Ernesto Rossi (1897-1967) e Carlo Rosselli (1899-1937) sembrano oggi personaggi remoti: interventisti democratici, formati negli ambienti liberali fiorentini, l'uno per ispirazione di Salvemini, l'altro in collaborazione con Gobetti. Tutte cose che sanno d'esame di maturità di vent'anni addietro. Rosselli che organizza l'espatrio clandestino di Filippo Turati; processato (a Savona) con Ferruccio Parri; confinato (a Lipari), fugge con Emilio Lussu, ripara in Francia, accorre nella guerra di Spagna, è ferito; convalescente lo raggiungono i colpi dei sicari fascisti. E che dire di Ernesto Rossi? Mutilato della prima guerra; arrestato per delazione d'un agente dell'Ovra; al confino a Ventotene! Si direbbe, con Gozzano, che si tratta di «... fiabe defunte delle sovrapporte». Eppure se guardiamo alla loro principale creatura politica, «Giustizia e Libertà», al di là della retorica evidente del nome, possiamo cominciare a comprenderne la dimensione attuale. Fondata nel '29 come organizzazione clandestina antifascista, con un programma di azione immediata, stroncata dai processi del '30, muta la propria azione per un obbiettivo a lungo termine: non la semplice restaurazione del «gioco liberale» pre-fascista, ma l'instaurazione di una Repubblica, fondata sulle autonomie locali, e una costituzione sociale. È il programma stesso della nostra Costituzione odierna, che, se è stata figlia di un progetto, questo è stato quello di «Giustizia e Libertà». Un progetto molto forte, nella nostra storia recente, che ancora ci governa. Ed è stato intorno a esso, che cattolici e marxisti hanno potuto trovare i «loro» compromessi. Per cogliere, dunque, l'attualità, ma anche alcuni limiti, di questo pensiero, occorre contrapporre l'azione e la fine eroica di Rosselli, al lungo sopravvivere di Rossi a se stesso: «the bang, and the whimper». Dico «sopravvivere» perché se anche Rossi morì a settant'anni, la seconda parte della sua vita si svolse in un'epoca non più sua. Infatti, dopo una fugace apparizione come sottosegretario nel governo Parri, egli limitò la propria attività a quella del «moralista politico», dalle pagine del Mondo. Un moralismo che rappresenta di per sé un limite politico del suo pensiero. In tale lunga serie di articoli Rossi si batte contro: la corruzione amministrativa, lo strapotere clericale, le sopravvivenze del fascismo, l'invadenza dei grandi potestati finanziari. Sempre, però, con l'atteggiamento del buon padre di famiglia, che non capisce perché il mondo sia malvagio. Mai cogliendo, dunque, la dimensione di package, di confezione politica di quei fenomeni. E questo deriva da un difetto d'origine del liberalismo sociale italiano: un Rosselli che vuole aiutare i socialisti di sinistra, ma non essere coinvolto nelle strategie leniniste di egemonia, di cui quei socialisti erano pedina principale; Rosselli che vuol difendere la proprietà privata dei mezzi di produzione, e crede che il benessere degli operai derivi dalla buona volontà dei borghesi. Insomma un movimento di «brave persone», che alla fine a tutti piace, perché nessuno disturba. In realtà bisogna qui cogliere che il package contro cui Rossi lottava era il risultato dell'arrangement fra la sinistra Dc e la sinistra socialista: la debolezza amministrativa dello Stato, che consentiva tanto lo strapotere clericale, quanto, in contrappeso, l'invadenza di certi potentati finanziari, e industriali; l'invadenza partitocratica nella pubblica amministrazione, come avanzamento progressivo e graduale della sinistra cattolica e socialista, e in contrappunto certe sopravvivenze fasciste (il questore Guida di Milano, e così via). Cioè la centralità stessa della Dc, e della sinistra Dc al suo interno, si costruiva proprio sui difetti dell'apparato statale, come strategia di dominio e di legittimazione politica. E lo stesso avveniva nella società: espropriazioni per pubblica utilità, che però favorivano grandi famiglie romane; nazionalizzazioni nell'interesse pubblico, che però consentivano a gruppi privati di manovrare enormi capitali liquidi; la promozione della piccola a media borghesia, ma attraverso la proprietà delle seconde case, a danno del governo del territorio; il tutto per togliere linfa al sostrato sociale della sinistra, cui però si concedeva l'accesso sempre più vasto ai mezzi di comunicazione.
Nulla di ciò che è stato fatto, è stato fatto invano. L'Italia di oggi non è il prodotto di cause storiche remote, ma il risultato programmato di politiche consapevoli recenti: la sciatteria al potere. La grande attualità del pensiero di Rossi è data proprio dal riproporsi oggi di questo stesso disegno politico: la centralità dei popolari, e vari gruppi alleati, con un Ds di nuovo marginalizzato, giocando con un po' di laici sulla destra, e un po' di post-marxisti sulla sinistra. Un package che ha visto in Scalfaro, e Prodi, i grandi sacerdoti istituzionali della sua realizzazione, e la cui «cifra» è la rinascita della sciatteria democristiana come il migliore dei mondi possibili. Un'ideologia, che vede nei guasti politici cagionati dalla Dc (al mondo cattolico, così come allo Stato laico) quanto di meglio si poteva fare per preservare lo schieramento atlantico del paese, e far avanzare la democrazia! Contro questa ideologia, che sostituisce un mito alla realtà, il pensiero del liberalismo sociale preserva tutta la propria attualità come progetto culturale e politico alternativo. Ma progetto che deve diventare compiutamente politico, e non moralista. Progetto, cioè, che deve sapersi emancipare sia dalle forme anguste della mera denuncia, che dal cabotaggio parlamentare opportunista, cui le rappresentanze laiche hanno aderito nella prima repubblica. Un progetto che deve ritrovare il nesso di teoria e prassi, che ha improntato l'azione politica del primo Ernesto Rossi, e dell' - ahimé - unico Carlo Rosselli.