Per l’autore di The Hoax of the Twentieth Century (“La mistificazione del XX secolo”), il preteso sterminio fisico degli ebrei europei durante la seconda guerra mondiale costituisce ciò che si può indifferentemente chiamare una menzogna storica, un mito, un’impostura o, come in questo caso, una mistificazione (la parola “hoax” si traduce indifferentemente con “mistificazione” o “beffa”). In Francia e in molti altri paesi questa mistificazione è diventata una verità ufficiale che, avendo oggi forza di legge, è protetta dalla polizia, dall’apparato giudiziario e, soprattutto, dall’onnipotenza dei grandi media. Essa ha assunto il carattere di un credo religioso, di un divieto sociale, di un tabù. “La versione kasher della seconda guerra mondiale”, come la si può ancora chiamare, è la sola autorizzata nelle scuole, nelle Università, sul mercato librario, nei tribunali, sulla stampa, al cinema e alla televisione. L’“Olocausto” o la “Shoah” sono diventati una religione, un commercio, un’industria.

Si chiamano revisionisti gli autori secondo i quali, in realtà, i Tedeschi non hanno mai sterminato né cercato di sterminare gli ebrei. Per questi autori, i Tedeschi non hanno fabbricato né utilizzato camere a gas o camion a gas allo scopo di uccidere gli ebrei. Infine, i revisionisti concludono dalle loro ricerche che il numero degli ebrei europei che, dal 1939 al 1945, sono morti, in realtà per fatti di guerra nonché per fame o in conseguenza delle epidemie, in particolare di tifo (a quell’epoca, il tifo era pressoché endemico nell’Europa dell’Est), non ha certamente mai raggiunto la cifra esorbitante di sei milioni ma, più probabilmente, quella di un milione, e ciò in un conflitto che, peraltro, ha causato immani carneficine e mietuto decine di milioni di vittime. Come in ogni guerra moderna, i civili sono stati colpiti tanto duramente quanto i militari. I bambini hanno pagato un pesante tributo. Molti bambini ebrei sono morti, mentre molti bambini tedeschi o giapponesi, essi, sono stati uccisi in modo atroce con il fuoco del fosforo o delle esplosioni nucleari. È sorta l’abitudine di dire che i bambini ebrei, perfettamente innocenti, sono stati deportati perché ebrei; alla stessa stregua, e per riprendere questa formula, bisognerebbe aggiungere che, perfettamente innocenti, i bambini tedeschi e giapponesi sono stati uccisi perché tedeschi o giapponesi.

Nel secolo scorso, negli anni ’50 e ’60, il più noto tra i revisionisti è stato il Francese Paul Rassinier. Le sue opere e la sua battaglia sono degne d’ammirazione, ma P. Rassinier, se ha studiato certi aspetti della Grande Menzogna, non ha voluto o non ha avuto il tempo di presentarne una sintesi. È morto nel 1967.



* * *



È nel 1976 che l’Americano Arthur Robert Butz ha pubblicato l’attesa sintesi. Questa sintesi è talmente poderosa da dissuadere, ancor oggi, qualsiasi autore revisionista dallo scrivere, a sua volta, una somma che potrebbe essere paragonata al “colpo da maestro” che The Hoax of the Twentieth Century rappresenta. Aggiungiamo, per fare buon peso, che il primo dei successori di A. R. Butz è A. R. Butz stesso. Infatti, i testi che ha, in seguito, pubblicato su certi aspetti particolari della questione completano, pezzo per pezzo, il suo capolavoro. In fondo, una delle prove migliori che The Hoax era, già nel 1976, una giusta sintesi dipende dal fatto che ciascuno dei saggi ulteriori prende posto in maniera del tutto naturale nell’insieme dell’edificio; nessuna di queste aggiunte ha obbligato ad una modifica della struttura generale, sia della tesi, sia del libro.



Per affrontare e sgominare il mostruoso tabù, ci volevano uno spirito ed un carattere d’eccezione.



A. R. Butz ha lo spirito di uno scienziato, di un analista dei testi e di uno storico al tempo stesso. Per formazione, è uno scienziato; la sua specialità è l’informatica d’alto livello. Nell’analisi dei testi, egli non è veramente uno specialista, sebbene un informatico sia spesso portato ad analizzare dei testi o dei documenti. Infine non è uno storico di professione (ci tiene a sottolinearlo) ma l’esperienza prova che, sul periglioso terreno che egli ha scelto, può far vergognare o fare invidia a tutti coloro, universitari o no, che si trovano ad essere degli storici di professione e che, per la maggior parte, hanno taciuto ed hanno lasciato che l’impostura storica si propagasse.



Quanto al carattere di A. R. Butz, è quello, alquanto particolare, di un uomo capace di gettarsi in un’impresa tra le più ardite ma con moderazione, prudenza e saggezza.



La sola somma delle conoscenze che egli ha accumulato nello spazio di tempo di circa cinque anni per realizzare la sua opera è impressionante. Egli ha saputo mettere ordine in questa ricca materia. Egli ha il talento espositivo. Egli possiede l’arte di convincere. Non per niente, al suo riguardo Pierre Vidal-Naquet scrive che A. R. Butz è “il principale ed il più abile revisionista”, aggiungendo:



[…] se bisogna dare un premio alla menzogna, dirò che il libro di Butz […] rappresenta a tratti una riuscita abbastanza spaventosa: il lettore è condotto persuasivamente per mano ed arriva a poco a poco all’idea che Auschwitz è una voce mirata, della quale degli abili propagandisti hanno fatto, a poco a poco, una verità. È questa la “buona novella” di cui Faurisson si è fatto maldestro evangelista. È Butz e non lui che potrebbe essere definito, con le parole di Zola, come l’“artefice diabolico dell’errore giudiziario”. Confutare Butz? È possibile, ben inteso, è addirittura facile, a patto che si conosca la documentazione, ma è una cosa lunga, è una seccatura. […] Quando un racconto di fantasia [come quello di Butz] è fatto correttamente, non contiene i mezzi per distruggerlo in quanto tale[1].



Si è tentati di paragonare A. R. Butz alla migliore delle guide possibili per un viaggio esplorativo in un mondo particolarmente ostile. Egli conosce il terreno. Nondimeno avanza con precauzione, contando i passi, come se, progressivamente, scoprisse questo terreno assieme a noi. Spesso si ferma e fa il punto della situazione. Prima di riprendere il cammino, egli consulta di nuovo mappa e bussola. Ancora una volta, ispeziona i dintorni, prevede le insidie, previene le nostre apprensioni, mai elude le nostre domande o le nostre obiezioni che, d’altronde, aveva manifestamente previsto. Ad esse fornisce una risposta sia immediata, sia differita; in quest’ultimo caso, ci promette di rispondere più tardi e, infatti, la risposta verrà a suo tempo ed in ora debita. Alla fine di ogni tappa – di ogni pagina o insieme di pagine –, ci sembra di udire la sua voce che ci sussurra all’orecchio: “Ho l’impressione che stiamo avanzando. Voltatevi verso l’ostacolo che appariva minaccioso. L’abbiamo superato. Pensavate di essere al buio e nella nebbia; vedete come la nebbia si dissolve e come l’orizzonte si schiarisce!” Alla fine, al termine dell’avventura – o della lettura –, è con sobrietà che questa guida, dotta e guardinga, prende congedo da noi. In poche frasi il bilancio è fatto e possiamo allora costatare che la promessa è stata mantenuta. All’inizio dell’avventura, in una breve dichiarazione priva d’affettazione, ci aveva annunciato ciò che avremmo scoperto; alla fine ci ricorda con una parola quest’entrata nella materia e si accontenta di aggiungere un tratto. È tutto. Ma vediamolo più da vicino.



Il titolo e, nelle edizioni successive, il sottotitolo della sua opera[2] hanno la stessa franchezza americana di una frase del capitolo III: “The thesis of this book is that the story of Jewish extermination in World War II is a propaganda hoax” (La tesi di questo libro è che il racconto dello sterminio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale è una mistificazione ad opera della propaganda). Con un tono altrettanto diretto aveva scritto nel primo capitolo: “La più semplice delle buone ragioni per essere scettici a proposito dell’asserito sterminio è anche la ragione più semplice da concepire: alla fine della guerra, erano ancora lì.”



Di primo acchito, sin dalle prime righe, l’autore ci aveva annunciato il suo gioco e, alla fine del suo libro, ecco che ce lo ricorda. Ci dichiara in qualche modo: “Questa versione così popolare della seconda guerra mondiale è menzognera. Essa non è che una variante delle storie strampalate di cui è intessuto il Talmud.” Nella versione rabbinica della storia della seconda guerra mondiale si osa presentare la sorte degli ebrei come quella di un popolo eccezionale che il suo dio, incredibilmente perverso, avrebbe scelto di sottoporre a sofferenze eccezionali; perciò questo dio perverso avrebbe deciso di abbandonare il suo “popolo eletto” a delle forze sataniche, quelle del nazionalsocialismo tedesco. Queste farneticazioni talmudiche non sono che deliri. Non sono storia, sono delle storie. Più precisamente si tratta di storie come se ne scoprono già a profusione nel Vecchio Testamento. E con simili invenzioni, anche in assenza di qualsiasi intenzione sordida, è raro non farsi soldi e pubblicità.



Nell’ultima pagina, A. R. Butz rammenta il “trattato del Lussemburgo” (1952), che fissava le colossali “riparazioni” finanziarie concesse agli ebrei dal governo di Bonn, per gli “atti criminali indicibili” presumibilmente commessi dal Terzo Reich contro i figli d’Israele; queste “riparazioni”, detto per inciso, dovrebbero durare secondo quanto previsto fino al 2030 e non costituiscono che una parte di ciò che il contribuente tedesco e le imprese tedesche versano a Shylock. A. R. Butz conclude che la sua opera ha mostrato che questi pretesi crimini sono “in gran parte una mistificazione e, in particolare, una mistificazione sionista”. Egli non è un uomo che pensa “ebreo” e scrive “sionista”. Se vuole mettere in discussione “gli ebrei”, dirà “gli ebrei” e se vuole dire “i sionisti”, scriverà “i sionisti”. Ora – qui sta una delle sue più precise dimostrazioni – egli ci prova che il mito dell’“Olocausto” è stato largamente fabbricato e lanciato da ambienti specificamente sionisti. Egli dimostra anche che la buffonata giudiziaria del processo di Norimberga è assai meno una creazione del governo degli Stati Uniti o del procuratore Jackson che d’influenti personalità, che erano dei sionisti e non semplicemente degli ebrei. Il nostro Americano ne conclude logicamente che, poiché c’è stata mistificazione sionista seguita da truffa, lo Stato d’Israele deve molti soldi alla Germania: “a lot of money”, scrive, da uomo che pratica la litote.



È concepibile che un Francese, un Europeo, giudichi un po’ rude questa franchezza americana ma, nel caso di A. R. Butz, quel tono è percettibile solo all’inizio ed alla fine del discorso che ci tiene. Quasi tutto il resto porta, al contrario, il segno di una dimostrazione lenta e serena.



L’opera del nostro revisionista è un’impresa di demolizione e di costruzione.



A. R. Butz uccide il mito dell’“Olocausto” e addirittura, per riprendere la parola inglese “overkill”, lo “uccide ad oltranza”. Egli demolisce, fino alle fondamenta, un edificio di menzogne che sono tutte una più assurda e pericolosa dell’altra. Ma pensa anche a tracciare a grandi linee il quadro di ciò che gli ebrei europei hanno realmente vissuto e sofferto. Egli ricorda le misure prese dai Tedeschi nei confronti di una minoranza che, spesso con ragione, giudicavano ostile e a volte consideravano addirittura come belligerante e i cui mezzi a livello internazionale erano per loro temibili. Egli dipinge la realtà di una politica che mirava ad una “soluzione finale territoriale” (territoriale Endlösung) della permanente “questione ebraica” (Judenfrage). Questa soluzione tendeva a trovare per gli ebrei di tutto il mondo, in mancanza del Madagascar, un territorio (che non fosse la Palestina); al termine delle prove subite, essa doveva consentire un “rinnovamento ebraico”; ma questa soluzione fu resa impossibile dallo svolgimento sempre più tragico della guerra mondiale. Egli rammenta la realtà delle soluzioni “provvisorie” consistenti nel rinchiudere gli ebrei in ghetti o, talvolta, in campi di concentramento, in centri di transito o in campi di lavoro forzato. Egli tiene costantemente presente una verità così elementare che si tende a dimenticare: “Durante la guerra, c’era una guerra.” La formula, intenzionalmente tautologica, è ricca di senso. È, infatti, prescindendo dalla guerra e dalle sue necessità che i Reitlinger, Hilberg e Dawidowicz hanno dato un’immagine completamente falsata del trattamento degli ebrei da parte dei Tedeschi dal 1939 al 1945. Questi autori shoahtici non hanno visto o non hanno voluto vedere che le autorità del Terzo Reich avevano avuto come prima preoccupazione quella di vincere la guerra economica e militare e non di prendersela con gli ebrei. Le principali misure adottate nei confronti degli ebrei si spiegavano con la necessità di garantire la sicurezza del soldato o del civile tedesco in tempo di “guerra totale” e con il bisogno vitale di acquisire una mano d’opera per quanto possibile abbondante. In seguito, se, nei campi in cui si trovavano questi ebrei, mescolati a dei non ebrei, erano stati costruiti dei crematori, era a causa delle epidemie che colpivano allo stesso tempo i Tedeschi e la loro mano d’opera, ebrea o non ebrea. È incredibile che questi autori ortodossi non abbiano nemmeno fatto menzione delle epidemie come motivo della costruzione dei crematori. Infine, chi dice guerra dice “orrori della guerra”. Di questa guerra, di questa crociata che tanti di loro avevano voluto, e di questi orrori, gli ebrei hanno pagato la loro parte. Siccome essi non sono stati i soli a soffrire degli effetti della seconda guerra mondiale, è assurdo, per uno storico dell’“Olocausto”, non rievocare realmente questa guerra del 1939-1945, che ha fatto tante altre vittime, anche, nel caso dei vinti, per molto tempo dopo la loro sconfitta. Giudicare “Auschwitz” non significa isolarlo come se questo campo si fosse trovato sul pianeta Marte, bensì ricollocare questo campo nella storia della guerra ed anche nella storia di tutti i campi di concentramento tedeschi, inglesi, francesi, americani, sovietici ed altri, prima, durante e dopo gli anni 1939-1945. Una visione giudeocentrica e fissata della storia degli ebrei non permetterà mai di capire quella parte della storia degli uomini.



In A. R. Butz, le capacità d’analisi sono certamente evidenti ma ciò che colpisce soprattutto è il suo spirito di sintesi. L’albero non gli nasconde mai la foresta. Il testo da studiare è sempre ricollocato nel suo contesto. Il senso della parola “contesto”, che purtroppo tanto si spreca, ha finito per prendere un’estensione tale che oggi designa troppo spesso delle considerazioni particolarmente vaghe e molto lontane dalla parola o dall’argomento oggetto dello studio. Per “contesto” il nostro autore, dal canto suo, intende innanzi tutto ciò che è più vicino all’oggetto della sua analisi. In primo luogo, si tratta per lui del contesto immediato (per esempio le parole che costeggiano la parola da studiare); poi, a mano a mano che procede, si tratta anche, in un computo completo, dei fatti, dei personaggi e dell’epoca da considerare. A questo titolo, si leggerà, per esempio, lo stupendo Allegato E su “Il ruolo del Vaticano”. È stata pubblicata una valanga di studi nel quadro della controversia che attiene a ciò che si chiama “il silenzio di Pio XII” sull’“Olocausto”. Invitiamo gli autori di tali studi a leggere quest’allegato. Essi prenderanno coscienza del fatto di non aver avuto, da parte loro, le capacità d’analisi e lo spirito di sintesi che hanno permesso ad A. R. Butz, storico, non professionista, di risolvere il falso enigma di questo silenzio. Perché, se Pio XII ha taciuto, durante la guerra e persino dopo la guerra, sullo sterminio degli ebrei e sulle camere a gas, è che queste ultime non sono esistite e che per lo meno il papa aveva dei dubbi sulla loro esistenza, il che è sufficiente a farne un “revisionista” a modo suo. Su ciò che non è esistito, e persino su ciò che non è potuto esistere, è normale tacere. Se un crimine è sicuramente o probabilmente di natura fantastica, non lo si denuncerà come se fosse realmente avvenuto. Perché accusare qualcuno di un crimine che non ha avuto luogo, equivale a mentire e calunniare, e, quando l’accusato è un vinto, significa perdere l’onore. Pio XII, a questo riguardo, non ha voluto né mentire, né calunniare, né perdere l’onore.



Nella maniera in cui conduce a volte il suo ragionamento A. R. Butz impiega una lentezza così sapiente che alcuni lettori possono esserne sconcertati. “Dove ci sta portando?”, penseranno. “Cosa significa questo brano che ha tutte le parvenze di una pura digressione?” “Quando ritroveremo il filo del discorso?” Il lettore americano sbufferà, se è abituato a letture confortevoli di “digest”. Il lettore francese, cui piace la sveltezza, si stizzirà. L’uno e l’altro avranno torto. Il nostro uomo, da parte sua, sa che “chi va piano va sano e va lontano”. D’altronde, A. R. Butz è dotato di questo potente senso dell’umorismo anglosassone cui si confà una certa lentezza insopportabile agli spiriti latini.



Prendiamo un esempio di questo lungo e lento ragionamento che, nel 1975-1976, ha portato l’autore ad una conclusione particolarmente ardita e vediamo sotto quale forma provvidenziale un evento verificatosi qualche anno dopo, nel 1979, è venuto a fornire una conferma spettacolare del genio dialettico di A. R. Butz.



Verso la fine del capitolo II, una sezione del libro è dedicata al ruolo industriale di Auschwitz. L’autore indugia in considerazioni tecniche sulla benzina sintetica e la gomma sintetica. Quando non ci parla di “polimerizzazione” o di “vulcanizzazione”, c’intrattiene su “butadiene” e “sodio”. Il lettore può impensierirsi. S’interroga: ha forse a che fare con un saccente? S’imbatte forse qui in quell’estrema forma di dissennatezza che è la stupidità accademica o da politecnico? È quella di un asino calzato e vestito? Si trova forse all’improvviso faccia a faccia con uno di quei pedanti che sono così poco padroni della loro materia da dover far sfoggio di una scienza presa a prestito? Comunque lo si voglia vedere non è affatto così.



L’inizio del capitolo seguente tratta della crisi della gomma negli Stati Uniti nel 1942. Il 7 dicembre 1941, a Pearl Harbor, la maggior parte della flotta americana del Pacifico è stata improvvisamente distrutta. Di colpo, l’Oceano Pacifico è diventato come un mare giapponese. Dall’oggi all’indomani, gli Americani si vedono tagliare la via della gomma proveniente dalla Malesia e dalle Indie orientali. Devono intraprendere urgentemente delle ricerche per fabbricare della gomma sintetica. Ora, qual è a quell’epoca il paese più progredito del mondo in questo campo? La risposta è la Germania. E, s’interroga l’autore, in che zona della Germania si sviluppa maggiormente questo tipo di ricerca? La risposta è, questa volta, Auschwitz. È ad Auschwitz, città dell’Alta Slesia (che sarà, dopo la guerra, annessa dalla Polonia), che si trova un importante complesso industriale dove si fabbrica della benzina sintetica e dove si cerca di mettere a punto un’industria di questo tipo di gomma sintetica che si chiama “buna” (parola composta da “butadiene” e da “Na”, simbolo del sodio).



È allora che A. R. Butz ha l’ardire di concludere che gli Americani hanno certamente rivolto la massima attenzione ad Auschwitz, tanto per la produzione di benzina sintetica quanto per i tentativi di produrre la gomma sintetica. Spingendo oltre la sua audacia, egli dedica tutta una trattazione alla vigilanza o allo spionaggio per mezzo della fotografia aerea. Egli afferma che, vista la qualità delle fotografie aeree dell’epoca, i servizi informazioni americani, desiderosi di sapere che cosa succedeva realmente ad Auschwitz, hanno di solito dovuto ricorrere a questa fonte d’informazioni oltre a tutti gli altri mezzi a loro disposizione. Egli aggiunge che, fino ad oggi (1975), queste fotografie non sono state rese pubbliche. Ne conclude che, se, in quel campo, nel 1942, fosse stato realmente messo in atto un abominio che andasse oltre ogni orrore e se vi fosse stata condotta un’impresa così straordinaria come un programma industriale di sterminio fisico degli ebrei, i servizi informativi dell’esercito americano non avrebbero potuto fare a meno di saperlo. Per completare il pensiero dell’autore su questo punto, precisiamo che ciò che egli dice, qui, del 1942 vale tanto più per gli anni 1943 e 1944. Se, durante la guerra, le fotografie aeree avessero avvalorato la voce dell’esistenza e del funzionamento di enormi “officine di morte”, esse sarebbero state immancabilmente pubblicate. Se, ancora trent’anni dopo la guerra erano tenute segrete, significa che esse non confortavano tale voce.



Nel febbraio 1979, ovvero quasi tre anni dopo la pubblicazione del suo libro, che aveva suscitato seri scompigli, in particolare presso la comunità ebrea americana, A. R. Butz aveva la soddisfazione di vedere la CIA pubblicare infine… delle fotografie aeree di Auschwitz[3]! Queste fotografie provavano che Auschwitz non era mai stato altro che un insieme di campi di concentramento, accanto ai quali i Tedeschi avevano sviluppato un vasto complesso industriale. Gli edifici dei crematori non erano nient’altro che banali. Erano circondati da spazi verdi in buono stato, ben disegnati e non c’era traccia che fossero stati calpestati da folle di persone che, sembra, avrebbero atteso all’esterno per penetrare negli edifici dei crematori per esservi gassati, poi cremati. Non si vedeva nessuna fila d’attesa in prossimità. Non c’era nemmeno il minimo cumulo di carbone o di coke che sarebbe stato necessario per cremare, a quanto si dice, migliaia di vittime al giorno. In particolare, due di questi edifici, lungi dall’essere dissimulati, si trovavano vicinissimi al campo di calcio degli internati. Le fotografie mostravano quando e come la vasta zona industriale era stata bombardata dall’aviazione alleata e perché i campi stessi non erano stati presi di mira. Se questi campi fossero stati intenzionalmente bombardati, gli internati sarebbero stati uccisi in gran numero proprio perché essi erano “concentrati” ed i sopravvissuti non avrebbero più avuto a disposizione dormitori, latrine, docce, lavatoi, cucine, infermerie, né un riparo. Una volta distrutti i crematori, i cadaveri sarebbero rimasti sul posto in una zona in cui, essendo la falda freatica molto elevata, le inumazioni erano impraticabili. Il tifo allora avrebbe mietuto il doppio delle vittime. (Si scoprirà, in fin dei conti, che il numero delle missioni aeree degli Alleati sopra Auschwitz tra il 27 dicembre 1943 ed il 14 gennaio 1945 era di trentadue.)



Questa pubblicazione delle fotografie aeree confermava la tesi di A. R. Butz. E ciò tanto più che nel 1979 i due autori della pubblicazione corredavano dette fotografie di frecce indicanti le zone degli “spogliatoi” (sic) e delle “camere a gas” (sic). Qualsiasi lettore dotato di un minimo di senso critico non poteva far altro che scoppiare a ridere dinanzi a tanta ingenuità o furberia da parte di questi due dipendenti della CIA. In definitiva, A. R. Butz aveva avuto tanta ragione che i suoi avversari, per replicare a lui, erano ridotti, lo si vede, a delle pure bambinate.



Su molti altri argomenti l’autore ha manifestato la stessa chiaroveggenza. Nel 1982, egli ha tenuto una conferenza di cui si trova qui la trascrizione[4]. In un’ampia esposizione egli vi enumera una serie di semplici constatazioni che vengono a rafforzare la sua tesi. Ma, nell’introduzione, egli ha l’idea assennata di rammentare, a titolo di precedente nella storia delle grandi mistificazioni, il testo della “donazione di Costantino”, che si pretende sia stato scoperto nel IX secolo. Egli lo fa per descrivere come, in passato, un enorme raggiro, d’importanza capitale per gli interessi del papato, avesse potuto infine essere svelato da Lorenzo Valla nel XV secolo (Contra donationis, quae Constantini dicitur, privilegium ut falso creditum est et ementitum declamatio). L’imperatore Costantino, autore, nel 313, dell’editto di Milano, non aveva, in realtà, mai fatto donazione dell’impero romano al papato. Il testo della donazione non era che un falso, tutto sommato veramente grossolano. Le menzogne storiche di questo genere non dovrebbero trarre in inganno nessuna persona sensata, ma perdurano perché un tipo di potere o di società ne ha bisogno; non appena la necessità di tali menzogne non si fa più sentire, esse possono scomparire. D’altronde, A. R. Butz ricorda che, sovente, chi si sforza di svelare una tale menzogna accumula un mucchio di argomentazioni di valore ineguale, mentre sarebbero bastate poche, precise argomentazioni. Dopo questo lungo preambolo, egli ritorna al centro della sua materia. Egli enumera allora le semplici ragioni, otto, per le quali il preteso sterminio degli ebrei non è potuto avvenire. Riassumiamo: se, in piena Europa, nel giro di tre anni, i Tedeschi avessero ucciso così tanti milioni di ebrei, un fenomeno così straordinario non sarebbe potuto passare inosservato. Ora, il Vaticano non ha visto questo prodigio. Il Comitato internazionale della Croce Rossa non l’ha notato. La Resistenza tedesca non l’ha menzionato. Gli ebrei europei non disponevano di nessuna informazione in proposito e non credevano veramente alle voci vaghe, assurde e cacofoniche che circolavano qua e là su uno sterminio fisico di proporzioni industriali. Gli ebrei dal di fuori (Stati Uniti, Palestina, organismi ebrei internazionali, ecc.) non dimostravano di prestar fede ai racconti allarmanti che propagavano. I governi alleati si comportavano allo stesso modo. È qui che A. R. Butz pone quella che si può chiamare la sua storia dell’elefante miracoloso. Essa merita di essere citata:



Si esige da noi che crediamo che questi “avvenimenti delle dimensioni di un continente dal punto di vista geografico, della durata di tre anni dal punto di vista temporale e di parecchi milioni dal punto di vista numerico delle vittime” siano tutti accaduti, senza che nessuna delle parti in causa ne abbia avuto conoscenza. Come se mi si raccontasse che, pur non avendo scorto alcun elefante guardando nella mia cantina, esso vi si trovava comunque. E anche mentre mi trovavo seduto nel mio salotto, non ho notato che l’elefante aveva trovato il modo di salire al piano e di sollazzarvisi per un po’: le scale, le porte, i pavimenti essendo all’improvviso diventati, per miracolo, compatibili con tali attività. Poi l’elefante si era precipitato fuori in una quartiere commerciale in piena attività, in punto a mezzogiorno, e in seguito aveva camminato per qualche miglio fino al suo zoo, ma nessuno se n’era accorto.



In conclusione, se il genocidio degli ebrei fosse esistito, per lo meno otto istanze non avrebbero potuto non accorgersene; ora nessuna se n’è accorta; dunque questo genocidio non ha potuto avere luogo. Ostinarsi ciò nondimeno a credere nella sua realtà sarebbe come prestar fede alle otto enormità contenute nella storia di quest’elefante. Una breve storia che la dice più lunga di un lungo discorso!



***



The Hoax ha accusato delle imperfezioni. Per cominciare, la prima edizione si era presentata sotto un’apparenza sgradevole. In mancanza di denaro era stato necessario scegliere una carta di qualità scadente e stampare il testo sotto una forma troppo compatta e con caratteri tipografici troppo piccoli. L’insieme sembrava tanto più indigesto, in quanto i sottotitoli erano troppo rari. Nulla veniva ad illuminare il lettore con dei segni o delle indicazioni che gli avrebbero permesso di procedere più facilmente nella dimostrazione. Lo stile era privo di grazia ed il vocabolario privo di ricerca; l’autore ne conviene, d’altronde, come lo si vedrà nella prefazione a quest’edizione francese che, dal canto suo, è la prima ad essere dotata di sottotitoli abbastanza numerosi.



A. R. Butz qualifica la sua analisi come “orizzontale”, in contrapposizione all’analisi “verticale” condotta da altri revisionisti. Egli vuol dire, a giusto titolo, che ha tenuto sott’occhio l’insieme dell’argomento, mentre altri revisionisti hanno preso in considerazione solo certi aspetti dello stesso argomento. Prendendo ad esempio la pretesa camera a gas nazista, egli ammette che, nel suo libro, quell’aspetto dell’“Olocausto” non ha attirato troppo la sua attenzione. Egli arriva al punto di dire che chi s’interessa a tale questione potrebbe fare a meno di leggere il suo libro. Allo stesso tempo, egli non immagina che una persona seria possa avventurarsi nella controversia sulle camere a gas senza avere prima preso, nel suo libro, visione generale dell’interpretazione revisionista dell’“Olocausto”.



Questa distinzione tra analisi “orizzontale” ed analisi “verticale” è un po’ troppo astratta. Quando il suo autore analizzava il tipo di gomma sintetica che i Tedeschi cercavano di fabbricare, quando ci intratteneva sulla polimerizzazione o la vulcanizzazione, quando ci spiegava la combinazione di butadiene e sodio nella buna, non era forse in “verticale” piuttosto che in “orizzontale”? Non sarebbe forse giusto dire che, in tutto il suo libro, che costituisce una sintesi che non ha eguale, l’autore ha condotto nondimeno una serie di esami particolari che possono essere qualificati come “verticali”? Viceversa, il ricercatore che decide di affrontare il vasto tema dell’“Olocausto” dall’ottica, innanzi tutto, della sola camera a gas nazista, non lavora forse veramente solo in “verticale”? Non sarebbe forse altro che l’analisi di un aspetto particolare? Non avrebbe forse, anch’egli, a modo suo, una visione “orizzontale” e sintetica dell’“Olocausto”? Se si giudica partendo dal mio caso, io ho preso conoscenza della sintesi del nostro Americano (1976) solo dopo aver letto Rassinier all’inizio degli anni ’60 e dopo aver deciso, considerando la massa gigantesca della Grande Menzogna, che l’avrei attaccata dall’angolazione più fragile: quella della magica camera a gas. Per me, The Hoax non ha avuto il ruolo di lettura d’iniziazione; non ha avuto che il valore di una provvidenziale conferma. Scorgendo quel colosso che è la Grande Menzogna, ho ben presto notato che aveva i piedi d’argilla ed è dunque su questo punto debole che ho deciso di concentrare i miei attacchi. Sicuramente, in questa battaglia, lo spettatore che, dal canto suo, non ha visto i piedi d’argilla, si stupirà del mio accanimento nell’inferire i colpi come raso terra. Crederà che io abbia la vista bassa. Non è affatto vero. Io avevo proprio preso le misure totali del mostro. E, d’altronde, come avrebbero potuto sfuggirmi le sue formidabili proporzioni? In verità, ravvisando quello che ho ritenuto essere il suo punto debole (quelle fumose “camere a gas”), è ad esso che, per cominciare, ho riservato i miei colpi. Chi affronta Achille deve, come Paride, mirare al tallone.



Ma basta con le immagini ed i paragoni! A. R. Butz ha voluto provare che “il crimine senza precedenti” (il genocidio) imputato al vinto dal vincitore non era avvenuto mentre altri revisionisti, scegliendo una via diversa, hanno voluto dimostrare che “l’arma del crimine senza precedenti” (la “camera a gas”) non era esistito. Se questo crimine è immaginario, ne consegue che non c’è nemmeno più bisogno di aggiungere che anche l’arma lo è. Viceversa, se quest’arma è immaginaria, anche il crimine lo è. Il risultato è identico e solo i metodi per raggiungerlo sono stati differenti.



La potente intelligenza di A. R. Butz è forse troppo astratta. Il solo campo di concentramento che l’autore di The Hoax abbia mai visitato in vita sua è quello di Dachau. Riguardo alla pretesa camera a gas omicida di questo campo, egli non ha scritto quasi niente se non che, secondo l’opinione stessa degli accusatori, quest’ultima, “mascherata da stanza delle docce”, non sarebbe stata ultimata e, di conseguenza, non sarebbe servita.



Questa stessa indifferenza verso certe contingenze materiali (non tutte!) si notava altrove. Tra le argomentazioni essenziali che si possono invocare per dire che le camere a gas naziste non hanno potuto esistere se non nell’immaginazione, c’è, mi pare, l’argomentazione dell’esistenza, ben reale questa, della camera a gas d’esecuzione dei penitenziari americani. Basta vedere una camera a gas americana e studiarne il funzionamento per rendersi conto che la supposta camera a gas nazista ed il suo supposto funzionamento non sono che punti di vista teorici. Ora, A. R. Butz è americano. Come mai non ha utilizzato quest’argomentazione? Perché, non contento di non studiare da vicino nessuna pretesa camera a gas “nazista”, non si è informato su nessuna camera di un penitenziario del suo paese? Se lo avesse fatto, si sarebbe subito reso conto a che punto sia temibile procedere all’esecuzione di un detenuto con del gas cianidrico (caso del pesticida Zyklon B) senza gassare se stessi. Egli avrebbe visto che niente è pericoloso come penetrare nella camera a gas americana dopo l’esecuzione e quanto il cadavere sia diventato intoccabile, salvo che con precauzioni drastiche. Egli avrebbe costatato che solo un macchinario sofisticato può evitare il peggio al medico e ai due assistenti, che, muniti di guanti, stivali di gomma, provvisti di maschere a filtro speciale, dovranno penetrare nella camera a gas per manipolarvi un cadavere rimasto pericoloso. Egli avrebbe visto che i racconti di membri del Sonderkommando che penetravano nelle camere a gas “naziste” per manipolare con noncuranza, senza maschere antigas, centinaia o migliaia di cadaveri cianurizzati, sono grotteschi. Allo stesso modo le “confessioni” di Rudolf Höss ai suoi carcerieri crollavano e, con esse, molte altre “confessioni” nonché “testimonianze”, “memorie”, “prove”, “processi”, in breve, tutto ciò che costituiva la base dell’edificio della Grande Menzogna.



Ritorniamo alla “donazione di Costantino”. I “revisionisti” alla Lorenzo Valla avevano dunque ritenuto necessario invocare cento argomentazioni al fine di provare l’imbroglio. Ora, sarebbe bastata un’argomentazione sola, ma così modesta, così derisoria, così bassamente materiale da osare a mala pena dichiararla: infatti, una sola monetina romana bastava a provare che dopo Costantino l’impero romano aveva avuto a capo altri imperatori e non un papa qualunque. In realtà, mucchi di numerario con l’effigie dei veri e propri successori di Costantino provavano che il testo della troppo famosa donazione, “scoperto” nel IX secolo, non poteva essere che una frode. Il più umile dei numismatici aveva in mano la prova, materiale ed irrefutabile, dell’intera mistificazione. Nessuno di questi pezzi recava l’effigie di un papa: tutti recavano l’effigie di un imperatore. Allo stesso modo, oggi, basta avere gli occhi ed un minimo di conoscenze pratiche per vedere che la pretesa camera a gas, che a Auschwitz, capitale dell’“Olocausto”, si fa visitare a folle di turisti e di pellegrini, non è altro che una camera a gas Potemkine. Quanto alle altre pretese camere a gas “naziste”, o non si visitano più, oppure ci spiegano che non essendo state ultimate, non hanno fatto in tempo a servire. Nessuno storico osa più mostrarci un disegno, un plastico, una qualsiasi rappresentazione di quest’arma diabolica. A volte, Candido s’immagina di scorgere da lontano l’introvabile “camera a gas” in questione: le si avvicina; essa sparisce dalla sua vista: non era altro che un miraggio. La pretesa camera a gas “nazista” è in qualche modo l’Arlesiana della storiografia ebraica. Io dirò quindi, per concludere, che A. R. Butz, non scorgendo la preziosa argomentazione che aveva a portata di mano, mi fa pensare, in questa circostanza, ad un Lorenzo Valla che non avrebbe visto la moneta romana che aveva in mano e che pure gli permetteva di uccidere e addirittura di “uccidere ad oltranza” (overkill) la menzogna storica che egli cercava di combattere.



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Non si abbia il sospetto che queste riserve intacchino la mia stima per l’opera e per l’uomo. Costruita con calce e cemento, l’opera sopravvivrà indubbiamente al suo autore. Sarà forse ciò che Tucidide chiamava un “dato acquisito per sempre” (ktêma es aei)? Meriterebbe di esserlo. In più di un quarto di secolo non si è trovato alcuno storico per tentarne la confutazione. Nell’inesauribile marea delle pubblicazioni antirevisioniste, nemmeno un’opera, nemmeno un articolo fornisce la risposta a quest’eccezionale opera di riferimento che è diventata, per lo studio del revisionismo storico, The Hoax of the Twentieth Century.

Purtroppo, la mistificazione che i revisionisti hanno attaccato ha la sicurezza di vivere ancora giorni belli e sinistri nel XXI secolo. Non si riesce a vedere come un potente cervello, fosse pure quello dell’Americano A. R. Butz, potrebbe venire a capo di un’impostura così colossale come quella del preteso “Olocausto” degli ebrei. Degli eventi che non dipenderanno né dalla volontà dei ricercatori né dalla qualità dei loro lavori saranno i soli a decidere il momento in cui quest’impostura avrà fine.

Ci si può ancora chiedere se un credo di questo tipo avrà mai fine. La sua natura è sempre più religiosa. La religione dell’“Olocausto” o della “Shoah” tende, presso gli ebrei di oggi, a dare il cambio alla Torah e al Talmud. Essa è sacra. Essa serve allo stesso tempo Dio, Mammon, il Vitello d’oro, l’eterna collera degli ebrei e la loro inestinguibile sete di vendetta. La società dei consumi e la sua ricerca del profitto vi si adattano idealmente. Né questa società, né questa religione danno, per il momento, il minimo segno di stanchezza.

Ventisei anni. Sarà stato necessario attendere ventisei anni (1976-2002) perché esca in francese The Hoax of the Twentieth Century. Non è perché non si sia tentato, per più di un quarto di secolo, di mettere a disposizione del pubblico di lingua francese l’opera magistrale dell’Americano Arthur Robert Butz. Ogni volta, la mancanza di denaro e di mezzi materiali, senza contare le vicissitudini legate alla repressione, hanno intralciato questi sforzi. Oggi, infine, l’opera ci giunge in francese, ma è stato necessario pubblicarla all’estero. La nuova Inquisizione sta all’erta presso la feritoia. “Un’insopportabile polizia ebraica del pensiero” (come la chiamava l’intellettuale ebrea scomparsa Annie Kriegel) monta la guardia. Ogni anno con l’uscita di nuovi scritti revisionisti, essa allunga l’elenco del suo Index Librorum Prohibitorum.



Il revisionismo storico è decisamente la grande avventura intellettuale del nostro tempo.



Robert Faurisson, 22 ottobre 2002











[1] Les Assassins de la mémoire, La Découverte, Parigi, 1987, pagg. 13, 74.

[2] The Case Against the Presumed Extermination of European Jewry (“L’argomentazione contro il presunto sterminio degli ebrei d’Europa”).

[3] Dino A. Brugioni e Robert G. Poirier, The Holocaust Revisited : Analysis of the Auschwitz-Birkenau Extermination Complex, Central Intelligence Agency, Washington, 19 pagg.

[4] V., infra, “Contexte historique et perspective d’ensemble dans la controverse sur l’‘Holocauste’”, pagg. 517-560.



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The Hoax of the Twentieth Century , non ancora tradotto in lingua italiana, è disponibile in lingua francese presso:

Nuovo Ordine Europeo Via dei Navali n. 35 - 34144 Trieste

Dello stesso autore è disponibile presso l'editrice Graphos ( Graphos, Campetto 4, 16123 Genova E-mail: graphos@graphosedizioni.it - http://www.graphosedizioni.it/ )

Vedi nota [4] Arthur R. Butz Contesto storico e prospettiva d'insieme nella controversia dell' "Olocausto" Ed. Graphos 1999 - 8° - br. - 80 pp. - Euro 11,37