Il regime di Teheran progetta di farsi pagare in euro, e non in dollari, il suo petrolio. Già oggi gli ayatollah accettano euro (e non dollari) per le loro esportazioni di greggio in Europa e in Asia. Tuttavia, i prezzi dell’essenziale materia prima sono tuttora denominati in dollari, come il Brent a Londra. E’ questo il maggior ostacolo tecnico. Ma l’Iran conta, dal marzo 2005, di aprire una Borsa del greggio nazionale che – in competizione con l’IPE (International Petroleum Exchange) di Londra e con il NIMEX (New York Mercantile Exchange), accetterà euro e – sperabilmente – adotterà un “marker” (uno standard di prezzo: com’è il Brent per Londra) in euro per il suo greggio.

La decisione è sensata dal punto di vista economico e finanziario, dato che l’Europa è il primo importatore di oro nero dall’Opec (gli Usa vengono secondi) ed è anche il maggior esportatore verso l’Opec (il 45% delle importazioni in quell’area vengono dall’UE). La progettata Borsa petrolifera di Teheran può quindi diventare assai attraente per i Paesi petroliferi del Golfo, e deviare una grossa fetta dei flussi finanziari e commerciali che ora arricchiscono Londra e New York. Non solo perché l’euro è oggi più stabile e forte del dollaro, indebolito dall’enorme deficit federale. Anche Russia e Cina hanno accresciuto la quota di euro nelle riserve delle loro banche centrali; e l’Arabia Saudita, visti i cattivi rapporti con la presente Casa Bianca, vorrebbe spostare una parte dei suoi investimenti proprio in Iran, mentre l’Iran è ansioso di attrarre capitali “amici” o almeno politicamente neutri, necessari per espandere gli investimenti nel suo settore energetico. L’UE è vista dall’Opec appunto come il grande cliente amico e politicamente non minaccioso.

Insomma la logica del mercato (la “mano invisibile”) spinge spontaneamente verso la creazione dell’euro come moneta mondiale di riserva. Ma per gli Usa sarebbe la rovina: il dollaro, persa l’esclusiva della “moneta obbligatoria per comprare greggio”, perderebbe la sua copertura “reale” (il bene fisico che ne sostiene il valore, se da trent’anni non è più l’oro, è sempre l’oro nero). Si rivelerebbe per quello che è: la moneta del Paese più indebitato del mondo, che ogni mese paga interessi di miliardi di dollari ai suoi creditori esteri (Cina, Giappone e Asia in genere); il calo del cambio che seguirebbe alla creazione della Borsa di Teheran obbligherebbe la Federal Reserve ad aumentare gli interessi sul proprio debito. L’America non avrebbe più i mezzi (che gli sono forniti dai creditori) per le proprie ambizioni imperiali. Senza contare la perdita delle grasse intermediazioni finanziarie, dovute al semplice fatto che il greggio si tratta solo a New York e Londra (1).

Proprio per questo l’analista William Clark (2) prevede un “atto di forza” americano contro l’Iran dopo la rielezione di Bush. Come noto, anche Saddam aveva cominciato ad accettare euro contro il suo greggio; appena “liberato” l’Irak, il primo atto dei “liberatori” è stato di esigere di nuovo dollari per il petrolio iracheno. Oggi il Pentagono sta febbrilmente studiando i piani per l’attacco all’Iran entro, pare, il Natale del 2005. Ci sono state anche simulazioni strategiche (war games) molto precise. Secondo Newsweek, però, i risultati non sono stati soddisfacenti. Come ha rivelato al settimanale una fonte dell’Air Force, “i war games hanno dimostrato che non riusciremmo a impedire l’escalation del conflitto”.

Rispetto a Saddam, l’Iran ha una credibile capacità militare, mentre gli Usa, impantanati in Irak, non hanno forze aggiuntive per una vera offensiva, e ancor meno per un’occupazione. Gli ayatollah hanno poi avuto il tempo di installare sofisticati sistemi missilistici anti-nave (Made in Moscow) ad Abu Musa, l’isola che controlla gli stretti di Hormuz. Gli Usa possono colpire, certo: ma al prezzo di bloccare per tempo indeterminato quegli stretti, da cui passano tutte le petroliere da e per il Golfo Persico. Il mercato del greggio, in panico, può schizzare a 100 dollari il barile, provocando una depressione mondiale. Perciò, secondo Clark, sono da temere, più che atti bellici, operazioni “coperte” o “chirurgiche” con la speranza di un cambio di regime a Teheran.
E’ tuttavia possibile che i neocons al potere in Usa (israeliani per lo più) siano pronti a provocare la grande depressione globale, pur di colpire l’Iran e prendere il dominio delle fonti petrolifere mondiali.



di Maurizio Blondet



NOTE

1)Per esempio l’IPE, il mercato del greggio di Londra, benchè tratti petrolio arabo, è proprietà di un consorzio fra BP (British Petroleum) e le banche d’affari ebraico-americane Goldman Sachs e Morgan Stanley.

2)L’analisi integrale di William Clark è disponibile sul sito http://globalresearch.ca/articles/CLA410A.html