Non sono una nazione, perché composti, come la vecchia Austria-Ungheria, da una miriade di nazionalità diverse. Non sono nemmeno uno Stato secondo la dottrina classica, europea e hegeliana, mancando del concetto di "governo politico". Gli Stati Uniti non hanno un governo, ma un'amministrazione. Mancano, cioè, della necessaria sensibilità per i valori culturali della comunanza, ciò che rende uno Stato il terminale decisionista di una visione del mondo e di una volontà solidaristiche. Sono un Impero? Lo dicono in molti. Io non lo credo. Per essere Impero non bastano le armi e la voglia di fare bottino. Occorrono requisiti che mancano agli USA: ad esempio, una sacralità, una civiltà, una tradizione, uno straccio di cultura. E niente interessi privati fatti passare per "democrazia".
Allora sono una "ideocrazia"? Così la pensa Costanzo Preve, che nel suo libro L¹ideocrazia imperiale americana. Una resistenza possibile, mette gli USA accanto al leninismo, all'hitlerismo e al sionismo, come esempi di concezioni del mondo espansive e invasive, incentrate su un'idea-guida. A dire la verità, le cose sono più complesse. Il nazionalsocialismo, ad esempio, come ben sanno gli storici, non era certo universalista e neppure manifestò mai neppure nel Mein Kampf l'idea di "dominare il mondo": una cosa era la nazione-Germania, che rivendicava il suo ruolo entro uno spazio geo-storico ben preciso e limitato all'Europa continentale; e un'altra cosa era il mondo "ariano" - in cui venivano fatti rientrare a pieno titolo i popoli anglosassoni - destinato a perpetuare la propria leadership mondiale. Nel comunismo, nel sionismo e nell'americanismo, invece, effettivamente sono presenti quelle cellule di missionariato e di "evangelizzazione" universale, che ne accomunano le diverse impostazioni in un affine disegno di perpetuo espansionismo, a metà strada tra il coloniale e il rieducatorio.
L'Impero universale americano non è quello di Dante. È il collettore storico di arcaiche e modernissime fantasie progressiste, che vanno dal millenarismo biblico- puritano che è alla base del potere capitalisticofinanziario americano, fino alle illusioni egualitariste e pacifiste del post-marxismo, che sono alla base del potere mediatico e di costume delle "sinistre": l'uno e l'altro, assemblati in un grottesco abbraccio che anche Preve attribuisce all'appeal del capitalismo, che è anti-conservatore per natura, e che per natura divulga la fede fanatica nel "progresso permanente". Questa è la sostanza di quel recitativo di finto antagonismo tra potere mondializzato e sedicente controcultura no-global, che esprime invece le due facce di un unico sistema: globalizzazione dall'alto contro globalizzazione dal basso. In ogni caso: globalizzazione. Vale a dire: dittatura planetaria del potere finanziario, disintegrazione delle appartenenze e delle culture, omologazione universale, fine della possibilità che ogni gruppo umano possa dirsi libero protagonista del proprio destino.
E questo è il raggiungimento di quei fini universalistici, egualitaristici, cosmopoliti che, in diversa misura, albergano nel marxismo, nel liberismo, nel sionismo. Supremo simbolo di questo avvilupparsi di varie membra in un unico corpo, è la mano trozkijsta che guida il turbocapitalismo di Washington.
Oggi, nel cosiddetto "Occidente", il processo di mondializzazione non è revocato in dubbio da nessuno. E infatti, ogni giorno noi vediamo il post-marxista sottoscrivere le linee generali della tendenza monocratica e omologatrice, con la medesima convinzione del perfetto liberal. I frequenti connubi tra vecchi arnesi del sovietismo e nuovi liberalismi sono la sfrontata riprova di un patto che rimonta a ben prima dell'alleanza Est-Ovest praticata nella Seconda guerra mondiale: unico è il gene da cui sono fuoriusciti l'uovo industrialista e quello marxista. Unica la fiducia maniacale nel progresso, nell'espansione illimitata, nelle proclamazioni universali. Unica la quacchera volontà di convincere, inculcare, male che vada coartare le coscienze con buone dosi di democratica violenza, al fine di "redimere", "rieducare", "correggere", tutti gli uomini del globo, ovunque si trovino, nessuno escluso. E guai a nascondersi. Preve, che è un marxista intelligente e atipico, si permette alcuni distinguo. Giustamente denuncia la vocazione utilitarista e individualista dell'americanismo. E certo fa bene a individuare i luoghi del filo-americanismo nel borghesismo, nell'intellettualità- chic, in certo popolarismo di massa e in certo diffuso sinistrismo. E, altrettanto bene, vede come politicamente inefficaci la demonizzazione fideistica dell'America e i ghetti del marginalismo da "centro sociale". Preve avverte che è gran tempo di superare la strumentale suddivisione "destra-sinistra", che da sempre lavora per il "centro". E, tuttavia, attribuisce egli stesso a "destra" e "sinistra" gli stereotipi borghesi di cento e più anni fa: la prima guarda al passato, la seconda al futuro. Ma non è così che ragiona da sempre il liberale?
I modelli storici della "destra" nazionale-popolare sono davvero così passatisti? E che dire del Futurismo, del Sansepolcrismo, della modernizzazione sociale operata dal Fascismo, dell'ideale dell¹uomo nuovo, dello svecchiamento della sclerotica società ereditata dal liberalismo, dell'umanesimo del lavoro, della civiltà della tecnica dominata dall'uomo, della socialità di popolo? Non fu per De Felice proprio il Fascismo un esempio di modernizzazione e di civiltà delle masse? E sono proprio inattuali, nella loro linea di fondo, quelle esperienze, che solo il calcolo politico immediato e il servilismo morale giudicano "bruciate"? Sottrarre al Fascismo e alla "destra" radicale l'idea comunitaria come prova a fare Preve, per renderla appetibile alle ormai incolte "sinistre" mondializzate - è operazione mediaticamente comprensibile, ma storicamente e ideologicamente incongrua.
Meglio, molto meglio relativizzare tutto il discorso. Scendendo dalle idealizzazioni un inesistente nuovo comunitarismo -, volgiamoci al concreto, guardiamo intorno a noi. Parliamo di Europa. Qui il senso della comunità è carne e sangue da diversi millenni, senza l'intercessione di alcun politologo. Anche di questo parla Alain de Benoist nel suo L'Impero del "bene". Riflessioni sull'America d'oggi. È una raccolta di scritti edita ancora da Settimo Sigillo e che fa parte come il libro di Preve della collana "Strumenti e materiali per lo studio dell'americanismo", curata dallo studioso di sociologia Carlo Gambescia. Qui, dopo interi affreschi di "civiltà" americana avvolta nell'ipocrisia universalista, nel monoteismo intollerante, nella pratica genocida come effetto della tara messianica, si parla finalmente di Europa: o l'Europa si allinea radicalmente all'America, e quindi sparisce nella sua stessa miseria morale e impolitica, oppure, come scrive de Benoist, "punta su una logica di approfondimento delle sue strutture di integrazione politica per mezzo del federalismo e della sussidiarietà, in una prospettiva essenzialmente continentale e con l'intenzione di bilanciare il peso degli Stati Uniti".
L'Europa può tornare a far scorrere liberamente nelle sue vene il senso della moderna comunità popolare, dell'antica e sempre rinnovata appartenenza sociale e geo-storica, se solo si dota di élites politicamente e culturalmente europee, e non americanizzate. Lo stesso capitalismo può essere utilmente composto e regolato entro alvei di benefica organicità col politico. Non si dovrebbero più patire avvilenti mimetizzazioni, se interi spezzoni di storia sociale europea di cui il Fascismo, piaccia o non piaccia, si possa o non si possa dire, è stato in larga parte artefice potessero un domani tornare a incidere sul reale. Ma, per questo, occorrerà un'Europa libera da catene psicologiche e da ricatti di potere.
Gli aziendalisti della governance USA si fanno inquieti, ogni volta che sentono parlare di politica, di comunitarismo, di socialità. Fanno guerre di terrore per far piazza pulita di questi indici di indipendenza e di sano, umano particolarismo. In questo senso, fin dall'inizio, in loro, come scrive, de Benoist, c'è la volontà di "regolare i conti con l'Europa". Quello americano è un "Impero" fondato su un mediocre prontuario predicatorio che, come dice Preve, si regge sulla capacità di "manipolare una massa amorfa di plebei disinformati". In fondo, l'Europa ha fermato ai suoi confini ben altri Imperi, che non quello gestito dai miliardari analfabeti di New York. Troverà il modo, se non rinnegherà se stessa, se non venderà la sua anima ai mercanti, di scrollarsi di dosso anche questo.


Testi di riferimento:
Costanzo Preve L'ideocrazia imperiale americana. Una resistenza possibile Edizioni Settimo Sigillo, 2004, Roma
Alain de Benoist L'Impero del "bene". Riflessioni sull'America d'oggi Edizioni Settimo Sigillo, 2004, Roma