...a Prodi Romano, l'uomo per il quale tutti lavorano gratis
Queste recenti parole di Romano Prodi a contrapporre i “volontari” del centrosinistra ai “mercenari” del centrodestra mi hanno commosso e sconcertato.
L’ennesima comprova – almeno così appariva – di come sia profondo lo scontro di civiltà tra quelli di sinistra, tutti dei santi, e quelli di destra, tutti dei pidocchi.
Detta poi da Prodi, questa esaltazione del volontariato in politica, da uno che di tale volontariato non deve averne fatto nemmeno un giorno in vita sua, nemmeno un giorno sottratto all’efficacia della carriera sua “democristianissima”, e tanto più se è vero quel ho letto di lui, che dopo aver superato l’esame di diritto privato si mise a correre e a saltare gridando che adesso non c’era più nessun ostacolo a che diventasse capo del governo.
Sta parlando uno che oggi è un “mercenario” da far accapponare la pelle ai bambini, uno che gratis non dà neppure un numero di telefono.
Solo che di quel volontariato di cui parla Prodi me ne intendo come pochi. Nella mia giovinezza credo di averne fatto almeno quindici anni. Sì, proprio quel volontariato lì, quello che attiene alla politica e ai suoi furori, al desiderio di raddrizzare le gambe ai cani e di moltiplicare i pani e i pesci.
Quindici anni.
Sì, sì, quella roba lì: i cortei e la loro preparazione, i viaggi in seconda classe e forti di un panino a scovare i migliori tra i “compagni” disseminati per l’Italia, le riunioni che duravano intere giornate a spaccare in 64 il capello del nulla, ideare e confezionare i giornali che contenessero la verità rivoluzionaria, e impacchettarli per farli arrivare alle librerie Feltrinelli, e le conferenze a voce tonitruante e tutto il resto.
Quindici anni, giorno più giorno meno.
Tanto a casa c’era mia nonna che mi aspettava con l’acqua pronta per precipitarvi dentro gli spaghetti.
E adesso che sono divenuto un “mercenario”? Adesso sì che sono divenuto utile alla causa dei deboli, di quelli che nella corsa della vita sono rimasti indietro.
Perché sul lavoro che mi faccio pagare sino all’ultima oncia pagherò il 51,10 per cento di tasse fino al 31 dicembre.
Dal primo gennaio, grazie a questo taglio di tasse che ha scatenato uno sciopero generale, soltanto il 49,10 per cento.
Ce ne fossero di “mercenari” così.
L’idea miserevole e quaresimale che la virtù sta lì dove non circola il denaro, e all’opposto che dove circola il denaro non ci sia virtù, è un’idea che trovo raccapricciante.
In questo suo bel libro (“La peggio gioventù”) che racconta la sua saga di brigatista fino all’assassinio di Aldo Moro e poi l’allontanamento dalla via e dalla cultura della violenza, Valerio Morucci dice che i brigatisti si erano dati come stipendio la cifra di 120 mila lire al mese, 120 mila lire della metà degli anni Settanta. Alcuni di loro erano talmente cretini che non riuscivano neppure a spenderli, tanto della vita non gli interessava e non gli piaceva nulla, se non la pulsione di portare la morte.
Quaresima e terrore.
Così come ricordo la discussione, lì alla nascente redazione del Manifesto quotidiano, in cui decidemmo quale sarebbe stata la paga eguale per tutti: 150 mila lire al mese.
Io che ne pagavo 100 mila di affitto alzai subito il dito a dire che con quella cifra non si arrivava alla fine del mese se uno doveva comprare libri, riviste e andare al cinema. Cose che per il nostro lavoro erano indispensabili. Uno dei padri fondatori mi disse che mi sbagliavo, che le riviste uno le può rubare e quanto ai weekend per andare a sciare c’è sempre qualcuno (o qualcuna) che ti invita.
Lo guardai incantato, come adesso dopo aver ascoltato Prodi. Rubare riviste e farsi invitare dalla damazze per sciare.
Una civiltà superiore.
Giampiero Muggini su Il Foglio
saluti