«Le Cinque Giornate di Milano? Un fumettaccio inverosimile»
Parla il regista teatrale Roberto De Anna
roberto pich
Sceneggiatura banale, taglio patetico, totale assenza di drammaticità, totale disprezzo della verità storica, attori fuori luogo. Ce n’è per stroncare un film di Monicelli, figurarsi uno sceneggiato televisivo a firma Carlo Lizzani. «Mi sono bastati dieci minuti di visione al Del Verme l’altra sera (il teatro che ha ospitato l’anteprima milanese, ndr) per capire quale fumettaccio sia stato spacciato per un film sulle “Cinque Giornate di Milano”»: è il commento disgustato di Roberto De Anna, che è membro del Cda di Rai Cinema, ma che di mestiere fa il regista teatrale e che la rivolta del 1848 la mise in scena anni fa, con la collaborazione e la consulenza storica di Ettore Albertoni e Romano Bracalini.
Una consulenza che è mancata del tutto al prodotto di Carlo Lizzani, basato sulla traballante sceneggiatura di Fabio Campus e Giuseppe Badalucco. De Anna incontrò Lizzani e Campus quando il progetto era già partito e una prima sceneggiatura già stesa. Il professor Albertoni, all’epoca membro del Cda di viale Mazzini e, suo malgrado, iniziale ispiratore del film, capì verso quali lidi stava navigando il progetto e pregò De Anna di prendere contatti con gli autori.
«Campus era furibondo, ma Lizzani sembrò al contrario più disponibile a una mia eventuale collaborazione al progetto - spiega - Poi vennero le dimissioni di Albertoni dalla Rai e la cosa andò avanti senza che potessi raddrizzare le incongruenze del film».
Al di là del giudizio estetico, cosa non le è andato giù della ricostruzione storica?
«Tutto: si sente cantare un inno di Mameli che all’epoca non conosceva praticamente nessuno. E si vedono bandiere tricolori che non esistevano neppure: il tricolore come lo conosciamo noi entrò per la prima volta a Milano con Carlo Alberto che aveva deciso di farlo alla francese per potervi inserire lo stemma sabaudo nel mezzo. All’epoca delle Cinque Giornate il tricolore era a bande orizzontali con il rosso in alto e il verde in basso. La polizia milanese poi ha le divise blu, mentre erano verdi. E quel “viva l’Italia” del consiglio di guerra, quando Cattaneo voleva una federazione della Lombardia all’interno della monarchia asburgica... Senza contare la lingua: non c’è un solo attore che parli non dico meneghino, ma con accento meneghino. E qualcuno ha pure l’accento romano».
Forse c’era il rischio dei sottotitoli...
«Certo, ma è storia che all’epoca tutti parlavano milanese, compresa l’aristocrazia. A teatro usammo lo stratagemma di far parlare i protagonisti con un accento molto marcato, inserendo di tanto in tanto alcune battute in “lengua mader”. Allo stesso modo di tanti film ambientati a Roma o a Napoli nell’Ottocento».
Attori inverosimili, realtà storica strapazzata: tutte sviste volute o “subite” dagli autori?
«Questo non posso dirlo. Di certo c’è dietro una buona dose di arroganza nei confronti della nostra identità, oltre che di ignoranza della nostra storia. Si figuri che all’epoca del mio incontro con Lizzani e Campus, nella storia mancava completamente la figura dei Martinitt: non avevano la minima idea di chi fossero...».
Almeno al presidente Ciampi piacerà?
«A qualcuno piacerà sicuramente, perché la storia in sé è affascinante. Ma se un grande affresco popolare doveva essere, come furono le Cinque Giornate, le storie d’amore avrebbero dovuto restarne fuori. A maggior ragione se inverosimili come le due con le quali lo sceneggiato è stato farcito».
La Lega se ne chiama fuori?
«La Lega non c’entra niente di niente: né nel casting, né nella produzione, né nella sceneggiatura. Mi sembra evidente...».