azione compiuta da bin Laden l’11 settembre 2001 è stata senza dubbio il frutto del suo disprezzo per la potenza americana. Il nostro continuo rifiuto di usare questa potenza contro di lui e i suoi terroristi (o di usarla con efficacia tutte le volte che ci avevamo provato) rafforzò la sua convinzione che gli Stati Uniti fossero una nazione sulla via del declino, destinata ad essere sconfitta dal risorgere di quella militanza islamica che un tempo aveva conquistate convertito con la forza della propria spada una larga fetta del mondo. Secondo la visione di bin Laden, migliaia e addirittura milioni di suoi seguaci e simpatizzanti in tutto il mondo musulmano erano pronti a morire come martiri nel jihad, la guerra santa, contro il “Grande Satana”, come ci aveva definiti l’ayatollah Khomeini. Inoltre, noi occidentali, soprattutto in America, avevamo talmente paura di morire che ci mancava persino la volontà di combattere per difendere il nostro degenerato stile di vita. Bin Laden non ha mai fatto misteri di questo suo giudizio sugli Stati Uniti. In un’intervista rilasciata alla Cnn nel 1997, ha dichiarato: “Il mito della superpotenza è stato distrutto, non solo nella mia mente ma anche in quella di tutti i musulmani, quando l’Unione Sovietica fu sconfitta in Afghanistan”.
    Il fatto che i guerriglieri musulmani in Afghanistan non avrebbero quasi certamente vinto se non fossero stati riforniti di armi dagli Stati Uniti non sembra fare parte della lezione che bin Laden ha tratto dalla sconfitta dell’Urss. Così, in un’intervista rilasciata un anno prima, aveva sminuito gli Stati Uniti rispetto all’Unione Sovietica: “Il soldato russo è più coraggioso e tenace del soldato americano”; di conseguenza, “la nostra battaglia contro gli Stati Uniti appare più facile di quella che abbiamo dovuto combattere in Afghanistan”. Facendosi ancora più esplicito, bin Laden bollò gli americani come codardi. Reagan non se l’era forse data a gambe dal Libano dopo l’attentato conto la caserma dei marine nel 1983? E Clinton non aveva forse fatto la stessa cosa dieci anni dopo, non appena alcuni ranger americani erano rimasti uccisi in Somalia, dove erano stati mandati per partecipare ad un’operazione di “peacekeeping”? Bin Laden non si attribuì la responsabilità di questi assassinii, ma, secondo un rapporto del Dipartimento di Stato, al Qaida aveva addestrato i terroristi che avevano teso l’imboscata agli americani (la storia di quanto avvenuto in Somalia fu raccontata dal film di Mark Bowden, “Black Hawk Down”, che, a quanto si dice, divenne uno dei film preferiti di Saddam Hussein). In una terza intervista rilasciata nel 1998, bin Laden ha offerto una spiegazione riassuntiva: “Dopo avere lasciato l’Afghanistan, i combattenti musulmani si recarono in Somalia e si prepararono ad una lunga battaglia, pensando che gli americani fossero come i russi. Rimasero sorpresi dal morale basso dei soldati americani e si resero finalmente conto che il soldato americano era una tigre di carta e che dopo un paio di colpi fuggiva in ritirata”.

    Calcoli errati
    Bin Laden non è stato il primo nemico di un regime democratico ad essere incoraggiato da simili impressioni. Negli anni trenta, Adolf Hitler fu convinto dell’incapacità degli inglesi di riarmarsi per difendersi dalla nuova minaccia, così come dalla loro politica di appeasement nei suoi confronti, che l’Inghilterra fosse sulla via del declino e non sarebbe mai scesa in guerra, nemmeno se avesse continuato ad invadere un paese dopo l’altro. Lo stesso vale per Joseph Stalin all’indomani della seconda guerra mondiale. Incoraggiato dalla rapida smobilitazione degli Stati Uniti (cosa che ai suoi occhi significava che non eravamo preparati e disposti ad opporci alle sue iniziative con la forza militare), Stalin violò la promessa che aveva fatto a Yalta quando aveva accettato di organizzare libere elezioni nei paesi dell’Europa orientale occupati dalla Russia alla fine della guerra.
    Al contrario, consolidò il suo dominio su questi paesi, e si rivolse minacciosamente verso la Grecia e la Turchia. Dopo la morte di Stalin, i suoi successori ripeterono lo stesso gioco tutte le volte che percepivano un indebolimento della determinazione americana. In certi casi si trattò di manovre intese a stabilire un equilibrio di potenza militare favorevole all’Urss. In altri, si trattò di utilizzare come strumento i partiti comunisti locali o altri canali. Ma grazie al declino della potenza americana dopo il ritiro dal Vietnam (un declino riflesso dal diffondersi, alla fine degli anni Settanta, di tendenze isolazioniste e pacifiste, ed espresso in termini concreti da una riduzione delle spese militari), Leonid Breznev non ebbe alcun timore nell’inviare le sue truppe in Afghanistan nel 1979.
    Fu lo stesso declino della potenza americana, così stranamente incarnato da Jimmy Carter, che, meno di due mesi prima dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, aveva incoraggiato l’ayatollah Khomeini a prendere in ostaggio cittadini americani. Senza dubbio, molti negarono che l’audace azione di Khomeini avesse alcunché a che fare con la sua convinzione che, con Carter, gli Stati Uniti fossero diventati impotenti. Ma questa tesi non poteva essere sostenuta di fronte al contrasto tra il comportamento mantenuto dal regime khomeinista in occasione dell’attacco alla nostra ambasciata di Teheran e l’aiuto invece offerto ai sovietici quando un gruppo di manifestanti iraniani cercò di fare irruzione nell’ambasciata sovietica subito dopo l’invasione dell’Afghanistan.
    I fondamentalisti islamici al potere in Iran odiavano il comunismo e l’Unione Sovietica con la stessa forza con cui odiavano gli Stati Uniti, in particolare dopo l’invasione di un paese musulmano. Di conseguenza, il diverso atteggiamento mantenuto da Khomeini non può essere spiegato da fattori ideologici o politici. La spiegazione sta nella paura delle ritorsioni sovietiche; quanto agli Stati Uniti, ci si aspettava invece che, avendo perso la loro determinazione, avrebbero fatto qualsiasi cosa pur di evitare l’uso della forza. Lo stesso vale per Saddam Hussein.
    Nel 1990, durante la presidenza di George Bush padre, Saddam Hussein invase il Kuwait in quello che fu ampiamente, e giustamente, considerato il primo passo di un piano per assumere il controllo dei pozzi petroliferi medio-orientali. Il presidente americano, incoraggiato da Margaret Thatcher, allora primo ministro dell’Inghilterra, dichiarò che l’invasione non sarebbe stata tollerata e mise insieme una coalizione che inviò una forza imponente nella regione. Già questo soltanto avrebbe potuto impaurire Saddam e convincerlo a ritirarsi dal Kuwait, se non fosse stato per l’ondata di isteria che si abbatté sugli Stati Uniti, dove si prediceva che, se fossimo entrati in guerra contro l’Iraq, sarebbero tornate in patria decine di migliaia di “sacchi neri” con i corpi dei soldati americani.
    Non senza ragione, Saddam concluse che, se avesse tenuto duro, gli americani avrebbero ceduto. Il fatto che Saddam avesse fatto male i suoi calcoli e che l’America fosse passata dalle minacce ai fatti non impressionò particolarmente Osama bin Laden. Dopo tutto, temendo le numerose perdite che avremmo subito se, dopo la liberazione del Kuwait, ci fossimo diretti su Baghdad, avevamo permesso a Saddam di restare al potere. Per bin Laden, questa non era altro che un’ulteriore prova della debolezza che avevamo già dimostrato con l’inefficace politica sul terrorismo seguita da una lunga serie di presidenti americani. Non stupisce che fosse convinto di poter colpirci sul nostro territorio, e scamparla.
    Tuttavia, proprio come Saddam aveva fatto male i suoi calcoli nel 1990 (e come avrebbe di nuovo fatto nel 2002), bin Laden non capì affatto come avrebbero reagito gli americani se fossero stati colpiti sul loro stesso territorio. Con ogni probabilità, si aspettava un crollo nella disperazione e nella demoralizzazione; invece, ciò che ha ottenuto è stato uno scoppio di rabbia e una rinascita di sentimento patriottico come gli americani più giovani li avevano visti soltanto al cinema e di cui non avevano mai avuto esperienza personale.
    In questo senso, bin Laden ha fatto per questo paese esattamente ciò che Khomeini aveva fatto prima di lui. Prendendo in ostaggio cittadini americani, e scampandola senza subire alcune ritorsioni Khomeini aveva inflitto una grande umiliazione agli Stati Uniti. Ma, allo stesso tempo, aveva rivelato quanto fosse stupida la visione del mondo che aveva Jimmy Carter.
    La stupidità non stava nel fatto che Carter si era reso conto che, perlomeno da dopo il Vietnam in poi, la potenza militare, economica, politica e morale dell’America aveva continuato a decadere. Stava invece nelle conclusione che Carter ne trasse. Anziché proporre politiche intese a fermare il declino, sostenne che la causa risiedesse nel gioco di forze storiche che non potevano in alcun modo essere né fermate né rallentate. A suo giudizio, invece di lamentarci e agitarci in un vano tentativo di riprendere il nostro posto al sole, dovevamo per prima cosa riconoscere, accettare e subire questo inesorabile sviluppo storico, e poi reagire “con misurato equilibrio”. In un sol colpo, l’ayatollah Khomeini mandò all’aria l’illusoria filosofia di Carter, facendola apparire assurda agli occhi di moltissimi americani, compresi quelli che prima l’avevano condivisa.
    Parallelamente, nuovo coraggio fu infuso in coloro che, rifiutando l’idea che il declino americano fosse inevitabile, avevano sostenuto che la ragione stesse nelle politiche sbagliate e che la tendenza potesse essere invertita ritornando a quelle politiche più efficaci grazie alla quali eravamo diventati una superpotenza. Tutta la vicenda divenne quindi una delle forze che spingevano una già risoluta determinazione a ricostruire la potenza americana, e il risultato finale fu l’elezione di Ronald Reagan, che aveva impostato la sua campagna elettorale proprio su questo tema. E malgrado tutti i difetti del suo modo di affrontare il terrorismo, Reagan mantenne la sua promessa e ricostruì la potenza americana. E’ stato proprio questo a determinare la vittoria in quella guerra fredda che si combatteva fin dal 1947, quando il presidente americano Harry Truman aveva deciso di resistere contro ogni ulteriore avanzata dell’impero sovietico.
    Ben pochi contemporanei di Truman si sarebbero mai sognati che questo prodotto della macchina politica di Kansas City, il quale aveva passato la sua vita occupandosi di tasse e di ferrovie, si sarebbe opposto con tale decisione e successo contro la minaccia dell’imperialismo sovietico. Nello stesso modo, cinquantaquattro anni dopo di lui, un altro politico con una reputazione piuttosto bassa e fino ad allora mai interessato alla politica estera si sarebbe trovato di fronte ad una sfida probabilmente molto più difficile di quella che dovette affrontare Truman; e anche lui ha stupito i suoi contemporanei per la determinazione con la quale ha reagito.
    In “The Sources of Soviet Conduct” (del 1947) la difesa teorica della strategia adottata da Harry Truman per combattere la nuova guerra, George F. Kennan (allora direttore del Policy planning staff del Dipartimento di Stato, e autore del documento con lo pseudonimo “X”), descriveva questa strategia come “un contenimento di lungo termine, paziente ma risoluto e attento alla volontà di espansione russa (…) per mezzo dell’applicazione acuta e vigile della controforza in una serie di aree geografiche e politiche in costante mutamento”. In altri termini (sebbene lo stesso Kennan non abbia usato proprio quelle parole), avevamo di fronte la prospettiva di un’altra guerra mondiale; e – benché negli anni successivi, sconfessando il significato evidente delle parole che lui stesso aveva usato, Kennan cercasse di pretendere che la “controforza”che aveva in mente non fosse di tipo militare – non sarebbe stata una guerra completamente “fredda”. Prima della sua conclusione, sarebbero morti oltre 100.000 americani sui lontani campi di battaglia della Corea e del Vietnam, e sarebbe stato sparso anche il sangue di molti nostri alleati nella lotta ideologica e politica contro l’Unione Sovietica su quegli stessi campi di battaglia e in molti altri ancora.
    Per queste ragioni,sono d’accordo con uno dei nostri quattro più autorevoli studiosi di strategia militare, Eliot A. Cohen, il quale ritiene che a quella che si definisce normalmente “guerra fredda” (un’espressione, detto per inciso, coniata dalla propaganda sovietica) dovrebbe essere dato un altro nome. “La guerra fredda”, scrive Cohen, fu in realtà “la terza guerra mondiale, cosa che ci fa ricordare che non tutti i conflitti globali implicano il movimento di eserciti di milioni di uomini, o le convenzionali linee del fronte disegnate su una carta”. Sono anche d’accordo sul fatto che la natura del conflitto che combattiamo oggi può essere compresa adeguatamente soltanto se lo consideriamo come la quarta guerra mondiale.
    Per giustificare questo nome (anziché, per esempio, “guerra al terrorismo”), Cohen elenca “alcune caratteristiche fondamentali” che l’accomunano alla terza guerra mondiale: “Il fatto che sia, in effetti, globale; che preveda una combinazione di iniziative militari e non militari; che richieda la mobilitazione di notevoli capacità, esperienze e risorse, se non di un vasto numero di soldati; che possa durare molto tempo; che abbia radici ideologiche”. C’è ancora una caratteristica in comune non menzionata da Cohen: sia la terza che la quarta guerra mondiale sono state dichiarate per mezzo di una dottrina presidenziale.
    La dottrina Truman del 1947 nacque con l’annuncio che “la politica degli Stati Uniti doveva essere a sostegno dei popoli liberi che resistono contro la sottomissione da parte di minoranze armate o di pressioni esterne”. Cominciando con un programma speciale di aiuti alla Grecia e alla Turchia, che erano minacciate dalla possibilità di un golpe comunista, la strategia fu presto estesa lanciando un ambizioso programma di aiuti economici noto come Piano Marshall.
    Lo scopo del Piano Marshall era quello di promuovere e affrettare la ricostruzione dell’economia dell’Europa occidentale, distrutta dalla guerra: non solo perché si trattava di una cosa giusta in sé, né soltanto perché era nell’interesse americano, ma anche perché avrebbe contribuito a eliminare le rimostranze di cui il comunismo si nutriva Poi avvenne però un colpo di Stato comunista in Cecoslovacchia. Essendo avvenuto subito dopo l’insediamento nei paesi occupati dell’Europa dell’est di regimi fantoccio da parte dell’Unione Sovietica, il colpo di Stato cecoslovacco dimostrò che le misure economiche non sarebbero state sufficienti per allontanare un analogo pericolo per l’Italia e la Francia da parte dei fortissimi partiti comunisti locali completamente asserviti a Mosca. Sulla base di questa consapevolezza (e di analoghe preoccupazioni su una possibile invasione sovietica dell’Europa occidentale) fu creata la North Atlantic Treaty Organization (Nato).
    Il contenimento si presentava quindi come una strategia triplice: economica, politica e militare. Tutte e tre queste componenti sarebbero state utilizzate in varia misura nel corso dei quattro decenni che ci sono voluti per vincere la terza guerra mondiale. Se la dottrina Truman si è dispiegata in modo graduale, rivelando il suo pieno significato poco a poco, la dottrina Bush è stata enunciata in modo pressoché completo in un solo discorso, pronunciato davanti a una seduta plenaria del Congresso il 20 settembre 2001. E’ stata poi ulteriormente chiarita ed elaborata in tre successive dichiarazioni: il primo discorso sullo stato dell’Unione pronunciato da Bush il 29 gennaio 2002; il discorso all’accademia militare di Westpoint del primo giugno 2002 e le osservazioni sul medioriente rilasciate tre settimane dopo, il 24 giugno.
    A parte questa differenza, lo stupore è stato altrettanto grande che al tempo di Truman, sia per il contenuto della nuova dottrina sia per la trasformazione che rivelava nel suo autore. Perché George W. Bush, che in politica estera era sempre stato un più o meno passivo discepolo di suo padre, si era messo a parlare come un combattivo seguace di Ronald Reagan. In netto contrasto con Reagan, generalmente considerato un pericoloso ideologo, Bush padre (che era stato vicepresidente di Reagan) fu spesso accusato di non avere alcuna “visione ideale”. L’accusa era giusta perché Bush padre non aveva in effetti alcun principio guida per il ruolo che gli Stati Uniti avrebbero potuto svolgere nel rimodellamento del mondo post guerra fredda.
    Tenace sostenitore del punto di vista “realista” negli affari mondiali, riteneva che il mantenimento della stabilità fosse lo scopo precipuo della politica estera americana, e la sola via saggia e prudente da seguire. Perciò, quando, nel 1991, Saddam Hussein sconvolse l’equilibrio di potenza in medioriente invadendo il Kuwait, Bush entrò in guerra non per creare una nuova configurazione nella regione ma per restaurare lo status quo ante. E fu a causa della stessa dominante preoccupazione per il mantenimento della stabilità che, dopo avere realizzato l’obiettivo di cacciare Saddam dal Kuwait, Bush lo lasciò al potere.

    Prima e dopo l’11 settembre
    Quanto al secondo presidente Bush, prima dell’11 settembre era, secondo tutte le apparenza, altrettanto privo di una “visione ideale”. Se nutriva qualche dubbio sull’opportunità dell’approccio “realista”, non lo dava a vedere. Nulla di ciò che diceva o faceva poteva in alcun modo far supporre che fosse insoddisfatto dell’idea secondo la quale il suo principale compito in politica estera era quello di mantenere in equilibrio la situazione. Né c’era alcun segno che potesse essere attratto dalla più “idealistica” ambizione reaganiana di cambiare il mondo, e in particolare con il fine “wilsoniano” di renderlo un luogo “sicuro per la democrazia” incoraggiando in tutti i paesi possibili le libertà di cui godevano gli americani. E’ per questo che il discorso fatto da Bush il 20 settembre 2001 ha lasciato tutti di stucco.
    Pronunciato soltanto nove giorni dopo l’attacco al World Trade Center e al Pentagono, con l’ufficiale dichiarazione che gli Stati Uniti erano ora in guerra, il discorso del 20 settembre diede a questa nazione la consapevolezza che, pur se era stato davvero un rigido e tradizionale realista come suo padre, George W. Bush era ora diventato un politico rinato come un appassionato idealista della democrazia secondo il modello reaganiano.
    Questo discorso fu anche l’atto di nascita della dottrina Bush, nella quale si delineava il concetto di quarta guerra mondiale con la stessa chiarezza con cui nella dottrina Truman si era delineato quello di terza guerra mondiale. Bush non definì esplicitamente quarta guerra mondiale il nuovo conflitto, ma lo caratterizzò come il diretto successore delle due precedenti guerre mondiali. Così, a proposito della “rete terroristica globale” che ci aveva attaccato sul nostro stesso suolo, disse: “Abbiamo già visto questo tipo di cose. Sono le eredi di tutte le violente ideologie del ventesimo secolo. Sacrificando la vita umana al servizio delle loro idee radicali, rinunciando ad ogni valore tranne che alla volontà di potenza, seguono la strada del fascismo, del nazismo e del totalitarismo. E continueranno a seguire quella strada fino a precipitare nella fossa comune delle menzogne”.
    Se questo passaggio, all’inizio del discorso, collegava la dottrina Bush a quella Truman e alla grande battaglia prima combattuta da Franklin D. Roosevelt, la parte finale dimostrava che, se il presidente George W. Bush non aveva fino ad allora avuto una “visione ideale”, ora gli luccicava addirittura negli occhi. “Ci è stato fatto un enorme male”, proclamò verso la fine, “abbiamo subito una grande perdita. Ma nel nostro dolore e nella nostra rabbia abbiamo trovato la nostra missione e il nostro scopo”. Poi ne definì concretamente il contenuto: “Il progresso della libertà umana, il grande risultato del nostro tempo e la grande speranza di sempre, ora dipende da noi. La nostra nazione libererà il suo popolo e il suo futuro da quest’oscura minaccia di violenza. Con il nostro impegno e il nostro coraggio, chiameremo a raccolta il mondo. Non si stancheremo, non tentenneremo e non falliremo”.
    Alla fine del suo appello, usando in parte le stesse parole che prima aveva riferito alla nazione nel suo complesso, Bush passò a parlare in prima persona, giurando il proprio impegno nella grande missione che tutti eravamo chiamati a compiere: “Non dimenticherò la ferita inferta al nostro paese né tantomeno coloro che ci hanno colpito. Non esiterò, non mi fermerò e non mi tirerò mai indietro in questa battaglia per la libertà e la sicurezza del popolo americano. Lo svolgimento di questo conflitto è ignoto, ma il suo risultato è certo.
    La libertà e la paura, la giustizia e la crudeltà, sono sempre state in guerra, e noi sappiamo che Dio non è neutrale in questa lotta”. Nemmeno Ronald Reagan, il “Grande Comunicatore”, aveva mai espresso con simile eloquenza lo slancio“idealistico” sul quale si fondava la sua concezione del ruolo dell’America nel mondo. E non è stata la sola volta che Bush ha battuto su questo tasto.
    Due anni e mezzo dopo il discorso del 20 settembre 2001, in un momento in cui la guerra sembrava andare molto male, ha ribadito le stesse idee con cui aveva cercato di rincuorare la nazione subito dopo gli attentati. L’occasione è stata un discorso d’apertura alla Air Force Academy, pronunciato il 2 giugno 2004, nel corso del quale ha ripetutamente posto la “guerra contro il terrorismo” in diretta successione alla seconda e alla terza guerra mondiale. Ha anche rinunciato a qualsiasi cortesia diplomatica nel suo rifiuto del realismo: “Per decenni, le nazioni libere hanno tollerato, in nome della stabilità, l’oppressione in medioriente. In pratica, questo atteggiamento ha portato soltanto a meno stabilità e a più oppressione. Perciò, ho deciso di cambiare politica”. E in modo ancora meno diplomatico: “Alcuni di coloro che si definiscono realisti si chiedono se la diffusione della democrazia in medioriente debba essere una nostra preoccupazione.
    Ebbene, i realisti in questo caso hanno perso contatto con una realtà fondamentale: l’America è sempre stata meno al sicuro quando la libertà è costretta a battere in ritirata, e lo è sempre stata di più quando la libertà marcia trionfalmente in avanti”. Per coronare il tutto, Bush ha infine asserito che la sua politica, da lui giustificata in primo luogo come il modo migliore per proteggere gli interessi americani, si inseriva anche nel solco della versione reaganiana dell’idealismo wilsoniano: “Questo conflitto avrà molte svolte, e ci saranno disfatte lungo la strada della vittoria.
    Ma la nostra fiducia deriva da una convinzione incrollabile: Noi crediamo nelle parole di Ronald Reagan, il quale affermava che “il futuro appartiene agli uomini liberi”. Il primo pilastro della dottrina Bush, dunque, poggia sul rifiuto del relativismo morale e su una affermazione aperta e risoluta della necessità e della possibilità di un giudizio morale nell’ambito degli affari internazionali. E per essere certo che ciò che aveva detto il 20 settembre 2001 aveva colpito nel segno, Bush lo ha ribadito con precisione ancora maggiore nel discorso sullo stato dell’Unione, pronunciato il 29 gennaio 2002. Bush aveva ottenuto da molti un entusiastico applauso per la “chiarezza morale” del suo discorso del 20 settembre, ma aveva anche provocato un disprezzo e un disgusto ancora più profondi in numerosi pensatori “progressisti”, commentatori “raffinati” e diplomatici, tanto in patria quanto all’estero. Nel discorso sullo stato dell’Unione esasperò addirittura il loro sdegno mettendosi a parlare in modo più specifico. Mentre prima aveva parlato soltanto in termini generali del nemico contro il quale dovevamo combattere la quarta guerra mondiale, ora Bush indicò tre nazioni (Iraq, Iran e Corea del Nord), da lui definite come parte di un “asse del male”.

    Dall’impero all’asse
    Ancora una volta Bush seguiva in questo le orme di Ronald Reagan, il quale aveva denunciato l’Unione Sovietica (nostro principale nemico durante la terza guerra mondiale) come un “impero del male” ed era stato accolto da un autentico scoppio di isteria nelle ambasciate, nelle università e nei giornali di tutto il mondo. Male? Quale posto poteva avere una parola come quella nel vocabolario degli affari internazionali, concesso poi che non sarebbe mai venuto in mente a una persona illuminata di riesumarla dal cimitero dei concetti antiquati nemmeno per impiegarla in qualsiasi altro ambito? Ma agli occhi degli “esperti”, Reagan non era affatto una persona illuminata. Era invece un “cowboy”, un attore di film di serie B, il quale, per qualche meccanismo perverso della democrazia, era riuscito a salire alla Casa Bianca.
    Per la sua denuncia dell’impero sovietico, Reagan fu accusato sia di volere scatenare una guerra nucleare sia di essere troppo stupido per capire ciò che la sua retorica violentemente provocatoria avrebbe inavvertitamente potuto provocare. La reazione di fronte alle parole di Bush è stata forse meno isterica ma più sprezzante e sdegnata rispetto a quella suscitata da Reagan, dal momento che in questo caso non si è paventata la guerra nucleare. Ma l’atmosfera è stata altrettanto spessa e fitta di scherno e derisione.
    Chi altri se non un ignorante sempliciotto – o un fanatico fondamentalista religioso – potrebbe ricorrere ad antiquati e sorpassati commenti morali assoluti come “bene” e “male”? Da un lato, ci voleva davvero una massiccia dose di semplicioneria per bollare un’intera nazione come il “male”; dall’altro, soltanto uno sciocco come Bush (ancora più di Reagan) poteva convincersi e sostenere con completa e infantile sincerità che solo gli Stati Uniti, tra tutti i paesi del mondo, rappresentino il bene. Senza dubbio soltanto un ignorante zoticone può non essere consapevole degli innumerevoli crimini commessi dall’America, tanto sul suo stesso suolo quanto all’estero; crimini che i più autorevoli intellettuali del paese hanno documentato con la massima precisione richiesta dalla ormai classica visione accademica della storia di questo paese.
    Ecco come si esprime Gore Vidal, uno di questa schiera di intellettuali: “Insomma, vedere Bush fare la sua piccola danza di guerra nel Congresso contro i “malfattori” e “l’asse del male” (…) Ho pensato: non sa nemmeno che cosa significhi la parola ‘asse’. Qualcuno deve avergliela suggerita. E’ forse la cosa più insensata che si possa dire. Poi se ne viene fuori con una dozzina di altri paesi che ospitano gente ‘cattiva’, che potrebbe compiere ‘atti terroristici’. Che cos’è un atto terroristico? Tutto ciò che secondo lui è un atto terroristico. E noi daremo la caccia ai terroristi. Perché noi siamo il bene e loro sono il male. E li ‘beccheremo’”. Sono parole più dure e violente di quelle lette sulle pagine degli editoriali, ascoltate nei think tank e nei ministeri esteri o espresse dalla maggior parte degli altri intellettuali, ma in realtà niente affatto diverse da ciò che quasi tutti costoro pensano e dicono in privato.
    Ma si è capito abbastanza presto che Bush non si sarebbe fatto intimidire. In successive dichiarazioni ha continuato a ribadire il primo pilastro della sua dottrina e ad affermare l’universalità del fine morale che anima questa nuova guerra: “Alcuni si preoccupano del fatto che non sia diplomatico o gentile parlare nei termini di ciò che è giusto o sbagliato. Non sono d’accordo. Circostanze differenti richiedono metodi differenti, ma non principi morali differenti.
    La verità morale è la stessa in ogni cultura, in ogni tempo, in ogni luogo. Siamo impegnati in una battaglia tra il bene e il male, e l’America chiama il male con il suo nome”. Poi, con un affascinante salto nel grande dibattito teoretico dell’era post guerra fredda (sebbene senza identificare i principali partecipanti), Bush si è schierato apertamente dalla parte della molto fraintesa tesi di Francis Fukuyama sulla “fine della storia”, secondo la quale la sconfitta del comunismo aveva eliminato il solo vero rivale del nostro sistema politico: “Il ventesimo secolo si è concluso con un solo modello ancora in vita di progresso umano, fondato su esigenze imprescindibili della dignità umana, sul regno della legge, sui limiti del potere dello Stato, sul rispetto delle donne, della proprietà privata, della libertà di parola, della giustizia uguale per tutti e della tolleranza religiosa”.
    Dopo avere condiviso la tesi di Fukuyama, Bush ha respinto la tesi rivale del politologo Samuel Huntington, secondo il quale stiamo assistendo ad uno “scontro di civiltà”, nato dal conflitto fra visioni apparentemente incompatibili dominante nelle varie regioni del mondo: “Quando si tratta dei diritti comuni e delle esigenze degli uomini e delle donne, non c’è nessuno scontro di civiltà. I canoni della libertà sono gli stessi in Africa, in America Latina e nel mondo islamico. I popoli delle nazioni islamiche desiderano e meritano le stesse libertà e le stesse opportunità che hanno i popoli di altre nazioni. I loro governi devono soddisfare queste speranze”.

    Il regime change
    Se il primo dei quattro pilastri sui quali poggia la dottrina Bush è rappresentato da un nuovo atteggiamento morale, il secondo è costituito da un altrettanto significativo spostamento di concezione sul terrorismo rispetto alla definizione che si è imposta nel mondo accademico e in quello degli intellettuali. In base a questa nuova concezione (confermata ripetutamente dal fatto che la maggior parte dei terroristi di cui sappiamo qualcosa provengono da famiglie benestanti), il terrorismo non viene più considerato il prodotto di fattori economici. Le “paludi” in cui questa peste assassina si nutre non sono quelle della povertà e della fame ma quelle dell’oppressione politica. Soltanto prosciugando queste paludi attraverso una strategia di “cambio di regime” possiamo liberarci dalla minaccia del terrorismo e allo stesso tempo dare ai popoli di “tutto il mondo islamico” le libertà che “desiderano e meritano”. Inoltre, secondo questa nuova concezione, i terroristi, con pochissime eccezioni, non sono folli che agiscono per proprio conto, ma agenti di organizzazioni che dipendono dall’appoggio di vari governi.
    Il nostro scopo, perciò, non può essere semplicemente quello di catturare o uccidere Osama bin Laden e di annientare i terroristi di al Qaida che stanno ai suoi ordini. Bush ha giurato che sradicheremo e distruggeremo l’intera rete delle organizzazioni e delle cellule terroristiche “con ramificazioni globali” che hanno le proprie basi in almeno 50 o 60 paesi. Non considererò più i membri di questi gruppi come criminali comuni che devono essere arrestati dalla polizia, ai quali devono essere concessi tutti i diritti e che devono essere sottoposti a regolare processo. Da ora in poi, devono essere considerati come combattenti irregolari di una alleanza militare in guerra contro gli Stati Uniti, e anzi contro tutto il mondo civile.
    Non che questa analisi del terrorismo fosse stata esattamente un segreto. Lo stesso Dipartimento di Stato aveva redatto un elenco di sette Stati sponsor del terrorismo – tutti tranne due, Cuba e la Corea del Nord, sono a maggioranza musulmana – e pubblicava regolarmente rapporti sugli attentati terroristici in tutte le regioni del mondo. Ma a parte il lancio di un paio di missili cruise, qualche provvedimento diplomatico e qualche sanzione economica applicata in modo saltuario e soltanto proforma, nonché un certo numero di operazioni segrete, continuava a dominare l’approccio legalistico.
    L’11 settembre ha cambiato molto, se non proprio tutto. Ma continuavano a essere usate frasi arcaiche come “consegnare i terroristi alla giustizia”. Ma nessuno poteva più sognarsi che la risposta americana a ciò che ci era stato fatto a New York e Washington avrebbe potuto cominciare con un’indagine dell’Fbi e terminare con una serie di normali processi. Era stata dichiarata guerra contro gli Stati Uniti, e gli Stati Uniti erano entrati in guerra. Ma contro chi? Poiché era certo che Osama bin Laden era l’architetto dell’11 settembre, e poiché Osama stesso si nascondeva in Afghanistan insieme alla leadership di al Qaida, il primo obiettivo, e quindi il primo banco di prova per questo secondo pilastro della dottrina Bush si è offerto da se stesso.
    Prima di ricorrere alla forza militare, tuttavia, Bush ha lanciato un ultimatum ai radicali estremisti talebani che erano al potere in Afghanistan. L’ultimatum richiedeva ai talebani di consegnarci Osama bin Laden e i suoi seguaci e di chiudere tutti i loro campi di addestramento. Rifiutando l’ultimatum, i talebani hanno provocato non soltanto l’invasione del paese ma anche, in base alla dottrina Bush, il loro stesso rovesciamento. Così, il 7 ottobre 2001, gli Stati Uniti (affiancati dalla Gran Bretagna e da una dozzina di altri Stati) hanno sferrato una campagna militare contro al Qaida e il regime che le forniva “aiuto e protezione”.
    In confronto a quello che sarebbe avvenuto in seguito, non ci fu molta opposizione né in patria né all’estero al momento dell’apertura del primo fronte di battaglia della quarta guerra mondiale. Il motivo era che la campagna in Afghanistan poteva essere facilmente giustificata come una ritorsione contro i terroristi che ci avevano attaccato. E, per quanto si discutesse piuttosto animatamente sul pericolo di seguire una politica di “cambio di regime”, in pratica c’era ben poca simpatia (al di fuori del mondo musulmano, ovviamente) per i talebani.
    Tutte le critiche contro la guerra in Afghanistan si condensavano in uno scetticismo sulle possibilità di vincerla. In verità, dietro a questo scetticismo si nascondeva in certi settori una vera e propria opposizione contro la potenza americana in generale. Ma una volta avviata la campagna afghana, l’attenzione principale fu rivolta a tutto ciò che sembrava andare storto sul campo di battaglia. Per esempio, soltanto un paio di settimane dopo l’inizio della campagna, quando ci furono alcuni passi falsi nell’uso dei combattenti afghani dell’Alleanza del Nord, osservatori come R.W. Apple, del New York Times, richiamarono immediatamente lo spettro del Vietnam. Questo fantasma inquietante, richiamato dalle vaste profondità, da questo momento in poi rifiutò di farsi esorcizzare, e si sarebbe insinuato in tutti i dibattiti sulle prime battaglie della quarta guerra mondiale.
    In quest’occasione, il messaggio era che stavamo cadendo vittime dell’illusione che potevamo contare su una forza locale male addestrata per svolgere i combattimenti sul terreno mentre noi ci limitavamo a fornire il supporto logistico e la copertura aerea. Questa strategia era inevitabilmente destinata a fallire, e ci avrebbe fatto precipitare in quello stesso “pantano” in cui eravamo finiti in Vietnam. Dopo tutto, come Apple e altri hanno sostenuto, anche l’Unione Sovietica aveva subito il proprio “Vietnam” in Afghanistan, ma, a differenza nostra, non era stata intralciata dai problemi logistici di proiezione della forza militare a grande distanza. Come ci si poteva aspettare di avere maggiore successo?
    Tuttavia, quando i B52 scaricarono le bombe da 15 mila libbre “Daisy Cutter”, lo spettro del Vietnam scomparve, almeno temporaneamente, e smentì i timori di alcuni (e le speranze di altri) che stavamo finendo in un pantano. Ben lungi dal non servire ad altro che “abbattere le macerie”, come gli avversari di Bush avevano scritto con sarcasmo, le “Daisy Cutter” hanno avuto, come persino un articolo del New York Times ha dovuto ammettere, “un terrificante effetto psicologico nel momento stesso in cui esplodevano sul terreno, spazzando via tutto quello che esisteva nel raggio di chilometri”. Ma le “Daisy Cutters” erano solo una parte della storia. Come tutti scoprirono presto, le nostre “bombe intelligenti” avevano ormai una tecnologia molto superiore a quelle usate nel 1991.
    Nel 2001, in Afghanistan, queste bombe (guidate da uomini “spotters” sul terreno, equipaggiati con radio, computer, laser, che molto spesso si muovevano a cavallo e aiutati da satelliti e altri rilevatori aerei) si sono dimostrate incredibilmente precise, evitando perdite di civili e causando enorme distruzione nelle postazioni nemiche. E’ stato questo “nuovo tipo di potenza americana”, si leggeva nello stesso articolo del New York Times, “a offrire a una forza male addestrata” (vale a dire la stessa Alleanza del Nord che, a quanto pare, ci stava trascinando in un pantano) la possibilità di sconfiggere le “truppe esperte” dei talebani in meno di tre mesi, e con la perdita di pochissimi soldati americani. Osama non è stato catturato, e al Qaida non è stata annientata. Ma è stata fortemente danneggiata dalla campagna afghana.
    Quanto al regime talebano, è stato rovesciato e sostituito da un governo che non avrebbe più dato aiuto e protezione ai terroristi. Per di più, per quanto il nuovo governo afghano possa non essere ancora una perfetta democrazia, è infinitamente meno oppressivo della dittatura che lo ha preceduto. E grazie alla bonifica del terreno politico (che era stato infestato dal radicale estremismo islamico dei talebani), è stato gettato il seme di libere istituzioni è gli è stata data la possibilità concreta di crescere e svilupparsi. La campagna in Afghanistan ha dimostrato nel modo più evidente le conseguenze della nuova concezione del terrorismo che costituisce il secondo pilastro della dottrina Bush: i paesi che davano rifugio ai terroristi e che si rifiutavano di cacciarli dal loro territorio ne affidavano di fatto il compito agli Stati Uniti, e i regimi che erano al potere in questi paesi si esponevano al rischio di essere rovesciati e sostituiti da nuovi leader sostenitori dei principi democratici.
    Naturalmente, a seconda delle circostanze, altri strumenti di potere, economici o diplomatici, potevano essere impiegati. Ma l’Afghanistan aveva dimostrato che l’opzione militare era reale, e fatalmente efficace. Il terzo pilastro della dottrina Bush è l’affermazione del nostro diritto di prevenzione. Bush aveva già espresso con chiarezza il 20 settembre 2001 che non aveva alcuna intenzione di rimanere fermo ad aspettare di essere attaccato un’altra volta (“Daremo la caccia alle nazioni che forniscono aiuto o protezione al terrorismo”). Ma nel discorso sullo stato dell’Unione, pronunciato nel gennaio 2002, è stato ancora più esplicito: “Saremo determinati, ma il tempo non gioca a nostro favore. Non starò ad aspettare il corso degli eventi, rimanendo a guardare i pericoli che si accumulano. Non resterò con le mani in mano, mentre la minaccia si avvicina sempre di più. Gli StatiUniti d’America non permetteranno ai più pericolosi regimi del mondo di minacciarci con le armi più terribili e spaventose”. Per quelli che hanno orecchie per ascoltare, il discorso di gennaio dovrebbe avere reso perfettamente chiaro che Bush proponeva di andare oltre la ritorsione sferrata contro l’Afghanistan e di intraprendere azioni preventive.
    Tuttavia, all’inizio, quasi nessuno sembrò accorgersi che questo diritto di colpire, non per ritorsione, ma per prevenzione contro un possibile attacco, era una logica estensione del quadro generale che Bush aveva presentato il 20 settembre. Né questa nuova posizione di principio sembrò suscitare particolare attenzione quando fu ribadita in termini chiarissimi il 29 gennaio. Fu soltanto in occasione del discorso pronunciato il primo giugno 2002 all’accademia di West Point che il messaggio fu finalmente recepito.
    Forse la ragione per cui il terzo pilastro della dottrina Bush è diventato chiaro soltanto allora è che, per la prima volta, Bush ha collocato le sue idee in un contesto storico: “Per buona parte del secolo scorso, la difesa dell’America si è basata sulle dottrine della deterrenza e del contenimento, caratteristiche della guerra fredda. In alcuni casi, queste strategie sono ancora valide. Ma le nuove minacce richiedono anche nuove risposte. La deterrenza (ossia la promessa di una massiccia ritorsione contro le nazioni) non serve a nulla contro reti terroristiche clandestine che non devono proteggere nessuna nazione e nessun cittadino”. Questa considerazione valeva per al Qaida e organizzazioni analoghe. Ma Bush ha anche spiegato, in aggiunta, il motivo per cui le vecchie dottrine non potevano funzionare con un regime come quello di Saddam Hussein in Iraq: “Il contenimento non è possibile se un dittatore squilibrato in possesso di armi di distruzione di massa può impiegare queste armi o offrirle segretamente ai suoi alleati terroristi”.
    I sacri dogmi del controllo degli armamenti Rifiutandosi di sottrarsi alle implicazioni di questa analisi, Bush ha ripudiato i sacri dogmi del controllo degli armamenti e dei trattati contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa come mezzo adeguato per affrontare i pericoli costituiti dall’Iraq e da altri membri dell’asse del male: “Non possiamo difendere l’America e in nostri amici soltanto con ottimistiche speranze. Non possiamo dare fiducia alla parola dei tiranni, che sottoscrivono solennemente i trattati di non proliferazione e poi li violano sistematicamente”. E poi, con assoluta determinazione, Bush ha proseguito così: “Se aspettiamo che le minacce si materializzino interamente, avremo aspettato troppo a lungo. La guerra contro il terrorismo non sarà vinta rimanendo sulla difensiva. Dobbiamo portare la battaglia nel campo nemico, distruggere i suoi piani e affrontare le minacce più gravi prima che si concretizzino. Nel mondo in cui viviamo, la sola strada per la sicurezza è la strada dell’azione. E questa nazione agirà”.
    In questa fase iniziale, l’Amministrazione Bush negava ancora di avere già raggiunto una decisione definitiva su Saddam Hussein; ma tutti sapevano che, promettendo un nuovo intervento, Bush si riferiva a lui. Lo scopo immediato era quello di rovesciare il dittatore iracheno prima che avesse la possibilità di fornire ai terroristi armi di distruzione di massa. Ma questo non era affatto la sola né (…) la considerazione più importante per Bush e i suoi sostenitori (e anche per i suoi avversari). E in ogni caso, la logica strategica di lungo termine andava ben al di là della causa immediata per l’invasione.
    L’idea di Bush era quella di proseguire l’opera di “bonifica delle paludi” iniziata in Afghanistan e, successivamente, di mettere l’intera regione sulla strada della democratizzazione. Perché, se l’Aghanistan dei talebani rappresentava il volto religioso del terrorismo mediorientale, l’Iraq di Saddam costituiva il suo più potente alleato laico. E’ appunto per affrontare questo mostro a due teste che era stata elaborata una duplice strategia. A differenza del piano per l’Afghanistan, tuttavia, l’idea di invadere l’Iraq e di rovesciare Saddam Hussein ha suscitato una tempesta altrettanto forte di quella scatenata dall’uso delle parole “bene “male”. Ancora prima che si aprisse il dibattito sull’Iraq, c’erano già state decise obiezioni contro tutta la tesi delle azioni preventive.
    Alcuni sostenevano che simili azioni sarebbero state una violazione del diritto internazionale, mentre altri ritenevano che avrebbero stabilito un pericoloso precedente in virtù del quale, per esempio, il Pakistan avrebbe potuto attaccare l’India, o viceversa l’India attaccare il Pakistan. Ma non appena la discussione è passata dalla dottrina Bush alla questione irachena, le proteste si sono fatte più circostanziate. La maggior parte di queste critiche sono state riunite all’inizio di agosto del 2002 (…) in un pezzo intitolato “Non attaccate l’Iraq”. L’autore era Brent Scowcroft, già consigliere per la sicurezza nazionale durante la presidenza di Bush padre. Scowcroft ha dichiarato, innanzitutto, che c’erano “pochi indizi per collegare Saddam alle organizzazioni terroristiche, e ancor meno per attribuirgli la responsabilità degli attentati dell’11 settembre. I realtà, gli obiettivi di Saddam non hanno quasi nulla in comune con quelli dei terroristi che ci minacciano, e Saddam non ha alcun interesse a fare causa comune con loro”. Stando così le cose, continua Scowcroft, “in questo momento un attacco contro l’Iraq metterebbe seriamente a rischio, o addirittura annienterebbe, la campagna globale contro il terrorismo che abbiamo cominciato”: campagna che deve restare “il nostro obiettivo prioritario di sicurezza”. Ma questo non era il solo obiettivo prioritario per Scowcroft: “Probabilmente le conseguenze peggiori di un attacco contro Saddam sarebbero le ripercussioni che avrebbe sulla regione mediorientale. In questa regione, l’opinione diffusa è che l’Iraq sia innanzitutto un chiodo fisso degli Stati Uniti. Il chiodo fisso della regione, invece, è il conflitto israelo-palestinese”.
    Mostrando scarso interesse per il “chiodo fisso” degli americani, Scowcroft appariva invece molto attento a quello della regione: “Se si affermasse l’impressione che voltiamo le spalle al terribile conflitto israelo-palestinese, per essere liberi di occuparci dell’Iraq, ci sarebbe un’esplosione di rabbia contro di noi. Si concluderebbe che ce ne infischiamo di un fondamentale interesse del mondo musulmano al fine di soddisfare un ristretto interesse americano”. Questo, aggiunge Scowcroft, “potrebbe davvero destabilizzare i regimi arabi della regione”, cosa che per un realista assoluto come lui è la peggiore di tutte. Schierandosi apertamente (…) contro la politica del secondo presidente Bush, Scowcroft ha sottovalutato la portata del mutamento di prospettiva di questa politica rispetto a quella del primo presidente Bush. Inoltre, assegnando maggiore credibilità alla già verosimile voce che Bush padre si sia opposto all’invasione dell’Iraq, l’articolo di Scowcroft smentiva quella che sarebbe presto diventata una delle teorie preferite della sinistra estrema, ossia che Bush figlio era entrato in guerra per vendicare il tentato assassinio di suo padre. Dall’altro lato, accettando implicitamente l’idea che il rovesciamento di Saddam rispondeva unicamente “a un ristretto interesse americano”, Scowcroft ha fornito un certo aiuto e vantaggio alla sinistra estrema e ai suoi compagni di viaggio all’interno della comunità liberal. Infatti, proprio da questi ambienti è uscita l’accusa che fossero state le corporation, in particolare la Halliburton (di cui il vicepresidente Dick Cheney era stato direttore) e le compagnie petrolifere, a trascinarci in una guerra niente affatto necessaria. Lo stesso vale anche per il rilievo dato da Scowcroft alla necessità di risolvere il “conflitto israelo-palestinese”, formula ormai standard per esercitare pressione su Israele, la cui “intransigenza” viene considerata il principale ostacolo per la pace. Insistendo sul fatto che il primo ministro israeliano Ariel Sharon era per noi una minaccia ben maggiore di Saddam Hussein, Scowcroft ha fornito una rispettabile giustificazione logica a quell’ostilità nei confronti d’Israele che si è manifestata senza ritegno poche ore dopo gli attentati dell’11 settembre e che ha continuato a crescere in modo sempre più violento e diffuso.
    Per la destra “paleoconservatrice”, all’interno della quale quest’accusa si è inizialmente coagulata, non erano le compagnie petrolifere ma Israele ad averci trascinato nell’invasione dell’Iraq. Poco dopo, questa accusa sarebbe stata fatta propria dalla sinistra, poi diffondendosi ampiamente nell’opinione pubblica. A questa accusa se ne collegava un’altra, secondo la quale l’invasione dell’Iraq era stata segretamente architettata da una cricca di ufficiali ebrei che agivano non nell’interesse del proprio paese ma al servizio d’Israele e più particolarmente di Ariel Sharon. All’inizio gli autori di questa accusa diffamante ritennero più prudente identificare i cospiratori non come ebrei ma come “neoconservatori”.
    Era una tattica intelligente, in quanto gli ebrei rappresentavano in effetti una fetta importante di quei liberal e sinistroidi pentiti che, dopo avere rotto due o tre decenni fa con la sinistra ed essersi spostati verso destra, vennero classificati come neoconservatori. Tutti gli esperti lo sapevano già; ma per quelli che ancora non lo sapevano, era piuttosto facile sostenere quest’accusa puntando il dito su quei neoconservatori che avevano nomi ebrei e trascurando tutti gli altri numerosi esponenti del gruppo il cui nome chiaramente non ebreo avrebbe potuto confondere il quadro.
    Questa tattica era stata sfruttata per la prima volta da Patrick J. Buchanan per opporsi alla prima guerra del Golfo nel 1991. Buchanan aveva già denunciato i neoconservatori per avere dirottato e corrotto il movimento conservatore, ma ora rincarò ulteriormente la dose proclamando che c’erano “soltanto due gruppi che battevano il tamburo della guerra in medio oriente: il ministero della Difesa israeliano e le sue ramificazioni negli Stati Uniti”. (…) Buchanan ha successivamente individuato quattro autorevoli falchi con nomi ebrei, contrapponendoli a “ragazzi con nomi come McAllister, Murphy, Gonzales e Leroy Brown”, i quali, se gli ebrei l’avessero avuta vinta, sarebbero stati costretti a scendere sul campo di battaglia.

    La nuova combriccola delle alte sfere
    Dieci anni dopo, nel 2001, negli scritti di Buchanan e di altri paleoconservatori all’interno della comunità giornalistica (in particolare Robert Novak, Arnaud de Borchgrave e Paul Craig Roberts) è riapparso il nome di uno dei quattro falchi del 1991, Richard Perle. Ma Perle era ora affiancato da Paul Wolfowitz e Douglas Feith (entrambi con importanti incarichi al Pentagono) e da un folto numero di intellettuali e commentatori ebrei al di fuori del governo (tra i quali Charles Krauthammer, William Kristol e Robert Kagan).
    Come i loro predecessori del 1991, i membri della nuova combriccola erano ritratti come agenti dei loro bellicosi colleghi del governo israeliano. Ma c’era anche una differenza: il nuovo gruppo era riuscito a infiltrarsi nelle alte sfere del governo americano. In questo modo, era riuscito a manipolare i propri capi non ebrei (il vicepresidente Dick Cheney, il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, il consigliere per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice e lo stesso presidente George W. Bush) convincendoli a invadere l’Iraq. Non passò molto tempo prima che questa tesi fosse raccolta e diffusa da tutti coloro che volevano mettere in discredito la dottrina Bush. Ed è una cosa del tutto comprensibile: infatti, che cosa potrebbe essere meglio (…) di “smascherare” l’invasione dell’Iraq (…) come una guerra scatenata dagli ebrei e combattuta solo nell’interesse di Israele?
    Per proteggersi dall’accusa di antisemitismo, i sostenitori di questa tesi talvolta ribadiscono falsamente che quando parlano di “neoconservatori” non intendono gli “ebrei”. Ciononostante, la tesi si fonda inequivocabilmente su fin troppo familiari fandonie antisemite, in particolare quella secondo la quale gli ebrei non sono mai realmente leali verso il paese in cui vivono e che sono sempre pronti a cospirare nell’ombra (…). A parte le sue deleterie implicazioni morali e politiche, questa tesi appare del tutto ridicola. (…)
    Bisognerebbe credere all’incredibile, vale a dire che persone risolute come Bush, Rumsfeld, Cheney e Rice possano essere raggirate da un sparuto gruppo di astuti subordinati (ebrei o meno), in grado di convincerli a fare qualsiasi cosa rinunciando alla propria capacità di giudizio, come persino una guerra che non sembra avere alcun rapporto con gli interessi americani.
    In secondo luogo, ci sarebbero delle prove scoperte dagli stessi sostenitori della tesi del complotto ebraico. Queste prove, trionfalmente proclamate, sono rappresentate da alcuni articoli e dichiarazioni pubbliche in cui i presunti cospiratori invocavano apertamente e senza alcuna ambiguità proprio quelle politiche che ora sono accusati di avere imposto a una debole Amministrazione Bush. Non soltanto questi presunti cospiratori segreti non avevano mai nascosto la loro convinzione che il rovesciamento di Saddam Hussein e l’adozione di una politica per la democratizzazione di tutto il medio oriente sarebbe stata vantaggiosa per gli Stati Uniti e per i popoli della regione, ma avevano persino dichiarato che sarebbe stata utile anche per Israele (“E allora?”, domandò un Richard Perle stranamente perplesso a un ostile intervistatore, “cosa c’è che non va in questo?”).
    Il che ci porta al quarto pilastro della dottrina Bush. Ascoltando le proteste di Scowcroft e di molti altri, si potrebbe pensare che George W. Bush abbia completamente ignorato il “conflitto israelo-palestinese, assorbito dalla sua “ossessione” per l’Iraq. Tuttavia, già prima dell’11 settembre, si riportava diffusamente e sulla base di fonti autorevoli che Bush avesse intenzione di schierarsi apertamente in favore della creazione di uno Stato palestinese come sola strada possibile per una soluzione pacifica del conflitto. E a ottobre, con un leggero ritardo causato dagli attentati dell’11 settembre, è diventato il primo presidente americano a farlo concretamente.
    Eppure, (…) nel corso dei mesi successivi, sembra che Bush si sia reso conto che ci fosse qualcosa di balzano nell’idea di appoggiare la creazione di uno Stato palestinese che sarebbe stato governato da un terrorista come Yasser Arafat e dai suoi scagnozzi. Per quale motivo gli Stati Uniti avrebbero dovuto concedere, o addirittura aiutare, la creazione di un ulteriore Stato sponsor del terrorismo proprio nello stesso momento in cui erano entrati in guerra per liberare il mondo da regimi di questo genere?
    E’ stato presumibilmente sotto la spinta di questa domanda che Bush ha formulato un’idea ancora più innovatrice della già nuova concezione del terrorismo che aveva elaborato dopo l’11 settembre. Quest’idea è stata proposta il 24 giugno 2002 (…) in una dichiarazione sulle condizioni da lui ritenute necessarie per l’approvazione di uno Stato palestinese: “Oggi, le autorità palestinesi stanno incoraggiando, e non combattendo, il terrorismo. E’ una cosa inaccettabile. Gli Stati Uniti non appoggeranno la creazione di uno Stato palestinese fino a quando i suoi leader non si impegneranno in un’autentica lotta contro i terroristi (…)”.

    Alla ricerca di nuovi leader
    Ma per impegnarsi in una simile lotta, ha aggiunto Bush, è necessaria l’elezione di “nuovi leader, leader non compromessi con il terrorismo”, che si dedichino alla costruzione di “istituzioni politiche ed economiche completamente nuove, fondate sui principi della democrazia, dell’economia di mercato e della lotta contro il terrorismo”. E’ con queste parole che Bush ha accostato la sua “visione” (come lui stesso la definisce) di uno Stato palestinese in pace con Israele alla sua prospettiva complessiva sulla piaga del terrorismo. Ed essendosi spinto fino a questo punto, ha fatto ancora e ha ricollocato la questione palestinese nel più ampio contesto dal quale la propaganda araba l’aveva tolta a forza.
    Poiché quest’iniziativa è passata praticamente inosservata, è opportuno ribadirne l’importanza. Ancora prima della nascita di Israele nel 1948, i paesi musulmani del medio oriente si erano opposti alla creazione di uno Stato ebraico sovrano (o di qualsiasi altro tipo di Stato ebraico) sulla terra che credevano Allah avesse riservato ai seguaci del profeta Maometto.
    Di conseguenza il conflitto arabo- israeliano aveva riunito centinaia di milioni di arabi e altri musulmani, che occupavano e controllavano più di due dozzine di paesi e vasti territori, contro un pugno di ebrei che, in quel momento, non superavano i tre quarti di milione e che vivevano su una minuscola striscia di terra non più grande del New Jersey. Poi, nel 1967, ci fu la guerra dei Sei giorni. Scatenata con la speranza di cancellare Israele dalle carte geografiche, terminò con il controllo israeliano della Cisgiordania (prima occupata dalla Giordania) e della Striscia di Gaza (che prima era sotto il controllo dell’Egitto). Questa umiliante sconfitta, tuttavia, fu successivamente trasformata in una vittoria retorica e politica da parte della propaganda araba, la quale ridefinì la guerra in atto tra tutto il mondo musulmano e lo Stato ebraico come un semplice conflitto tra israeliani e palestinesi. Così, l’immagine d’Israele fu trasformata da quella di un Davide in quella di un Golia: una mossa che è riuscita ad alienare buona parte dell’antica simpatia precedentemente goduta dall’assediato piccolo Stato ebraico.
    Ora Bush ha rigirato nuovamente la carta. Non soltanto ha ricreato un quadro veritiero affermando che il popolo palestinese che per decenni era stato trattato come “una pedina nel conflitto mediorientale”. Ha anche detto chiaramente quali sono le nazioni che ne sono protagoniste e ha spiegato senza mezzi termini quali sono i loro autentici scopi: “Ho detto in passato che, nella guerra contro il terrorismo, le nazioni del mondo o sono con noi o sono contro di noi. Per entrare nello schieramento della pace, le nazioni devono agire. Ogni capo di Stato sinceramente impegnato per la pace deve fare cessare l’incitamento alla violenza sui media ufficiali e denunciare gli attentati.
    Ogni nazione sinceramente impegnata per la pace deve interrompere il flusso di denaro, equipaggiamento e reclute a gruppi terroristici che vogliono la distruzione d’Israele, come Hamas, il Jihad Islamico e Hezbollah. Ogni nazione che desidera la pace deve impedire l’invio di rifornimenti iraniani a questi gruppi e opporsi ai regimi che sostengono il terrorismo, come l’Iraq. E la Siria deve dimostrare di avere scelto lo schieramento giusto in questa guerra chiudendo i campi d’addestramento dei terroristi e cacciando dal proprio territorio le organizzazioni terroristiche”.
    In questo modo, dunque, Bush ha ricostruito il contesto adeguato per comprendere il conflitto mediorientale. Nei mesi successivi, messo sotto pressione dal suo principale alleato europeo, il primo ministro inglese Tony Blair, e dal suo stesso segretario di Stato, Colin Powell, Bush ha in qualche caso dovuto dare l’impressione di ritornare ai vecchi schemi di pensiero. Ma ogni volta è poi ritornato sui suoi passi. Né ha mai perso di vista la sua “visione” iniziale, grazie alla quale era riuscito a coinvolgere non soltanto l’Autorità Palestinese ma tutto il mondo musulmano (gli “amici” come i nemici) nella sua concezione della guerra contro il terrorismo. Rimossa così ogni incongruenza e debolezza strutturale con l’aggiunta del quarto pilastro, la dottrina Bush era ormai stabile, armonica e completa.
    La nuova dottrina Bush, sia come costruzione teorica che come pratico orientamento politico, non potrebbe essere più distante dalla cosiddetta “sindrome del Vietnam”, ossia quella perdita di fiducia, accompagnata dalla diffusione delle tendenze neoisolazioniste e pacifiste in tutto il corpo politico americano (e soprattutto nelle istituzioni d’élite della cultura americana), che cominciò negli ultimi anni della guerra in Vietnam. Ho già fatto accenno alla somiglianza tra la dichiarazione della dottrina Truman sul fatto che era cominciata la terza guerra mondiale e la altrettanto importante dichiarazione della dottrina Bush sul fatto che l’11 settembre ha scatenato la quarta guerra mondiale. Ma per misurare fino in fondo la portata della dottrina Bush, intendo ora analizzare ancora un’altra dottrina presidenziale, quella elaborata da Richard Nixon alla fine degli anni sessanta con lo scopo specifico di affrontare la sindrome del Vietnam.
    A differenza di quanto si crede comunemente, il nostro intervento militare in Vietnam durante la presidenza Kennedy all’inizio degli anni Sessanta era stato sostenuto da ogni settore dell’opinione pubblica americana, con il coro guidato dai media d’élite e dal mondo accademico. All’inizio, in effetti, le sole critiche da parte dell’opinione pubblica riguardavano questioni tattiche. Dopo qualche tempo, però, quando alla Casa Bianca Lyndon B. Johnson aveva già sostituito Kennedy, cominciarono a essere sollevati dubbi sull’opportunità politica dell’intervento; e quando alla Casa Bianca era ormai salito Richard Nixon, veniva già accusato e diffamato il carattere morale degli Stati Uniti.
    Un grande numero di americani, che includeva anche molti di quelli che avevano sostenuto l’intervento durante gli anni di Kennedy, si aggiungeva ora alla piccola minoranza della sinistra che, a quel tempo, l’aveva denunciato di stupidità e immoralità, e sosteneva che la guerra in Vietnam si era trasformata da una follia in un crimine. Per questa nuova realtà politica la dottrina Nixon era un riluttante accomodamento. Poiché l’intervento in Vietnam durante le presidenze di Kennedy e Johnson aveva contribuito a minare il sostegno per la vecchia strategia di contenimento, Nixon (con il suo principale consigliere di politica estera, Henry Kissinger) pensò che andarcene dal Vietnam avrebbe viceversa potuto contribuire a creare la nuova strategia che era diventata necessaria.
    Per prima cosa, le forze americane sarebbero state ritirate dal Vietnam solo gradualmente, in modo da permettere ai sudvietnamiti di costruire un potere sufficiente per assumere la responsabilità della difesa del proprio paese. Il ruolo degli americani si sarebbe limitato al rifornimento di armi ed equipaggiamento.
    La stessa politica, opportunamente modificata a secondo delle circostanze locali, sarebbe stata applicata anche in tutte le altre regioni del mondo. In ogni principale regione, gli Stati Uniti si sarebbero d’ora in poi affidati a forze locali, anziché al proprio esercito, per contenere ogni aggressione di marca sovietica, o qualsiasi altro evento potenzialmente destabilizzante. Gli Stati Uniti avrebbero fornito le armi e altre forme di assistenza, ma la responsabilità della deterrenza e dei combattimenti sarebbe stata di altri. Su tutti questi punti, la nuova dottrina Bush contrasta nettamente con la vecchia dottrina Nixon. Invece di una ritirata, Bush ha proposto una ambiziosa strategia di intervento.
    Invece di contare su forze locali, Bush ha proposto un concreto impiego della nostra potenza militare. Invece di deterrenza e contenimento, Bush ha proposto la prevenzione e la necessità “di portare la lotta sul territorio nemico”. E invece di preoccuparsi per la stabilità regionale, Bush ha proposto di destabilizzarla con un “cambio di regime”. La dottrina Nixon doveva ovviamente accordarsi con la sindrome del Vietnam.
    Che dire invece della dottrina Bush? La nuova strategia politica e militare si accorda con l’atmosfera post 11 settembre? Senza dubbio, era questa l’impressione subito dopo gli attentati: anzi, l’impressione era così forte che un gruppo di giovani osservatori annunciarono quasi immediatamente la nascita di una nuova era nella storia americana. Ciò che il 7 dicembre 1941 aveva significato per il vecchio isolazionismo, proclamarono, l’11 settembre lo ha significato per la sindrome del Vietnam. Politicamente, la sindrome era finita e le ricadute culturali di quella guerra (tutti i danni causati dagli anni Sessanta e Settanta) sarebbero presto finite nella tomba.
    Il segno più evidente della nuova era lo si poteva vedere nel fatto che, ancora una volta, aveva ripreso ad onorare la nostra bandiera, ora sventolata da tutte le parti. Questa era la bandiera che, non molto tempo prima, i radicali della sinistra avevano tirato fuori soltanto per bruciarla. Ma, persino all’interno della sinistra più ostinata, alcune autorevoli personalità cominciarono a sforzarsi di fare qualcosa di simile a un saluto d’onore davanti alla bandiera americana.
    Era una scena che ricordava la risposta di alcuni comunisti alla soppressione da parte del nuovo regime sovietico della rivolta dei marinai, scoppiata a Kronstadt all’inizio degli anni Venti. Orrori molto più spaventosi sarebbero stati causati dai perversi recessi del regime stalinista; ma, essendo la prima di una lunga serie di atrocità che hanno frantumato l’illusione dell’Unione Sovietica, l’episodio di Kronstadt ne è diventato il simbolo per eccellenza.
    A suo modo, l’11 settembre ha avuto l’effetto di una Kronstadt all’incontrario per un certo numero di odierni radicali sollevare domande e dubbi su quella che uno di loro ha avuto l’onestà di definire la loro “inveterata sfiducia nella malvagia America”. L’11 settembre ha riportato alla mente una poesia di W. H. Auden, scritta subito dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale e intitolata “1 settembre 1939”.
    Per quanto esprimesse alcuni sentimenti ostili contro l’America (resti della fase comunista di Auden), i versi iniziali sono sembrati così evocativi dell’11 settembre che sono stati citati spesso nei primi giorni di questa nuova guerra: “Sono seduto in una bettola della cinquantaduesima strada, incerto e impaurito, mentre spirano le luminose speranze di un infimo e disonesto decennio” Il decennio al quale Auden si riferiva erano gli anni Trenta, e le luminose speranze riguardavano l’edificazione di un paradiso degli operai in Unione Sovietica. Il nostro “infimo decennio” sono stati gli anni Sessanta, e le sue ben meno luminose speranze riguardavano non un’edificazione (per quanto illusoria) ma una distruzione: la distruzione delle istituzioni che costituivano l’essenza dell’“American Way of Life”.
    Infatti, in quegli anni, l’America era considerata il grande ostacolo che si frapponeva al progresso di tutti poveri della terra, compresi quelli che vivevano dentro i suoi confini.

    Una nuova ondata di patriottismo
    Quale “padre fondatore” del neoconservatorismo, che aveva rotto con la sinistra proprio perché indignato dalla sua “sfiducia nella malvagia America”, ho naturalmente accolto a braccia aperte questa nuova ondata di patriottismo. Negli anni intercorsi dal giorno di quella rottura, sono rimasto sempre più colpito dalle virtù della società americana.
    Ora cominciavo a rendermi conto che l’America era un paese nel quale esistevano una libertà e una prosperità ben maggiori di quelle esistite in qualsiasi altro paese e in qualsiasi momento della storia. Mi accorsi che queste benedizioni avevano una diffusione ben maggiore di quanto persino gli utopisti più sognatori avevano mai osato immaginare. Capii che questo era un risultato straordinario, che dava agli Stati Uniti d’America un posto d’onore nell’albo delle grandi civiltà della storia mondiale.
    La nuova atmosfera di patriottismo mi sembrava quindi un segno di grande sanità intellettuale e di salute morale, e ho ardentemente sperato che durasse a lungo. Ma non riuscivo a condividere pienamente l’ottimismo di alcuni miei più giovani colleghi i quali pensavano che il mutamento avesse carattere permanente: che, come loro proclamavano esultando, nella politica e nella cultura americane nulla sarebbe più stato come prima.
    Come veterano delle battaglie politiche e culturali degli anni Sessanta, sapevo dalle mie stesse cicatrici quanto effimera poteva rivelarsi questa svolta, e quanto fosse vulnerabile alla minaccia di forze apparentemente insignificanti. A questo proposito, ero perseguitato in particolare da un ricordo. Quello di una sera del 1960, quando partecipai ad un incontro di radicali della sinistra su un tema che proprio allora stava cominciando ad emergere in superficie: la possibilità di un intervento militare americano in un lontanissimo posto chiamato Vietnam.
    Quella sera insieme a me c’era Marion Magid, un membro del mio staff di Commentary, di cui ero recentemente diventato direttore. Entrando nella vecchia sala conferenze di Union Square a Manhattan, Marion osservò le circa cinquanta persone che formavano il pubblico e mi sussurrò all’orecchio: “Ti rendi conto che ogni giovane in questa sala è una tragedia per la sua famiglia o per qualcun altro?” Il ricordo di questa battuta ha riportato in vita la sensazione di quanto poco promettente apparisse allora il futuro per quel trasandato pubblico.
    Nessuno si sarebbe mai immaginato che questi giovani ragazzi (e la generazione che da essi discende politicamente e culturalmente) sarebbero stati poi salutati come “i più informati, i più intelligenti e i più idealisti che questo paese abbia mai avuto”. Queste parole, cosa ancora più incredibile, sarebbero state pronunciate da colui che il nuovo movimento considerava il vero e proprio cuore del mostro: vale a dire Archibald Cox, un professore della Harvard Law School e successivamente vice procuratore generale degli Stati Uniti. Analoghi elogi uscivano dalla bocca di genitori, insegnanti, uomini del clero, artisti e giornalisti.
    Ma ancora più incredibile è che le idee e gli atteggiamenti del nuovo movimento, ripuliti ma sostanzialmente immutati, nel giro di soli dieci anni sarebbero riusciti a sconvolgere completamente uno dei due maggiori partiti americani. Nel 1961, il presidente John F. Kennedy aveva enfaticamente proclamato che gli americani “erano pronti a pagare qualsiasi prezzo e a sopportare qualsiasi peso (…) per garantire la sopravvivenza e la vittoria della libertà”. Nel 1972, George McGovern, candidato alla presidenza dal partito di Kennedy, ha impostato la sua campagna elettorale su questo slogan: “Come Home, America”. Uno slogan che, in modo misterioso e inquietante, rifletteva l’etica di quel movimento ancora in gestazione al quale mi ero rivolto circa una decina d’anni prima.

    I nuovi “Jackal Bins”
    Ho richiamato questi ricordi per sottolineare due punti. Il primo è che il movimento radical degli anni 50 e dei primi 60 combatteva contro un avversario (o più precisamente contro il cosiddetto “establishment”) che sembrava inattaccabile. Ciononostante (e questo è il secondo punto), con enorme stupore di quasi tutti, compresi gli stessi radical, il movimento ha continuato a soffiare fino a quando è riuscito a buttare giù la casa. Ecco un importante sviluppo ignorato praticamente da quasi tutti gli esperti e gli osservatori.
    Come ricorda bene John Roche, un politologo che allora lavorava alla Casa Bianca per l’amministrazione Johnson, citato in un articolo dell’editorialista Jimmy Breslin perché aveva derisivamente definito i radical come i “jackal bins” dell’Upper West Side. Come si è poi venuto a sapere, Roche aveva detto in realtà “jacobins”: una parola talmente sconosciuta al suo intervistatore che non seppe fare di meglio che trascriverla come “jackal bins”.
    E’ stato impiegato moltissimo inchiostro (io stesso ne ho usati litri e litri) nel tentativo di spiegare come e perché un grande “establishment” che godeva di un amplissimo consenso nazionale potesse essere stato rovesciato così facilmente e rapidamente da un gruppo alquanto piccolo e marginale come quello dei “jackal bins”. Nel campo degli affari esteri, ovviamente, la risposta più consueta è il Vietnam. Secondo questo punto di vista, la decisione di combattere una guerra impopolare ha reso vulnerabile l’establishment.
    L’evidente difetto di questa spiegazione, per ribadirlo ancora una volta, è che, almeno fino al 1965, la guerra in Vietnam godeva dell’appoggio popolare. Tutti i più autorevoli media (dal New York Times al Washington Post, da Time e Newsweek, dalla Cbs alla Abc) sostenevano il nostro intervento. Lo stesso vale per il mondo accademico. E anche per l’opinione pubblica. Persino quando quasi tutti coloro che ci avevano spinto nel Vietnam, o che avevano applaudito l’intervento, cominciarono a ricredersi e a passare nello schieramento pacifista, l’opinione pubblica continuò a sostenere la guerra. Ma non importava.
    L’opinione pubblica non contava più nulla. Anzi, come ha dimostrato l’offensiva di Tet nel 1968, la stessa realtà aveva cessato di contare. Come alcuni cercarono già allora, ma invano, di dimostrare (e come tutti avrebbero in seguito ammesso), Tet non fu una schiacciante sconfitta per noi bensì per i nordvietnamiti. Ma bastava che Walter Cronkite la definisse una sconfitta per noi dalle telecamere della Cbs per farla diventare tale. Apparentemente, nella politica elettorale, dove i numeri sono decisivi, l’opinione pubblica continuava ad avere importanza. Di conseguenza, nessuna delle colombe che si candidarono alla presidenza nel 1968 e nel 1972 avrebbe potuto battere Richard Nixon.
    Tuttavia, persino Nixon ritenne necessario impostare la campagna elettorale sulla pretesa di avere un “piano” non per vincere la guerra ma per andarsene dal Vietnam. Tutto questo per dire che, sul Vieta l’opinione dell’élite calpestava quella popolare. E gli effetti non si limitavano alla politica estera, ma si ampliavano nel nuovo atteggiamento ostile verso tutto ciò che l’America era e rappresentava. Non c’è bisogno di sottolineare che questo atteggiamento era di casa nel mondo degli artisti, in quello delle università, nonché in quello dell’informazione e dello spettacolo, dove dominavano gli intellettuali forgiatisi negli anni 60 insieme ai loro accoliti insediati nelle case editrici di New York e negli studios di Hollywood.
    Ma sarebbe un grave errore supporre che l’infiltrazione dell’atteggiamento accademico fosse confinato alla letteratura, al giornalismo e allo show business. John Maynard Keynes disse una volta che “le persone pratiche convinte di non subire influenze intellettuali sono normalmente le schiave di qualche defunto economista”. Keynes si riferiva in particolare agli uomini d’affari. Ma anche burocrati e amministratori sono soggetti alla stessa legge, sebbene tendano ad essere gli schiavi non di economisti ma di storici, sociologi, filosofi e romanzieri ancora vivi e vegeti pur se le loro idee sono già (o dovrebbero essere) morte e sepolte. Non è nemmeno necessario che le “persone pratiche” abbiano studiato le opere dei loro padroni, o addirittura che abbiano sentito parlare di loro. E’ sufficiente che leggano il New York Times, che accendano il loro televisore, che vadano al cinema: a poco a poco, una forma più facilmente assimilabile dell’originale viene assorbita dalla loro testa e dal loro sistema nervoso.
    Questi, nel complesso, erano alcuni degli elementi che mi hanno fatto domandare se gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 sarebbero davvero stati capaci di rappresentare un autentico punto di svolta paragonabile a quello segnato dal bombardamento di Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941. Ero perfettamente consapevole del fatto che, prima di Pearl Harbor, c’erano radicali della destra che consideravano la guerra come una lotta tra due sistemi imperialistici ugualmente malvagi, con cui l’America non aveva nulla a che fare. Sotto l’influenza di questi gruppi, una grande maggioranza di americani si era opposta alla nostra entrata in guerra fino al giorno stesso dell’attacco giapponese su Pearl Harbor. Ma da quel momento in poi, l’opposizione scomparve. I gruppi contrari alla guerra persero quasi tutti i loro seguaci e si rinchiusero in un imbronciato silenzio, e l’opinione pubblica fece una svolta di 180 gradi.

    L’élite intellettuale della sinistra
    All’inizio, l’11 settembre sembrò assomigliare a Pearl Harbor per il suo effetto galvanizzante; la stessa prima battaglia della quarta guerra mondiale (quella contro l’Afghanistan) era, secondo tutte le indicazioni, sostenuta da un numero di americani persino maggiore di quello che aveva appoggiato inizialmente la guerra in Vietnam.
    Cionondimeno, sebbene ancora numericamente insignificante, nel 2001 l’opposizione era comunque molto più forte di quanto lo era stata nei primi tempi della guerra in Vietnam. La ragione stava nel fatto che essa aveva mantenuto uno stretto controllo su quelle istituzioni che, nelle fasi finali del Vietnam, erano state consegnate pezzo per pezzo alla sinistra antiamericana. C’era, innanzitutto, l’élite intellettuale, che poteva essere presa come simbolo del mondo artistico in generale. Le Twin Towers non avevano ancora fatto quasi in tempo a cadere che cominciò un’accesissima gara per la medaglia d’oro delle olimpiadi dell’antiamericanismo. Susan Sontag, una mia vecchia ex amica della sinistra, si piazzò subito in prima posizione con un articolo nel quale asseriva che l’11 settembre era stato un attacco “sferrato come conseguenza di specifiche alleanze e interventi dell’America”.
    Non contenta di avere sostenuto che ci eravamo noi stessi tirati addosso l’aggressione, ha continuato paragonando il sostegno dato dal Congresso al nostro “robotizzato presidente” alle “banalità autocompiacenti e da tutti applaudite di un congresso del partito comunista sovietico”. Un altro mio ex amico, Norman Mailer, stranamente lento all’inizio della gara, si portò presto nel gruppo di testa paragonando le Twin Towers a “due enormi zanne” e considerando le macerie di Ground Zero “ancora più meravigliose dei due grattacieli”.
    Interpretando ancora, ormai ottantenne, la parte dell’enfant terrible, Mailer ci denunciò come “oppressori culturali ed estetici” del Terzo Mondo. In che cosa consisteva quest’oppressione? Consisteva, continuava Mailer, nel fatto che costruivamo “enclave del nostro cibo, come McDonald” e “grattaceli altissimi” attorno agli aeroporti delle “capitali più brutte e sporche del mondo”. Per questi orrendi crimini l’11 settembre ci era stata somministrata una prima (e ancora piccola) dose di quello che ci meritavamo.
    Poi c’erano le università. Un rapporto pubblicato poco dopo l’11 settembre dall’American council of trustees and alumni (Acta) citava circa un centinaio di ignobili dichiarazioni uscite dai campus di tutto il paese, che si univano a quelle di Sontag e Mailer nell’addossare la colpa degli attentati non ai terroristi ma all’America. Ecco i tre esempi più significativi. Un professore dell’University of New Mexico: “Chiunque sia in grado di far saltare in aria il Pentagono si merita il mio voto”. Un professore dell’Università di Rutgers: “Dobbiamo essere consapevoli del fatto che la causa principale dell’11 settembre è il fascismo della politica estera statunitense nel corso di ormai molti decenni”. Infine, un professore della University of Massachusetts: “La bandiera americana è un simbolo di terrorismo, di morte, di paura, di distruzione e di oppressione”.
    Quando fu pubblicato il rapporto dell’Acta, si sentirono canti di protesta contro il “maccartismo”, soprattutto da parte dei già citati professori. Per non essere da meno di loro anche Sontag affermò che sentiva minacciata la sua libertà di stampa. Secondo questa peculiare interpretazione del Primo Emendamento,fortemente appoggiata da tutta la sinistra, loro erano liberi di dire tutto ciò che gli piaceva, ma il diritto della libertà di parola terminava laddove iniziavano le critiche contro le loro affermazioni.
    In realtà, tranne rare eccezioni, i tentativi di soffocare il dissenso nei campus erano diretti contro i molti studenti e i pochi professori che avevano appoggiato la guerra scatenata in risposta agli attentati dell’11 settembre. Questi tentativi possono essere riassunti in un’unica immagine: in un certo numero di campus, gli studenti e i professori che innalzavano la bandiera americana o altri simboli patriottici venivano costretti a toglierli. Quanto alla libertà di stampa che Sontag aveva dichiarato in pericolo, l’inchiostro del suo pezzo non aveva ancora fatto in tempo ad asciugarsi che lei era già diventata il soggetto di innumerevoli articoli, e la protagonista di interviste su periodici e televisioni di tutto il mondo.
    Le Twin Tower non avevano ancora quasi fatto in tempo a cadere che cominciò un’accesissima gara per la medaglia d’oro alle olimpiadi dell’antiamericanismo. La televisione (…) ha subito cominciato a propinarci programmi che presentavano l’islam in termini molto elogiativi. Sostanzialmente, questi programmi s’ispiravano alle parole dello stesso presidente Bush e di altri leader politici.
    Con le migliori intenzioni, e anche per motivi di prudenza, i funzionari del governo si sforzavano di negare il fatto che la guerra contro il terrorismo fosse una guerra contro l’islam. Di conseguenza, non hanno mai smesso di elogiare gli elementi positivi di quella religione, della quale ben pochi di loro in realtà sapevano qualcosa. Comunque, è dalle università, e non dai politici, che il materiale sostanziale di queste trasmissioni è stato tratto, attraverso interviste ai professori – molti dei quali musulmani – che presentavano una versione dell’islam all’acqua di rose.
    Talvolta erano persino completamente insinceri, soprattutto quando presentavano un’immagine ripulita del jihad (o guerra santa) o quando non ammettevano che moltissime personalità religiose in tutto il mondo musulmano continuavano a celebrare gli attentatori suicidi (compresi quelli che avevano compiuto gli attacchi contro le torri gemelle e il Pentagono) come martiri ed eroi. Non è mia intenzione entrare in una disputa teologica. Il mio scopo, al contrario, è quello di offrire un altro esempio di quell’effetto di ricaduta di cui ho già parlato prima.
    Così, immediatamente dopo l’11 settembre, le università hanno cominciato ad aggiungere innumerevoli corsi sull’islam nei loro programmi di studi. Nei campus, il corso intitolato “Comprendere l’islam” ha inevitabilmente cominciato a trasformarsi in una difesa dell’islam, e la maggior parte dei media ha fatto la stessa cosa. Questi ultimi hanno anche adottato la posizione di neutralità tra noi stessi e i terroristi prevalente nel mondo accademico moderato, in particolare quando le principali reti televisive hanno imposto ai loro giornalisti di non mostrare alcuna forma di partigianeria.
    La sola grande eccezione è stata Fox News channel. Il New York Times, in un articolo in cui si deplorava che la Fox parlasse della guerra da un punto di vista apertamente pro-americano, esprimeva il proprio sollievo per il fatto che nessun’altra rete televisiva avesse gettato allegramente al vento le sacre regole che impongono ai giornalisti, per dirlo con le parole del presidente di Abc News, “di mantenere la loro neutralità in tempo di guerra”. Sebbene la vasta maggioranza di coloro che incolpavano l’America per gli attentati che essa stessa aveva subito appartenessero alla sinistra, alcune voci della destra si sono unite a questo coro perverso.
    Ospite della trasmissione di Pat Robertson, il reverendo Jerry Falwell proclamò la tesi che Dio stava punendo gli Stati Uniti per la loro decadenza morale, perfettamente incarnata in un folto numero di gruppi liberal. Sia Robertson sia Falwell si sono poi scusati per avere puntato il dito contro questi gruppi, ma hanno continuato a sostenere che Dio aveva ritratto la sua mano protettiva dall’America perché tutti noi eravamo diventati dei grandi peccatori. Per di più, nel coro di amen che si è formato attorno alla destra laica, commentatori come Robert Novak e Pat Buchanan hanno aggiunto che ci eravamo tirati addosso la punizione non tanto per la nostra consapevole disobbedienza alla legge divina quanto per la nostra manovrata obbedienza a Israele.

    Il grande rifiuto dominante
    Abbastanza stranamente, tuttavia, all’interno dello stesso mondo arabo, si dava molto meno peso a Israele come causa essenziale degli attacchi rispetto a quello che gli davano praticamente tutti i paleoconservatori della destra seguaci di Pat Buchanan. Persino per Osama bin Laden, il sostegno dato a Israele stava soltanto al terzo posto nella sua lista dei nostri “crimini” contro l’islam.
    Non che, naturalmente, tutti gli arabi (insieme con la maggior parte dei musulmani non arabi del medio oriente, come gli iraniani) avessero abbandonato il sogno di cancellare Israele dalla carta geografica. Per chiunque la pensasse altrimenti, ecco che cosa ha detto Fouad Ajami, della John Hopkins University, un americano cresciuto come musulmano in Libano, a proposito del “grande rifiuto” da parte del mondo arabo di accettare la stessa esistenza di Israele: “Il grande rifiuto continua ancora a dominare nelle strade, tra gli intellettuali e gli scrittori, così come nei sindacati.
    La forza di questo rifiuto può essere osservata nella stampa governativa e in quella d’opposizione, tanto tra i laici quanto tra i religiosi, sia nei paesi che hanno concluso accordi diplomatici con Israele sia in quelli che non lo hanno fatto”. Ajami ha sottolineato che il grande rifiuto rimane “fortissimo in Egitto” nonostante il trattato di pace firmato con Israele nel 1978. Ci si sarebbe aspettati, quindi, che gli egiziani avessero immediatamente attribuito il diffuso risentimento contro gli Stati Uniti alla politica americana nei confronti d’Israele, soprattutto perché l’Egitto (secondo soltanto a Israele come destinatario di aiuti americani) aveva un potente stimolo a spiegare in questo modo l’ingrata risposta degli egiziani al nostro generoso trattamento.
    Ma non è stato così. Soltanto due settimane prima dell’11 settembre, Abd al Munim Murad, un editorialista di al Akbar – quotidiano sponsorizzato dal governo egiziano – scrisse: “Il conflitto che definiamo arabo-israeliano è in realtà un conflitto degli arabi contro il colonialismo occidentale e in particolare americano. Gli Stati Uniti trattano gli arabi esattamente come hanno trattato gli schiavi trasportati sul loro continente. A questo fine, gli Stati Uniti sono aiutati da un nemico più piccolo, che è, naturalmente, Israele”.
    In un altro articolo, lo stesso giornalista ha ribadito e ulteriormente ampliato questo suo inconsueto e sincero riconoscimento: “La questione non riguarda più il conflitto arabo-israeliano. La vera questione è il conflitto arabo-americano: gli arabi devono capire che gli Stati Uniti non sono ‘l’amico americano’; il loro obiettivo (passato, presente e futuro) è quello di imporre il proprio dominio sul mondo, e innanzitutto sul medio oriente e il mondo arabo”. Poi, in un terzo articolo, pubblicato alla fine di agosto, Murad ci ha dato qualche indizio per capire quale sia invece il suo obiettivo nei confronti dell’America: “La statua della libertà, nella baia di New York, deve essere distrutta, per colpire la folle politica americana che passa da un disastro all’altro, conficcata nel fango dei pregiudizi e del più cieco fanatismo: l’era del collasso americano è cominciata”.
    Se questo era il genere di giudizio che ricevevamo da un paese arabo da tutti considerato come “moderato”, in Stati radicali come l’Iraq e l’Iran bisognava come minimo identificare l’America come il “Grande Satana”. Quanto ai palestinesi, il loro disprezzo per l’America non era sorpassato nemmeno dal loro odio per Israele. Per esempio, il mufti nominato da Yasser Arafat aveva pregato affinché Dio “distruggesse l’America”, mentre il direttore di un importante giornale palestinese aveva proclamato: “La storia non ricorda gli Stati Uniti, ma ricorda l’Iraq, la culla della civiltà.
    La storia ricorda ogni centimetro della terra araba, perché è la madre della civiltà umana. Invece gli americani, gli assassini dell’umanità, i creatori di una cultura barbarica e i succhiasangue delle nazioni, sono destinati alla morte e a rimpicciolirsi fino a dimensioni microscopiche, come la Micronesia”. Qui, l’assenza persino di un accenno a Israele dimostra che, se anche lo Stato ebraico non fosse mai stato realizzato, gli Stati Uniti sarebbero stati comunque visti come l’incarnazione di tutto ciò che quasi tutti questi arabi considerano l’essenza stessa del male.
    In verità, l’odio per Israele è in buona parte un surrogato dell’antiamericanismo, e non il contrario. Israele è considerato semplicemente l’avanguardia della volontà americana di domino sul medio oriente. Come tale, lo Stato ebraico era soltanto un riflesso dell’America: il “piccolo nemico” o “piccolo Satana”. Cancellare Israele dalla carta geografica significava quindi purificare una regione appartenente all’islam (dar al islam) dalle blasfeme influenze politiche, sociali e culturali che provenivano da una forza barbarica e assassina. Questa forza era l’America, mentre Israele ne era semplicemente lo strumento.

    Le interpretazioni dell’11 settembre
    Sebbene Buchanan e Novak fossero stati i primi e i più schietti nell’attribuire la colpa dell’11 settembre all’amicizia dell’America per Israele, quest’idea non era confinata alla destra o alle zone marginali del paleoconservatorismo. Al contrario: se appariva qua e là nella destra, pervadeva completamente la sinistra radicale e buona parte della sinistra moderata, ed era condivisa persino da un certo numero di liberal di centro come Mickey Kaus.
    Per il momento, anzi, i sostenitori della tesi “incolpare innanzitutto Israele” erano concentrati soprattutto nella sinistra. Ed era sempre a sinistra, in particolare all’interno delle università, che erano collocati i loro fratelli gemelli, ossia i sostenitori della tesi “incolpare innanzitutto l’America”. Tuttavia, Eric Fomer, professore di storia alla Columbia Unversity, dichiarava, in modo davvero ridicolo, che il rapporto dell’Acta era inaccurato perché i sondaggi dimostravano che c’era un “forte sostegno” alla guerra tra gli studenti universitari. “Se il nostro scopo è indottrinare gli studenti con convinzioni non patriottiche”, sottolineò con sarcasmo Foner, “stiamo davvero ottenendo pessimi risultati”.
    Vero. Ma ciò che Foner, come storico, doveva per forza sapere, e che ha invece evitato di menzionare, è che persino nel momento di massima eccitazione radicale dei campus negli anni Sessanta soltanto una minoranza degli studenti si schierò con i radicali pacifisti. Tuttavia, benché rappresentassero la maggioranza, gli studenti nonradicali, non poterono far sentire la propria voce sopra al fracasso pacifista, e tutte le volte che ci provarono vennero zittiti. La situazione è stata grosso modo la stessa subito dopo l’11 settembre. All’interno dei campus c’erano alcuni coraggiosi ribelli contro l’ortodossia accademica.
    Per lo più, tuttavia, la maggioranza silenziosa è rimasta silenziosa, per timore di incorrere nella disapprovazione dei suoi professori, o addirittura di essere puniti per il crimine di “insensibilità”. E’ stato dunque di tal fatta l’attacco sferrato, immediatamente dopo l’11 settembre, dai guerriglieri con cattedra delle università, insieme ai loro discepoli spirituali e politici disseminati in altri angoli della nostra cultura. Questo “sparuto gruppo di anziani Rip van Winkles”, come furono allegramente bollati e scaricati da un commentatore, sarebbe riuscito a diventare un forza altrettanto potente di quella rappresentata dai “Jackal bins” di un tempo? L’ondata di fiducia nell’America e nelle virtù americane che si era spontaneamente creata all’indomani dell’11 settembre era abbastanza potente da riuscire a resistergli? Alcuni di quelli che condividevano le mie preoccupazioni ritenevano che, se la situazione al fronte fosse stata positiva, sarebbe andato tutto bene anche in patria.
    Ed è esattamente questo che sembrava dimostrare l’effetto provocato dallo spettacolare successo della campagna afghana, che fece e interrompere la propaganda pacifista in un certo numero di campus. Ciononostante, le operazioni di rastrellamento condotte in Afghanistan crearono un’opportunità per più sofisticate forme di opposizione. Furono sollevate proteste sul fatto che i terroristi catturati in Afghanistan e trasferiti nella prigione di Guantanamo non fossero trattati come regolari prigionieri di guerra. Furono anche espresse accuse sulla minaccia che rappresentavano per le libertà civili in America provvedimenti come il Patriot Act, emanato per impedire ulteriori attacchi terroristici in patria.
    Sebbene questi timori nascessero in gran parte da un fraintendimento della Convenzione di Ginevra e dello stesso Patriot Act, molte persone erano senza dubbio sinceramente preoccupate. Ma non c’è nemmeno nessun dubbio sul fatto che tali questioni potevano essere usate (e lo sono state) come una rispettabile copertura per un assoluto rifiuto della guerra. Un’altra rispettabile copertura era l’accusa secondo cui Bush stava seguendo una politica di “unilateralismo”. L’allarme per questo affronto a quanto pare senza precedenti fu suonato innanzitutto dalle cancellerie e dai logorroici intellettuali dell’Europa occidentale dopo che Bush aveva dichiarato che, nella lotta contro il terrorismo e i paesi che lo appoggiavano, gli Stati Uniti avrebbero preferito combattere insieme ai loro alleati e con l’avallo delle Nazioni Unite, ma che, se necessario, lo avrebbero fatto anche da soli e senza avere l’imprimatur dell’Onu.

    L’ostentata superiorità dell’Europa
    Questo era davvero troppo per gli europei. Dopo averci fatto le loro condoglianze per l’11 settembre, non sono riusciti a resistere nemmeno per un minimo periodo prima di ricadere nella loro antica abitudine di dimostrare quanto sono superiori per raffinatezza e saggezza agli americani, il cui carattere primitivo si rivelava ancora una volta nelle “semplicistiche” idee e nel rozzo moralismo del presidente Bush.
    Così, cominciarono a sostenere che dovevamo porre fine alle operazioni in Afghanistan e lasciare il resto in mano alla diplomazia, con deferente obbedienza ai grandi maestri di questa misteriosa arte che vivono a Parigi e Bruxelles. Prendendo ispirazione da questi maestri, il New York Times, insieme a molti altri giornali appartenenti a un arco che andava dal centro fino all’estrema sinistra (e presto seguito da tutti i candidati democratici nelle primarie presidenziali, fatta eccezione per il senatore Joseph Lieberman), cominciò ad accusare Bush di sconsideratezza e arroganza. Insomma, si è assistito al formarsi di una coalizione molto più ampia di quella riunita dal movimento pacifista in occasione della guerra in Vietnam, specialmente nei primi anni.
    Allora, il movimento pacifista era stato composto quasi interamente da liberal ed esponenti della sinistra, mentre questo nuovo movimento stava raggruppando insieme tutta l’estrema sinistra, alcuni elementi della sinistra moderata e vari settori della destra americana. Seguendo il percorso già tracciato dal suo collega Mickey Kaus sulla questione di Israele, Michael Kinsley, esponente della sinistra moderata, si mise al fianco di Pat Buchanan come smascheratore di un’altra rispettabile copertura. L’idea fu quella di imputare il presidente Bush di avere violato la Costituzione proponendo di combattere guerre non dichiarate.
    Nel frattempo, questa stessa accusa si diffondeva nelle cerchie politiche per mezzo di senatori come Robert Byrd, Edward M. Kennedy e Tom Daschle, i quali continuavano anche a parlare di pantani, di strade pericolose e di “unilateralismo”. Quanto a me, ero certo che, con l’ampliarsi del teatro militare della quarta guerra mondiale (e con l’Iraq come ovvio prossimo fronte di battaglia), l’opposizione sarebbe non soltanto accresciuta ma avrebbe anche acquistato sufficiente sicurezza e fiducia in se stessa per fare a meno di ogni rispettabile copertura. Ciò significava che sarebbe stata sostenuta soltanto dagli estremisti e dai radicali.
    Su questo ho avuto ragione, mentre chi aveva deriso i “Jackal bins” e i “Rip van Winkles”, considerandoli politicamente insignificanti, ha avuto torto. Ma non mi sarei mai immaginato che il nuovo movimento pacifista avrebbe raggiunto così rapidamente quello stato di virulenza per raggiungere il quale il suo predecessore al tempo del Vietnam aveva invece impiegato anni.
    Varie forme di apologia
    Una possibile spiegazione di questo fenomeno era che, come nel caso delle rispettabili critiche che lo avevano preceduto, l’opposizione radicale seguiva le orme dell’opinione pubblica europea. In questo caso, incoraggiamenti e stimoli sono stati offerti dal quasi incredibile scoppio di ostilità nei confronti dell’America esploso, all’indomani dell’11 settembre, in tutto il continente europeo, e soprattutto in Francia e in Germania, e che ha acquisito ancora maggiore forza nella fase di preparazione della guerra in Iraq.
    Se si deve prestare fede alle dimostrazioni e ai sondaggi dell’opinione pubblica, un enorme numero di persone detestava gli Stati Uniti così profondamente da non essere disposto a schierarsi al nostro fianco nemmeno contro uno dei più violenti tiranni del mondo.
    Che questi fossero i sentimenti dominanti nel mondo musulmano non era certo una sorpresa. Diversamente che in Europa, dove gli attacchi dell’11 settembre avevano provocato una temporanea solidarietà per gli Stati Uniti (“Siamo tutti americani”, aveva proclamato il titolo di prima pagina di un giornale della sinistra francese il giorno dopo gli attentati), nel mondo islamico la notizia dell’11 settembre fu accolta con danze nelle strade e grida di gioia. Nei loro sermoni, praticamente tutte le autorità religiose assicurarono i loro fedeli che, colpendo il “Grande Satana”, Osama bin Laden si era comportato come un guerriero del jihad, in perfetta conformità con la volontà di Dio.
    Queste parole furono per così dire preannunciate in un dibattito sul tema “Bin Laden: la disperazione degli arabi e lo spettro degli americani”, trasmesso da al Jazeera circa due settimane prima dell’11 settembre. L’espressione “lo spettro degli americani” era leggermente prematura (si trattava ancora di un periodo in cui pochi americani erano preoccupati dal terrorismo islamico), per la semplice ragione che praticamente nessuno aveva mai sentito il nome di bin Laden o di al Qaida.
    A ogni modo, alla fine del programma, il presentatore disse all’unico e isolato ospite che aveva denunciato bin Laden come terrorista: “Cerco tra le reazioni degli spettatori qualcuna che appoggi le vostre posizioni, ma… non ne trovo nessuna”. Poi citò “un sondaggio d’opinione di un giornale kuwaitiano che dimostrava che il 69 per cento dei kuwaitiani, degli egiziani, dei siriani, dei libanesi e dei palestinesi pensava che bin Laden fosse un eroe arabo e un guerriero del jihad islamico”.
    Inoltre, sulla base dei sondaggi effettuati dalla sua rete televisiva, sostenne che tra tutti gli arabi, “dal Golfo Persico fino all’oceano atlantico”, la proporzione di quelli che condividevano questa opinione era “probabilmente addirittura del 99 per cento” Senza dubbio, quindi, il presidente dell’Associazione degli scrittori arabi siriani parlava in nome di milioni di suoi “fratelli” quando, poco dopo l’11 settembre, dichiarò che “quando sono crollate le Torri Gemelle (…) mi sono sentito come qualcuno che fosse appena resuscitato da una tomba; mi sono sentito trasportato nell’aria sopra il cadavere del simbolo mitologico dell’arrogante potenza imperialista americana (…).
    I miei polmoni si sono riempiti d’aria, e ho respirato dolcemente come non avevo mai fatto prima”. Se questa era stata la reazione generale del mondo arabo-musulmano all’11 settembre, che cosa ci si sarebbe dovuti aspettare quando gli Stati Uniti si sarebbero rimessi in piedi (poggiandoli su Ground Zero, per essere precisi) e avrebbero contrattaccato? Ciò che ci si poteva aspettare è stato esattamente quello che è avvenuto: un altro furioso scoppio di antiamericanismo.
    Soltanto che questa volta predominava non la gioia ma la disperata speranza che gli Stati Uniti subissero una qualche umiliazione. Speranza che fu presto cancellata dalla rapida sconfitta del regime talebano in Afghanistan, ma poi immediatamente riaccesa da come Saddam Hussein sapeva resistere all’America. Saddam aveva ucciso centinaia di migliaia di musulmani in Iran, e innumerevoli arabi in Kuwait e nel suo stesso paese. Ovviamente, però, tutto questo era completamente trascurato dai suoi “fratelli” arabi e musulmani, orgogliosi della sua sfida contro gli Stati Uniti.
    Si poteva forse rintracciare un elemento di questo stesso perverso atteggiamento nella facilità con cui milioni e milioni di europei davano di fatto aiuto e sostegno a questo mostro? Naturalmente si sosteneva che la maggior parte di questa gente non era né pro Saddam né antiamericana: tutto ciò che chiedevano era “give peace a chance”.
    Ma questa pretesa era smentita dagli slogan, dai discorsi e dai manifesti del partito della “pace”. Per quanto l’odio nei confronti dell’America possa anche non avere permeato tutti gli oppositori dell’intervento militare americano, era certamente molto diffuso e profondo. E sebbene entrassero in gioco anche altre considerazioni (il sentimento pacifista la preoccupazione per le perdite civili, il disprezzo per Bush, la fiducia nelle Nazioni Unite), queste ultime non avevano difficoltà ad accordarsi con un’estrema ostilità nei confronti degli Stati Uniti.
    Così, soltanto due mesi dopo l’11 settembre, un sondaggio su importanti personalità di ventitre paesi diversi ha fornito interessanti risultati, che un giornale inglese ha così riassunto: “L’America ha in qualche modo attirato su di sé gli attentati terroristici di New York e Washington? (…) La maggior parte degli intervistati in tutti questi paesi stranieri (…) ritiene che, per certi versi, sia proprio così (…) Dai paesi suoi più stretti alleati in Europa, fino in medio cento ritiene positivo che, dopo l’11 settembre, gli americani si siano resi conto di esser vulnerabili”.
    Sembrerebbe quindi che il commediografo italiano Dario Fo, vincitore nel 1997 del premio Nobel per la letteratura, incarnasse l’opinione europea in modo molto più ampio e profondo di quanto si fosse inizialmente creduto con questo suo proclama: “I grandi speculatori sguazzano in un’economia che ogni anno uccide decine di milioni di persone in condizioni di assoluta povertà; dunque, cosa significano 20.000 (sic!) morti a New York? Indipendentemente da chi ha compiuto il massacro, questa violenza è la legittima figlia della cultura della violenza, della fame e dello sfruttamento dell’uomo”.
    In Francia, un autorevole filosofo, Jean Baudrillard, ha elaborato un tipo leggermente diverso di apologia per i terroristi dell’11 settembre. Un’apologia così pesantemente contorta e intrisa di linguaggio postmoderno da sconfinare nella parodia (“Il crollo delle torri del World Trade Center è una cosa inimmaginabile, ma questo non è sufficiente per farne un evento reale”). Ma l’articolo di Baudrillard conteneva almeno una confessione rivelatrice: “Che noi stessi abbiamo sognato questo evento, che ognuno di noi lo abbia fatto, (…) è una cosa inaccettabile per la coscienza morale occidentale; ma è comunque un fatto (…) Ora al Qaida l’ha fatto, ma noi l’abbiamo voluto”.

    Le richieste e le accuse
    Questa stessa idea, in termini ancora più diretti, fu espressa in Inghilterra da Mary Beard, professoressa di storia del mondo classico alla Cambridge University, la quale scrisse: “Per quanto si cerchi di presentarlo con tatto, il fatto rimane che gli Stati Uniti se la sono voluta (…) I presuntosi alla fine la pagano”.
    Su questo anche il famoso romanziere Martin Amis era d’accordo; ma poiché l’antica concisione inglese era evidentemente per lui fin troppo concisa, Amis è ricorso a qualche raffinato ritocco europeo per formulare il suo epitaffio sulle colpe dell’America: “Il terrorismo è comunicazione politica con altri mezzi. Il messaggio dell’11 settembre è questo: America, è giunto il momento che impari quanto profondamente sei odiata (…) Alcune delle tue più profonde caratteristiche nazionali (il senso di autonomia, un patriottismo molto più tenace che in qualsiasi paese europeo, una totale mancanza di curiosità per il mondo) hanno provocato un quasi completo disinteresse per le sofferenze degli altri popoli”.
    Che diavolo stava succedendo? Dopo l’11 settembre, la maggior parte degli americani si era progressivamente resa conto che eravamo odiati dai terroristi che ci avevano attaccato e da tutti i musulmani che li sostenevano non per i nostri difetti ma per le nostre virtù in quanto paese libero e prospero. Ma perché ci odiavano anche milioni di persone che vivevano invece in paesi altrettanto liberi e prosperi? In quest’ultimo caso, probabilmente, doveva essere per colpa dei nostri peccati.
    E tuttavia, la maggior parte di noi sapeva con certezza che, quali che fossero i nostri peccati, non erano quelli di cui ci accusavano gli europei. Per dirlo in altre parole: ben lungi dall’essere una nazione di arroganti spacconi, chiedevamo umilmente il sostegno di piccoli paesi che avremmo potuto facilmente spingere via. Ben lungi dall’essere “unilateralisti”, chiedevamo il permesso e la benedizione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu prima di intervenire militarmente contro Saddam Hussein. Ben lungi dal “correre verso la guerra”, passavamo mese dopo mese a ballare un valzer diplomatico nella vana speranza di ottenere l’aiuto della Francia, della Germania e della Russia.
    E si potrebbe continuare ancora a lungo con questa lista. Che cosa stava succedendo, allora? Una risposta a questa difficile domanda, poi ampiamente condivisa, fu data da Robert Kagan. Con una formula accattivante divenuta presto famosa, Kagan dichiarò che gli americani venivano da Marte e gli europei da Venere. Elaborando questa formula, Kagan ha scritto: “Sulla questione cruciale della potenza – l’efficacia della potenza, la moralità della potenza, la desiderabilità della potenza – gli americani e gli europei hanno punti di vista differenti.
    L’Europa sta prendendo le distanze dalla potenza, o, per dirla in un’altra maniera, l’Europa sta andando oltre la potenza per entrare in un mondo autosufficiente, fatto di leggi e di regolamenti, di negoziati internazionali e di cooperazione. L’Europa sta entrando in un paradiso post storico di pace e relativa prosperità, la realizzazione della kantiana ‘pace perpetua’.
    Gli Stati Uniti rimangono invece impantanati nella storia, continuando a esercitare la potenza in un anarchico mondo hobbesiano, in cui le leggi e le regole internazionali sono inaffidabili e dove la vera sicurezza, la difesa e lo sviluppo di un ordine liberale dipendono ancora dal possesso e dall’uso della forza militare”.
    Con questa sua tesi, Kagan ha visto giusto in molte cose e ha gettato la giusta luce che abbia fatto calzare le scarpe della sua tesi nei piedi sbagliati. Per quanto accetti fino in fondo la presentazione di Kagan dei diversi atteggiamenti nei confronti della potenza militare, non sono d’accordo sul fatto che gli europei stiano già vivendo nel futuro e che gli americani siano ancora “impantanati” nel passato.
    A mio giudizio, è vero esattamente il contrario. Il “paradiso post storico” nel quale sarebbero a quanto pare entrati gli europei a me non sembra nient’altro che la rete delle istituzioni internazionali che sono state create alla fine della seconda guerra mondiale sotto la leadership degli Stati Uniti nella speranza che avrebbero promosso la pace e la prosperità. Tra queste istituzioni c’erano le Nazioni Unite, la Banca Mondiale, la Corte internazionale e molte altre ancora. Poi, dopo il 1947, e ancora sotto la guida degli Stati Uniti, si riorganizzarono alcune delle istituzioni già esistenti e se ne crearono di nuove (come la Nato) per adattarsi alle esigenza della terza guerra mondiale.
    Con la vittoriosa conclusione di questa guerra nel 1989-1990, il vecchio ordine internazionale divenne una cosa sorpassata, tanto che si comprese immediatamente che sarebbero stati necessari nuovi adattamenti per affrontare la nuova fase storica. Ma passò più di un decina d’anni prima che l’11 settembre delineasse infine i contorni della “era post guerra fredda” in modo sufficientemente chiaro per determinare quali adattamenti fossero necessari.
    Considerata da questo punto di vista, la dottrina Bush si presentava come un tentativo estremamente coraggioso per scardinare la struttura istituzionale e la strategia elaborata per combattere la terza guerra mondiale. Ma era anche qualcosa di più: definiva anche un progetto per una nuova struttura e una nuova strategia adatta a combattere un diverso tipo di nemico in una guerra che era appena cominciata e che dava tutta l’apparenza di dovere continuare ancora a lungo. Di fronte a questa nuova realtà, Bush era giunto alla conclusione che ben pochi (e probabilmente nessuno) dei vecchi strumenti istituzionali erano capaci di sconfiggere questo nuovo nemico, e che le strategie del passato erano altrettanto inutili contro il nuovo modo di combattere del nemico.
    Per entrare nel futuro, bisognava sostituire la deterrenza con la prevenzione, e contare più sulla potenza militare americana che sul “soft power” delle Nazioni Unite e di altri relitti della terza guerra mondiale, o tantomeno sull’hard power della Nato (il cui raggio d’azione era stato specificamente ristretto al teatro europeo e il cui impiego in altri luoghi sarebbe stato ostacolato dai francesi).
    Considerate da questo stesso punto di vista, le giustificazioni date dagli europei per la loro opposizione alla dottrina Bush (le proteste sul suo “unilateralismo”, ecc.) si rivelavano mere elucubrazioni sofistiche. Sotto questo aspetto, mi trovavo d’accordo con Kagan nel rintracciare la loro origine in un declino della potenza degli europei. Kagan lo aveva scritto in modo perfettamente chiaro: “La seconda guerra mondiale aveva completamente distrutto le nazioni europee come potenze globali (…) Rimpicciolita dalle due superpotenze che la circondavano, un’Europa indebolita rimase tuttavia il cruciale teatro strategico della lotta mondiale fra il comunismo e il capitalismo democratico (…).
    Per quanto priva di tutti i più tradizionali strumenti di una grande potenza, l’Europa continuava a essere il cardine della geopolitica mondiale, cosa che, insieme alla sua antica abitudine alla leadership internazionale, le permetteva di mantenere un’influenza ben più profonda di quanto la sua potenza militare le avrebbe in realtà consentito. Dopo la fine della guerra fredda, l’Europa ha perso la sua centralità strategica, ma ci sono voluti alcuni anni prima che la resistente immagine della potenza globale europea cominciasse a svanire) Fin qui tutto bene.
    Ma non ero d’accordo con Kagan circa la sua convinzione che gli europei avessero effettivamente compiuto il salto nel “paradiso kantiano” del futuro, postnazionale e postmoderno. A me sembrava evidente che erano gli europei, e non noi americani, a essere rimasti “impantanati” nel passato. Gli europei combattevano accanitamente per impedire all’America il salto nel futuro proprio perché rimanere ancorati alle idee, alle strategie e alle istituzioni internazionali della guerra fredda gli avrebbe permesso di continuare ad esercitare “un’influenza ben più profonda di quanto la sua potenza militare gli avrebbe in realtà consentito”.
    E’ stato George W. Bush, quel moralista “sempliciotto”, quel cowboy dal grilletto facile, quell’affondatore del diritto internazionale e ostinato unilateralista, colui che ha avuto la capacità di vedere il futuro e che ha raccolto tutto il suo coraggio per entrarci dentro. Ma Bush è anche un politico, e come tale ha ritenuto necessario fare alcune concessioni di fronte alle pressioni che venivano esercitate su di lui in patria e all’estero.
    Per far questo bisognava fare ogni tanto qualche ritorno al passato. In queste occasioni, come quando ha cercato di ottenere l’approvazione del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, Bush ha mostrato una buona dose di gentilezza e deferenza nei confronti di coloro che, in patria e all’estero, continuavano ad interpretare la dottrina Bush non come un progetto per il futuro ma come un arrogante ripudio dell’approccio sostenuto dagli apparentemente più raffinati europei e dalle loro controfigure americane. “Gli europei insistono che il loro approccio ai problemi è più sofisticato e ricco di sfumature, perché cercano di influenzare gli altri in modo sottile e indiretto… Preferiscono di regola affrontare i problemi pacificamente, optando per il negoziato, la diplomazia e la persuasione piuttosto che per la coercizione. Per dirimere le controversie, sono più propensi a fare appello al diritto internazionale, agli accordi internazionali e all’opinione pubblica mondiale cercando di utilizzare i legami commerciali ed economici per tenere insieme le nazioni, spesso dando più risalto al processo che ai risultati, convinti che alla fine il processo possa diventare sostanza”.
    Non che in tutto questo ci fosse qualcosa di nuovo: gli europei avevano espresso esattamente la stessa pretesa di superiore raffinatezza durante gli anni della presidenza Reagan. A quel tempo, nel 1983, questa pretesa aveva provocato un perfetto commento di Owen Harris (l’ex capo della sezione per la strategia politica del ministero degli Esteri australiano e membro della scuola realista): “Quando si sente questa pretesa di superiore realismo e raffinatezza, il primo impulso è quello di chiedere quali sono esattamente le prove.
    Se si considerano alcuni degli eventi critici della storia europea del Ventesimo secolo (gli eventi che hanno portato allo scoppio della Prima guerra mondiale, la conferenza di pace di Versailles, il congresso di Monaco nel 1938, l’impegno che l’Europa era disposta a dare per garantire la propria difesa a partire dal 1948, e l’attuale atteggiamento circa la difesa dei suoi più vitali interessi nel golfo persico), non si è tanto facilmente portati a concederle questa superiorità”. Vent’anni dopo, il realista Harris avrebbe certamente avuto profonde riserve sulla dottrina Bush. Ma non avrebbe esitato ad aggiungere la “raffinata” opposizione europea alla lunga lista dei giudizi disastrosamente sbagliati da lui stesso descritti nel 1983.

    Realisti sognatori
    Lo spettacolare successo delle campagne militari in Afghanistan e Iraq ha mandato all’aria lo scetticismo dei molti esperti convinti che avevamo inviato troppe poche truppe o che stavamo seguendo un piano di battaglia sbagliato. Invece di essere trascinati in un pantano, come questi esperti avevano previsto,le nostre forze portarono a termine queste due campagne a tempo di record. E invece di decine di migliaia di soldati americani morti, le perdite si limitarono soltanto a qualche centinaio.
    Ecco come ha riassunto il significato della guerra in Iraq lo storico militare Victor Davis Hanson: “Nel giro di circa ha sottomesso un paese grande come la California. Ha completamente annientato le infrastrutture militari di Saddam Hussein… e ha distrutto i suoi eserciti. Delle circa 110 vittime americane, circa un quarto sono state causate da incidenti o da fuoco amico. Il numero sorprendentemente basso di perdite americane… non ha praticamente precedenti nella moderna storia militare”.
    Effettivamente, il periodo immediatamente successivo alla fine delle principali operazioni militari, si è rivelato più difficile di quanto il Pentagono si aspettasse. Per colpa di un’insurrezione della guerriglia fomentata da una coalizione di intransigenti fedeli di Saddam, di milizie sciite radicali e di terroristi giunti dall’Iran e dalla Siria, i soldati americani hanno subito altre perdite. Ciononostante, da un punto di vista storico (basta pensare ai 6.500 morti nel solo giorno del D-Day durante la Seconda guerra mondiale) il numero totale rimane straordinariamente basso.
    Ma non sono state le questioni militari quelle che hanno suscitato l’acido scetticismo dei realisti. I loro dubbi riguardavano piuttosto la questione se la dottrina Bush fosse politicamente praticabile. Soprattutto, mettevano in discussione la tesi secondo la quale la democratizzazione fosse il migliore e forse il solo modo per sconfiggere l’islam militante e il terrorismo. Bush aveva scommesso sulla fede nell’universalità del desiderio di libertà e di prosperità. E se si fosse sbagliato a fare questa scommessa? Se il medio oriente fosse in realtà incapace di avviare un processo di democratizzazione? E se la religione islamica fosse per sua stessa natura incompatibile con la democrazia?
    Queste erano domande di difficile risposta, alle quali le persone responsabili non si potevano tuttavia sottrarre. Però i sostenitori della scommessa di Bush avevano anch’essi i propri dubbi sui dubbi dei realisti. I realisti sembravano essersi dimenticati che il medio oriente di oggi non era stato creato da Allah nel VII secolo, e che l’ignobile dispotismo che ora vi predominava non era il risultato di qualche inesorabile processo storico mosso esclusivamente da forze culturali interne.
    Al contrario, praticamente tutti gli Stati di questa regione erano nati meno di cent’anni prima sulle macerie dello sconfitto impero ottomano alla fine della Prima guerra mondiale. I loro confini erano stati disegnati dalle potenze vincitrici, l’Inghilterra e la Francia, spesso in modo del tutto arbitrario, e le impotenti popolazioni di queste terre furono a lungo passate da un tiranno all’altro. Consapevoli di questa vicenda storica, noi sostenitori della dottrina Bush ci domandavamo perché bisognasse considerare assiomatico che questi Stati avrebbero mantenuto costantemente la loro forma e perché la configurazione politica del medio oriente avrebbe dovuto restare eternamente al di fuori delle correnti democratiche che si stavano diffondendo in tutto il resto del pianeta.

    La gioia della gente di Kabul
    Ci chiedevamo anche se fosse realmente vero che i musulmani erano così diversi da tutti gli altri esseri umani, e che piacesse loro essere oppressi e uccisi da dei violenti tiranni, persino se questi tiranni si vestivano con gli abiti della religione e citavano versetti del Corano. E ci chiedevamo se i musulmani preferissero davvero essere poveri, affamati e senza casa anziché godere di quei comfort e di quelle comodità che in occidente sembrano così scontate che non ne siamo più nemmeno grati. E, infine, ci chiedevamo perché, se era davvero così, c’era stato un così grande scoppio di gioia e felicità tra la gente di Kabul quando gli americani l’avevano liberata dai suoi oppressori talebani.
    D’accordo, era la risposta, ma che dire della popolazione irachena? Quasi tutti i sostenitori dell’invasione, me compreso, avevano previsto che gli americani sarebbero stati accolti con fiori e sorrisi; invece le nostre truppe hanno incontrato odio e bombe. Ciononostante, e contrariamente all’impressione suscitata dai media, tutti i sondaggi dimostravano che la vasta maggioranza degli iracheni ci dava il benvenuto ed era felice di essere stata liberata dalla violenta tirannia di Saddam Hussein.
    L’odio e le auto-bombe arrivano dallo stesso gruppo di combattenti del jihad che ci avevano attaccato l’11 settembre e che, a differenza degli scettici del nostro paese, avevano paura che gli Stati Uniti stessero davvero riuscendo a democratizzare l’Iraq. In effetti, questo era l’autentico segnale d’avvertimento lanciato dal leader terrorista Abu Musab al Zarqawi a resti di al Qaida ancora nascosti nelle grotte dell’Afghanistan: “La democrazia sta arrivando, e dopo non ci sarà più alcuna giustificazione (per il terrorismo in Iraq)”.
    Parlando a nome di molti suoi colleghi realisti, Fareed Zakaria, sulle pagine di Newsweek, smentì Zarqawi affermando che in Iraq non stava arrivando la democrazia e anzi che era prematuro cercare di impiantarla in quel paese o in qualsiasi altra regione del medio oriente: “Noi non vogliamo la democrazia in medio oriente, o almeno non ancora. Vogliamo innanzitutto stabilire quelli che si possono definire i presupposti della democrazia (…), il regno della legge, i diritti individuali, la proprietà privata, l’indipendenza dei tribunali, la separazione tra Stato e Chiesa (…). Non possiamo aspettarci che in medio oriente avvenga nello spazio di una sola notte ciò per cui in occidente ci sono voluti secoli”.
    Noi sostenitori della dottrina Bush non vedevamo nulla di sbagliato nelle tesi di Zakaria. Ma rifiutavamo l’accusa (spesso rivoltaci non soltanto da realisti come Zakaria ma anche da paleoconservatori come Pat Buchanan) secondo la quale la nostra posizione era troppo “ideologica” o ingenuamente “idealistica” o addirittura “utopica”. Eravamo completamente d’accordo con quello che il presidente Bush andava già da tempo sostenendo: ossia che l’opzione realista di accettare regimi autocratici e dispotici in medio oriente non aveva garantito né la stabilità regionale né – come aveva tragicamente dimostrato l’11 settembre – ci aveva reso più sicuri in patria. Bush aveva già da tempo dato una risposta alla domanda posta da “coloro che si definiscono realisti”, vale a dire se “la diffusione della democrazia dovesse essere una preoccupazione degli Stati Uniti”.
    Lo era eccome, dichiarò Bush in termini risoluti, perché la democratizzazione ci avrebbe reso più sicuri, e accusò i realisti di avere “perso contatto con una fondamentale realtà”. Da questo punto di vista, a mio giudizio, Bush ha adottato una politica simile a quella del Piano Marshall, che era servito agli interessi americani e nello stesso tempo aveva aiutato gli altri paesi. Al pari del Piano Marshall, la nuova politica di Bush era una sintesi di realismo e idealismo: un esempio di come si fa bene facendo il bene. Coloro che sostenevano questa nuova politica si opposero anche alla tesi secondo la quale democrazia e capitalismo potevano crescere soltanto in un terreno che era stato coltivato già da secoli.
    Abbiamo ricordato ai realisti che dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti erano riusciti, in un solo decennio, a trasformare la Germania nazista e il Giappone imperialista in democrazie capitaliste. E dopo la sconfitta del comunismo, era cominciato un processo analogo in Europa centrale e orientale, e persino nel cuore stesso dell’antico impero del male. Perché non avrebbe potuto accadere la stessa cosa nel mondo islamico? La risposta dei realisti era che qui la situazione era diversa. A questo noi rispondevamo che la situazione era ogni volta diversa, e che si potevano sempre trovare mille ragioni di possibile fallimento per scoraggiare qualsiasi tentativo ambizioso.
    Di fronte a questa osservazione si sosteneva frequentemente che l’Amministrazione Bush aveva notevolmente sottovalutato le particolari difficoltà che implicava la democratizzazione dell’Iraq e erroneamente calcolato il tempo necessario per una trasformazione così profonda, sempre ammesso che fosse possibile. Tuttavia i discorsi su una “facile passeggiata” e cose del genere erano fatti soprattutto fuori dall’Amministrazione e in ogni caso erano riferiti alla futura campagna militare in Iraq (che si è rivelata effettivamente tale) e non alla successiva fase di ricostruzione.
    Quanto a quest’ultima, l’Amministrazione aveva continuato a ripetere che sarebbe rimasta in Iraq “fino a quando sarebbe stato necessario, e non un giorno di più”. Ma quanto sarebbe durato il processo di democratizzazione? Per coloro che si opponevano alla dottrina Bush, un anno (o persino un mese?) era già un periodo troppo lungo; per i suoi sostenitori, l’espressione “fino a quando sarebbe stato necessario, e non un giorno di più” continuava a sembrare, date le circostanze, la sola formula soddisfacente.
    Lo stesso discorso fatto per il problema della democratizzazione dell’Iraq vale anche per quello della riforma e della modernizzazione dell’islam. Riflettendo su questa ancora più complessa questione, ci chiedevamo se l’islam fosse davvero in grado di sopravvivere eternamente rifiutando quel processo di riforma e modernizzazione che si era avviato nel cristianesimo e nel giudaismo all’inizio dell’età moderna.
    Non che fossimo così ingenui da immaginarci che l’islam potesse riformarsi nel giro di una notte, o per un intervento esterno. Nella sua fase di massimo splendore, l’islam si era imposto su enormi territori con la forza della spada, oggi non c’era alcuna possibilità di un’immediata trasformazione dell’islam con la forza delle armi americane. C’erano, però, buone possibilità per preparare il terreno e fare una semina da cui potevano svilupparsi nuove condizioni politiche, economiche e sociali, affiancate da nuove pressioni religiose interne. Queste pressioni avrebbero preso la forma di una imprescindibile richiesta ai teologi musulmani affinché rintracciassero nel Corano e nella sharia la garanzia che si poteva rimanere buoni musulmani anche godendo dei vantaggi di un governo onesto, e persino di quelli della libertà politica ed economica. In questo modo si sarebbe infine avviato il processo di riforma e modernizzazione della religione islamica.

    I democratici del 2004
    Gli ostacoli che si frappongono a una positiva trasformazione del medio oriente (militare, politica o religiosa) non sono insuperabili. Nel lungo periodo, possono essere superati e non c’è dubbio che noi possediamo la potenza, i mezzi e le risorse necessarie per farlo. Ma abbiamo anche la capacità e il coraggio altrettanto necessari? Siamo in grado, nella nostra presente condizione, di giocare un ruolo imperiale così limitato e moderato come quello che avevamo esercitato occupando la Germania e il Giappone alla fine della seconda guerra mondiale?
    Alcuni dei nostri critici nella destra europea ci deridono non, come fa la sinistra, perché siamo degli imperialisti ma perché lo siamo in modo assolutamente maldestro, perché manchiamo della lungimiranza e delle capacità politiche per sovrintendere alla creazione di un governo più disposto alla riforma e alla modernizzazione dell’attuale dispotismo. Confesso che ho serie preoccupazioni sulle nostre capacità, e sul nostro carattere come nazione. E pensando alla nostra lunga storia di disattenzione e passività nei confronti del terrorismo precedente all’11 settembre, temo una ricaduta nell’arrendevolezza, nelle paludi della diplomazia e dell’inutile controllo dei danni.
    Timori e preoccupazioni come questi sono stati notevolmente approfonditi dagli attacchi sferrati contro la dottrina Bush, diventati addirittura virulenti nel corso della campagna elettorale del partito democratico. Ho già parlato delle mie iniziali preoccupazioni per la possibile diffusione del movimento pacifista dai settori più marginali verso il centro, così come del mio successivo stupore per la rapidità con cui è riuscito a farlo. Mentre negli anni Sessanta ci sono voluti dodici anni ai radicali per raccogliere il partito democratico dietro a George McGovern, il loro erede politico e spirituale del 2001 sembra esserci riuscito in meno di due mesi.
    Questa volta il leader prescelto era l’iracondo pacifista Howard Dean. Benché alla fine non sia riuscito a ottenere la nomination, i suoi iniziali successi hanno costretto gli altri candidati relativamente moderati a fare una decisiva svolta a sinistra sull’Iraq e a escludere i pochi che ancora sostenevano la campagna militare. Quanto a John Kerry, per vincere la nomination ha dovuto sconfessare il voto con cui lui stesso aveva autorizzato il presidente Bush a usare la forza contro Saddam Hussein.
    A rendere la situazione ancora peggiore, la campagna di propaganda volta a mettere in discredito l’intervento in Iraq si spostò dalle piazze dei comizi elettorali alle sale del Congresso, dove si camuffò in una serie di udienze apparentemente neutrali. In queste udienze, la più importante delle quali fu tenuta dal Senate Intelligence Committee, alti funzionari dell’amministrazione Bush subirono le prepotenze di legislatori democratici (e persino alcuni repubblicani) in termini che spesso ricordavano quelli usati in molti libri e articoli che accusavano il presidente di averci mentito sulle ragioni che avevano reso necessaria la guerra contro Saddam Hussein.
    Fu una vera e propria ondata che si abbatté su tutto il panorama politico. Tra le menzogne con cui Bush aveva ingannato Kerry e tutti gli altri americani c’era quella sulle presunte connessioni tra Saddam e al Qaida. Anche coloro che credevano in queste connessioni erano disposti ad ammettere che non c’erano (ancora) prove definitive; ma questo non significava affatto negare che non ci fossero concreti sospetti. E infatti, secondo i rapporti poi pubblicati dal Senate Intelligence Committee e dalla commissione per l’11 settembre nell’estate del 2004 (e diversamente dalle conclusioni che ne hanno tratto i media), al Qaida ha effettivamente avuto dei rapporti di collaborazione, per quanto informali, con alcuni agenti iracheni al servizio di Saddam.
    Lo stesso vale per un’altra delle bugie che Bush avrebbe detto per giustificare l’invasione dell’Iraq. Nel suo discorso sullo stato dell’Unione nel 2003, aveva detto che “il governo britannico ha scoperto che Saddam Hussein ha recentemente cercato di ottenere significative quantità di uranio dall’Africa”. Poi un oscuro diplomatico in pensione di nome Joseph C. Wilson IV, precedentemente inviato in Niger dalla Cia per verificare quest’affermazione, si guadagnò i suoi quindici minuti di gloria (per non menzionare la pubblicazione di un libro bestseller) denunciandola come una bugia. Ma si è poi stabilito che la famosa frase pronunciata da Bush corrispondeva a verità. Fu questa la conclusione del rapporto del Senate Intelligence Committee, di due separate indagini inglesi e di parecchi servizi segreti europei, compresi persino quelli francesi.
    Per di più, si è scoperto che il rapporto di Wilson per la Cia in realtà sembrava confermare il sospetto che Saddam stesse cercando di acquistare uranio in Africa anziché, come lui aveva dichiarato, smentirlo. Il bugiardo, quindi, non era Bush ma Wilson. Ma, naturalmente, la più grande bugia di cui Bush era accusato era stata quella di dire che Saddam possedeva armi di distruzione di massa.
    Su questo punto, anche chi sosteneva che le armi di distruzione di massa fossero ancora nascoste o che fossero state trasportate in Siria, o entrambe le cose, era disposto ad ammettere che probabilmente si sbagliava. Ma come avrebbe potuto mentire Bush quando ogni servizio d’intelligence in qualsiasi paese del mondo era convinto che Saddam custodisse un arsenale di queste armi? E come avrebbe potuto esagerare le notizie fornitegli dai nostri servizi segreti quando lo stesso direttore della Cia descriveva il caso come una “pesante schiacciata”? Senza dubbio, sempre secondo il rapporto del Senate Intelligence Committee, il caso, invece di essere una “pesante schiacciata”, poggiava su prove scarse e inconsistenti.
    Tuttavia, lo stesso comitato “non ha riscontrato alcuna prova del fatto che i funzionari dell’amministrazione abbiano cercato di influenzare o mettere sotto pressione gli analisti affinché mutassero la loro opinione sulle armi di distruzione di massa irachene”. La Cia, in altre parole, non ha detto al presidente ciò che pensava volesse sentire. Gli disse invece ciò che pensava di sapere; e aveva ogni motivo per credere ciò che gli disse. Dopo la questione delle armi di distruzione di massa, ne sono emerse molte altre che hanno ulteriormente scosso la fiducia di molti che erano stati entusiastici dell’intervento in Iraq.
    Mentre il numero dei soldati americani uccisi nel tentativo di garantire la sicurezza in Iraq continuava ad aumentare e subito dopo l’orrendo episodio dell’uccisione di quattro cittadini americani e dello scempio dei loro corpi a Fallujah, giunse la notizia che alcuni prigionieri iracheni detenuti nel carcere di Abu Ghraib avevano subito spaventosi maltrattamenti da parte dei loro carcerieri americani. Tra i sostenitori della dottrina Bush, questi rovesci scatenarono una potente ondata di pessimismo e di paura di sconfitta, che furono ulteriormente ingranditi da continui mutamenti di tattica da parte dei nostri strateghi militari (come la decisione di rinunciare a stanare le milizie terroriste nascoste negli edifici sacri di Fallujah e Najaf).
    Persino il precedentemente irremovibile Fouad Ajami è rimasto scosso e turbato. In un articolo intitolato “L’Iraq potrà sopravvivere, ma il sogno è morto”, ha scritto: “Dobbiamo ammetterlo: l’Iraq non sarà il caso-modello che l’America presenterà al mondo arabomusulmano”. Bisognava aspettarsi che tutto questo sarebbe stato immediatamente sfruttato dal partito pacifista, continuando a ignorare completamente gli enormi progressi che avevamo compiuto nel processo di ricostruzione della società irachena.
    Era anche naturale che i democratici cercassero di sfruttare politicamente questi rovesci. Ma non era per forza necessario che i democratici sarebbero stati disposti ad arrivare fino al punto di confrontare i maltrattamenti e le umiliazioni dei prigionieri di Abu Ghraib (nessuno dei quali è stato mai mutilato, per non dire ucciso) con le spaventose torture e gli orrendi assassini che erano avvenuti in quella stessa prigione sotto il regime di Saddam Hussein o addirittura nei gulag sovietici, dove erano morti milioni di persone.
    Eppure è proprio ciò che fece il senatore Edward M. Kennedy dai banchi del Senato, quando dichiarò che la camera di tortura di Saddam Hussein era stata riaperta “da una nuova gestione: quella degli Stati Uniti”. E lo stesso fece Al Gore quando accusò Bush “di avere fondato un gulag americano”. Al coro dei politici si unì la voce del principale finanziatore della campagna elettorale del partito democratico, George Soros, il quale disse che la vicenda di Abu Ghraib era una cosa ancora più spaventosa degli attentati dell’11 settembre. Quando Soros fece questa disgustosa dichiarazione, aveva al suo fianco il senatore Hillary Rodham Clinton, che non ha battuto ciglio.

    I democratici e “Fahrenheit 9/11”
    Altrettanto ignobile è stata la risposta dei democratici alla più brillante costruzione demagogica dei radicali pacifisti, il film “Fahrenheit 9/11” di Michael Moore. Poco dopo l’11 settembre, vale a dire molto prima dell’uscita del film (ma molte delle accuse contro Bush presenti nel film erano già state rese note da Moore durante la guerra in Afghanistan), un commentatore di tendenze liberal lo aveva definito un “ben noto stravagante, considerato con disprezzo persino dalla sinistra”.
    Lo stesso commentatore aveva anche bollato come “insensata” l’idea che le opinioni di Moore “rappresentassero un arco significativo dello schieramento padistrucifista”. A dare credito a questa tesi era il fatto che lo stesso Moore si era beccato un bel po’ di fischi quando, nel 2003, accettando un Oscar per il film “Bowling at Columbine”, aveva dichiarato: “Viviamo in un’era di fittizi risultati elettorali, manipolati per eleggere presidenti fittizi. Viviamo in un’era in cui un uomo ci fa entrare in guerra per motivi fittizi (…). Noi siamo contro questa guerra, presidente Bush. Vergogna, presidente, vergogna” Nel 2004, tuttavia, quando è uscito “Fahrenheit 9/11”, le cose erano cambiate. Senza dubbio, questo film (un compendio di tutte le volgarità rivolte contro George W. Bush, più alcune nuove, il tutto messo insieme secondo la migliore tradizione dello “stile paranoico della politica americana”) è riuscito a mettere in imbarazzo persino numerosi commentatori liberal. Uno di loro ha descritto il film come un prodotto della “sinistra più balorda” e ha espresso il timore che il suo estremismo potesse mettere in discussione la “legittimità” delle ragioni delle critiche contro Bush e contro la guerra.
    Tuttavia, con un sorprendente rovesciamento degli schemi tradizionali della prudenza, questi timori di estremismo erano più pronunciati tra gli esperti liberal che tra i politici democratici. Così, un foltissimo numero di importanti democratici si presentò alla proiezione di “Fahrenheit 9/11” che (come ha ricordato spiritosamente il giornalista Mark Steyn) il Congresso non ha potuto fare a meno di organizzare. Al termine del film, nemmeno un fischio dissonante ha disturbato l’armonia degli applausi a scena aperta. Il presidente del Democratic National Committee, Terry McAuliffe, ha proclamato che il film “era molto potente, molto più di quanto avessi immaginato”. Quando un giornalista della Cnn gli ha domandato se riteneva che il “film fosse sostanzialmente onesto e basato sui fatti”, McAuliffe ha risposto: “Sì, (…) il film dimostra chiaramente che Bush non è adatto a fare il presidente di questo paese”.
    Il senatore dell’Iowa, Tom Harkin, si è accodato a McAuliffe e ha esortato tutti gli americani a vedere il film: “E’ importante che il popolo americano comprenda ciò che è accaduto prima, ciò che ci ha condotto fino a questo punto, e che lo veda in questa presentazione priva di ritocchi realizzata da Michael Moore”. E’ possibile che altri importanti democratici presenti alla proiezione (tra i quali i senatori Tom Daschle, Max Baucus, Barbara Boxer e Bill Nelson, nonché i parlamentari Charles Rangel, Henry Waxman e Jim McDermott, più vari anziani del partito come Arthur Schlesinger Jr. e Theodore Sorensen) non fossero d’accordo con Harkin e McAuliffe. Ma, anche se fosse così, sono rimasti del tutto in silenzio. Quanto a John Kerry, non ha trovato il tempo per vedere “Fahrenheit 9/11”, spiegando che non ce n’era comunque bisogno perché l’aveva “vissuto” lui stesso.

    Il 2004 e il 1952
    Per tornare al lugubre pessimismo che pervase i sostenitori della dottrina Bush nella primavera del 2004: una delle ragioni fornite da Fouad Ajami era che “i nostri nemici ci hanno preso le misure, si sono resi conto della nostra discordia nazionale sull’opportunità della guerra”. Incoraggiati dalle nostre esitazioni a Fallujah e in altri luoghi dell’Iraq, così come dalla nostra disponibilità a fare rientrare nel quadro politico le Nazioni Unite, i nostri nemici avevano ricominciato a respirare, e non soltanto in Iraq: “All’inizio l’Amministrazione aveva parlato di un ‘medio oriente allargato’ dove si sarebbe posto rimedio al ‘deficit’ di libertà, istruzione e diritti delle donne, dove la nostra potenza sarebbe stata impiegata per scardinare il dispotismo dominante nel mondo musulmano”.
    Ma ora, si lamentava Ajami, era diventato evidente che non avremmo affatto “dato la caccia al dittatore siriano” e non avremmo “rovesciato la teocrazia iraniana”. C’erano addirittura segnali che, abbandonando completamente il sogno della democratizzazione, ci potessimo accontentare del dominio di un “uomo forte” in Iraq. Quanto erano accurate le misure che il nemico ci aveva preso? Era possibile che la loro precisione fosse alterata dalla surriscaldata atmosfera di una campagna inconsuetamente accesa e combattuta, e dalla prudenza che Bush aveva ritenuto necessario adottare per ottenere la rielezione? Questa mi sembrava allora, e ancora adesso, la questione più importante.
    Voglio perciò concludere il mio saggio analizzandola, e intendo farlo tornando all’analogia che ho precedentemente individuato tra l’inizio della terza guerra mondiale nel 1947 e l’inizio della quarta guerra mondiale nel 2001. Quando fu enunciata nel 1947, la dottrina Truman fu criticata da molti ambienti. A destra c’erano gli isolazionisti i quali, dopo essere stati messi in disparte dalla seconda guerra mondiale, erano riusciti in qualche modo a tornare alla ribalta all’interno del partito repubblicano sotto la guida del senatore Robert Taft. La loro principale protesta era che Truman aveva impegnato gli Stati Uniti in una politica di infiniti interventi che non avevano un diretto rapporto con il nostro interesse nazionale. Ma all’interno della destra c’era anche una corrente che denunciava la dottrina del contenimento non perché sconsideratamente ambiziosa ma perché troppo timida.
    Questo gruppo era ancora piuttosto piccolo, ma nel giro di pochi anni avrebbe trovato, nel mondo della politica repubblicana, portavoci come Richard Nixon e John Foster Dulles e, in quello degli intellettuali conservatori, sostenitori come William F. Buckley e James Burnham. All’altra estremità dell’arco politico, c’erano comunisti e alcuni loro compagni di viaggio “liberal” che – rafforzati dalla nostra alleanza con l’Unione Sovietica durante la seconda guerra mondiale – erano emersi quale gruppo relativamente numeroso e avrebbero presto formato un nuovo partito politico sotto la guida di Henry Wallace. A loro giudizio i sovietici avevano maggiori motivi per difendersi da noi di quante ne avevamo noi di difenderci da loro; ed era stato Truman, e non Stalin, a rappresentare il maggior pericolo per “i popoli liberi di tutto il mondo”.
    Ma le critiche piovvero anche dal centro, rappresentato da Walter Lippman, il più influente e autorevole commentatore del periodo. Lippman sostenne che Truman aveva suonato “la carica di una crociata ideologica” con uno scopo addirittura messianico. Nelle elezioni del 1948, Truman riuscì nell’apparentemente impossibile compito di affrontare tutte queste tre sfide (e anche delle altre). Quando, malgrado le previsioni di tutti i sondaggi, riuscì a vincerle tutte, potè finalmente sentirsi investito di un mandato per la realizzazione della sua politica estera. E così avvenne che, sotto l’egida della dottrina Truman, le truppe americane furono inviate nel 1950 per combattere in Corea. “Ciò che una nazione può o deve fare – avrebbe poi scritto Truman – comincia con la disponibilità e la capacità del suo popolo di sopportarne la responsabilità”: e Truman riponeva una giusta fiducia nel fatto che il popolo americano fosse pronto a sobbarcarsi il peso della Corea.
    Anche così, rimase un’opposizione sufficientemente forte all’interno del partito repubblicano tanto da lasciare incerto se il contenimento fosse davvero una politica americana o soltanto quella seguita dai democratici. Questa incertezza fu esacerbata dalle elezioni presidenziali del 1952, quando i repubblicani guidati da Dwight D. Eisenhower si scontrarono contro il successore scelto dallo stesso Truman, Adlai Stevenson, in una campagna caratterizzata da violenti attacchi contro la dottrina Truman da parte del candidato vicepresidenziale di Eisenhower e del suo futuro segretario di Stato John Foster Dulles. Nixon, per esempio, prese in giro Stevenson definendolo un diplomato della “università dei codardi per il contenimento sovietico” diretta dal segretario di Stato di Truman Dean Acheson; mentre Dulles esortò ripetutamente a scartare la dottrina del contenimento in favore di una politica di “intervento” e “liberazione”.
    E tanto Nixon quanto Dulles sottolinearono con forza la loro approvazione della tesi sostenuta dal generale Douglas MacArthur, secondo il quale in Corea Truman si sbagliava a mantenere semplicemente le posizioni invece di continuare l’avanzata, perché, come disse lo stesso MacArthur con una frase rimasta famosa: “Non c’è nessun sostituto della vittoria”. Eppure, quando Eisenhower salì alla Casa Bianca, non toccò neanche un capello della dottrina Truman. Ben lungi dall’adottare una strategia più coraggiosa e più aggressiva, il nuovo presidente pose termine alla guerra in Corea accordandosi sullo status quo ante: in altre parole, proprio in conformità con la dottrina del contenimento.
    Ancora più rivelatore fu, tre anni più tardi, il rifiuto di Eisenhower di intervenire quando gli ungheresi, apparentemente incoraggiati dalla retorica della liberazione ancora impiegata nelle trasmissioni di Radio Free Europe, si rivoltarono contro i loro padroni sovietici. Nel bene o nel male, questo episodio tolse ogni rimanente dubbio sul fatto che il contenimento fosse ancora soltanto la dottrina del partito democratico. Con il pieno appoggio di tutti, la dottrina Truman era diventata la politica ufficiale degli Stati Uniti d’America.
    L’analogia non è ovviamente perfetta, ma le somiglianze tra le battaglie politiche del 1952 e quelle del 2004 sono abbastanza significative per aiutarci a considerare quella che qualche riga fa ho definito la questione in questo momento più importante per gli Stati Uniti. Per formulare la questione in termini leggermente diversi di quelli precedenti: Che cosa accadrà se a novembre i democratici, sotto la guida di John Kerry, batteranno George W. Bush? Prenderanno provvedimenti conformi alle loro violenti critiche contro la politica di Bush oppure, come i repubblicani del 1952 a proposito della Corea, si dimenticheranno tranquillamente delle loro promesse elettorali di appoggiarsi alle Nazioni Unite e agli europei, e proseguiranno sulla strada seguita da George Bush in Iraq? E gettando lo sguardo oltre lo stesso Iraq, adotteranno la dottrina Bush come i repubblicani del 1952 avevano adottato la dottrina Bush? Considereranno l’Iraq soltanto come una battaglia di una guerra più ampia, la quarta guerra mondiale, scatenata dagli attentati dell’11 settembre? Decideranno di continuare a combattere questa guerra con la stessa strategia indicata dalla dottrina Bush per tutto il tempo necessario a vincerla?
    A giudicare dal modo in cui hanno agito e parlato i democratici, temo che la risposta sia no. E non sono stato minimamente rassicurato dalla sfarzosa esibizione di falchiamo messa in scena durante la loro convention di luglio. Tuttavia, in quanto appassionato sostenitore della dottrina Bush, spero di sbagliarmi. Se John Kerry dovesse diventare il nostro prossimo presidente, cosa del tutto possibile, sarebbe davvero un disastro se decidesse di abbandonare la dottrina Bush e sostituirla con l’approccio legalista già impiegato senza alcun successo per affrontare il terrorismo prima dell’11 settembre, lasciando nello stesso tempo che di tutto il resto si occupino proprio queste due debolissime entità, ossia l’Onu e gli europei.
    Qualsiasi giustificazione Kerry riuscisse a trovare, questo mutamento di rotta sarebbe a ragione interpretato dai nostri nemici come una vile ritirata e ne deriverebbero dolorose conseguenze. I despoti del medio oriente si sentirebbero ancora una volta liberi di offrire protezione ai terroristi islamici e di rifornirli di cinture esplosive; e questi terroristi riprenderebbero il coraggio per attaccarci, questa volta con una violenza ben maggiore di qualsiasi altra. Se, comunque, i vittoriosi democratici riconoscessero che la nostra salvezza non giungerà né dagli europei né dalle Nazioni Unite, se accettassero che la dottrina Bush costituisce la sola risposta adeguata alla grande minaccia scatenata dall’11 settembre, allora il nostro nemico non sarà più incoraggiato (certamente non come negli ultimi tempi) dalla “nostra discordia nazionale sull’opportunità della guerra”.
    Nella terza guerra mondiale, nonostante il consenso bipolare che divenne evidente dopo il 1952 (e contrariamente agli annacquati ricordi che se ne hanno oggi), rimase una forte “discordia”, e si fecero parecchi passi falsi (in particolare quello del Vietnam) lungo la strada per la vittoria. Ci furono anche momenti in cui sembrava che stessimo perdendo, e quando i nostri nemici sembravano così forti che il massimo che potevamo ottenere sarebbe stato chiedere una pace negoziata.
    Ora, con la quarta guerra mondiale appena cominciata, assistiamo ad un fenomeno analogo. Nella terza guerra mondiale, l’America in quanto nazione ha saputo persistere nonostante gli inevitabili rovesci ed errori e malgrado il pessimismo da questi provocato fino a che, alla fine, ha ottenuto la vittoria. Per l’America la ricompensa della vittoria è stata l’eliminazione di una minaccia militare, politica e ideologica. Per le popolazioni che vivono all’interno dell’Unione Sovietica e del suo impero nell’Europa orientale, la vittoria ha significato la liberazione da un tiranno totalitario.
    Senza dubbio, questa liberazione non ha portato immediatamente tutto alla perfezione, ma sarebbe assurdo sostenere che nulla è cambiato in meglio quando il comunismo è stato finito proprio in quel mucchio di ceneri della storia che, secondo Marx, sarebbe dovuto essere il luogo di sepoltura del capitalismo. Supponiamo di riuscire a concludere la quarta guerra mondiale con una buona vittoria. Che cosa significherà questa volta la vittoria? Ebbene, per noi significherà l’eliminazione di un’altra (e per certi aspetti ancora più grave) minaccia alla nostra sicurezza. Ma poiché questa minaccia non può essere eliminata senza una “bonifica delle paludi” in cui si nutre, la vittoria significherà anche la liberazione di un altro gruppo di paesi da una nuova specie di tirannia totalitaria.
    Come possiamo già capire dall’Afghanistan e dall’Iraq, la liberazione non determinerà la creazione nel giro di una sola notte delle condizioni ideali in medio oriente, esattamente come non lo ha fatto nell’Europa orientale. Ma, come possiamo capire sempre dall’Afghanistan e dall’Iraq, avverranno immediatamente cose positive, e si aprirà un’autentica opportunità per cose ancora migliori. Il ricordo della situazione storica alla fine della terza guerra mondiale suggerisce un altro interessante parallelo con la situazione attuale, all’inizio della quarta guerra mondiale.

    (...)

    Ora la nostra “sicurezza come nazione” (compresa, in modo molto più grave che nel 1947, la nostra sicurezza fisica) dipende ancora una volta dalla nostra volontà e capacità di accettare le responsabilità della leadership politica e morale che la storia ha ancora una volta posto sulle nostre spalle. Siamo pronti? Ne abbiamo la volontà? Io penso di sì, ma la giuria è ancora in sessione, e fornirà il proprio verdetto definitivo soltanto dopo le elezioni del 2004.
    Questo Visitor idiota e prolisso ha addirittura perso il conto delle guerre mondiali.

    U$raele non deve preoccuparsi della IV Guerra mondiale bensì della terza, che dovrà combattere contro l'intera Eurasia da Dheli a Parigi, passando per Mosca. E non sarà una guerra a base di chiacchiere e distintivo, come la c.d. guerra fredda, ma a suon di megatoni.

    In tale doloroso ma inevitabile scontro, U$raele non deve preoccuparsi nè del proprio ruolo ne' della propria responsabilità storica. Gli americagnacci nel prossimo conflitto non dovran fare proprio nulla : solo morire.

  10. #20
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    Predefinito Re: Re: La Quarta Guerra Mondiale

    In Origine Postato da Decima Regio
    Questo Visitor idiota e prolisso ha addirittura perso il conto delle guerre mondiali.

    U$raele non deve preoccuparsi della IV Guerra mondiale bensì della terza, che dovrà combattere contro l'intera Eurasia da Dheli a Parigi, passando per Mosca. E non sarà una guerra a base di chiacchiere e distintivo, come la c.d. guerra fredda, ma a suon di megatoni.

    In tale doloroso ma inevitabile scontro, U$raele non deve preoccuparsi nè del proprio ruolo ne' della propria responsabilità storica. Gli americagnacci nel prossimo conflitto non dovran fare proprio nulla : solo morire.
    Un intervento veramente intelligente, complimenti.

 

 
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