Istituisco questo thread con lo scopo di dare vita ad un confronto programmatico e propositivo a tutto campo. Credo che, a prescindere se sia etichettabile di destra o di sinistra, i repubblicani oggi debbano farsi promotori di una politica laica e progressista.
In questo senso molti temi si possono elaborare. Provo a metterne sul piatto alcuni, che gironzolano nella mia mente (e in parte anche in ciò che ho sempre scritto) da diverso tempo, e che sono ispirati al principio che dobbiamo oramai legiferare per una società plurale, una società aperta, in cui ogni problema si declina con nuove desinenze.
I laici e la società multietnica
Uno dei temi fondanti dell'azione politica di un partito laico riguarda la piena accettazione di una società multietnica e multiculturale.
La presenza sempre più massiccia nel nostro Paese di comunità culturalmente diverse pone la società davanti ad un bivio: la condivisione o il rifiuto. In questa dicotomia si avverte forte il bisogno di un impulso, di uno slancio ideale che spinga via via i nostri concittadini a orientare un diffuso atteggiamento di diffidenza, verso la convergenza, la comprensione, il rispetto. E' proprio nostro compito condurre un Paese molto legato alle proprie radici cattoliche, spesso timoroso e refrattario alla contaminazione, sul sentiero della laicità, intesa come "democrazia spirituale".
A mio avviso, esistono tre presupposti perché questo avvenga.
Il primo consiste nell'abbattere un complesso di superiorità radicato e diffuso in una parte consistente della società: la presunzione che la nostra civiltà sia la migliore possibile. Concetto anche largamente condivisibile, quando è accompagnato dalla consapevolezza di rappresentare soltanto un nostro legittimo giudizio, e non pretende di diventare una verità assoluta che ci autorizza ad imporre modelli, colonizzare paesi, esportare democrazie e religioni. La varietà è la ricchezza del mondo. Nella differenza tra i popoli cogliamo l’espressione di percorsi storici secolari e di valori spesso tra loro difficilmente commisurabili, specie da un’ottica di parte.
Certamente noi occidentali possiamo vantare conquiste civili importanti e di progresso: la democrazia come strumento di governo; una condizione femminile paritaria; un’istruzione largamente diffusa; un ordinamento giudiziario evoluto e garantista; l’alta considerazione per il valore della vita umana; la ricerca di un’etica sociale sempre migliore.
Tutto questo rappresenta la nostra materia di dialogo col resto del mondo, i nostri argomenti. Consci però che in una discussione pacifica e costruttiva, le tesi si spiegano, non si impongono. E l’interlocutore si ascolta con interesse.
Il secondo aspetto da prendere in considerazione riguarda l’abbandono di preconcetti e luoghi comuni sobillati dall’istintivo timore per tutto ciò che innesca mutamenti più o meno profondi nel tessuto sociale e nella rassicurante quotidianità. Il pregiudizio non aiuta a capire e spesso si autoalimenta secondo un ciclo perverso che, cronicizzato ed esasperato, degenera nell’intolleranza e nel razzismo. Il clima ostile, la difesa preventiva, la chiusura cieca, finiscono a torto per livellare le sfumature e le profonde differenze in cui si coniuga il fenomeno immigrazione.
Uno spirito laico e democratico, invece, deve saper tralasciare gli impulsi per privilegiare la ragione, alla ricerca di una comprensione dei fenomeni nella loro interezza e complessità.
Un terzo requisito utile all’accoglienza risiede nel saper dare il giusto peso alle motivazioni di fondo che spingono all’espatrio gli extracomunitari del mondo povero. Anzitutto si tratta spesso di gente in qualche modo votata all’integrazione. E’ un fatto condiviso che chi è disposto a lasciare la propria terra, i propri cari e ad improvvisare una nuova esistenza in una realtà sconosciuta, è già preparato a modificare la propria vita, rinunciando in tutto o in parte alle sue consuetudini. Si tratta di uomini e donne bisognosi di lavorare, e magari di trovare fortuna in un mondo più ricco.
Chi pensa che gli immigrati, di qualsiasi provenienza essi siano, vengano per imporci usi e costumi propri commette un banale errore pregiudiziale.
D’altronde che un progressivo inserimento sia possibile, lo dimostrano ogni giorno le migliaia di lavoratori di colore impiegati nelle aziende con un contratto regolare; lo dimostrano le colf e le badanti, spesso complemento irrinunciabile della vita domestica familiare e della quotidianità di molti anziani; lo dimostrano le nuove classi scolastiche variopinte di razze miste; lo dimostrano perfino i giovani musulmani che mettono in discussione finanche il loro dogma religioso pur di passare qualche notte brava in discoteca.
Certamente la piena integrazione resta un processo difficile che va incoraggiato, che ha bisogno di sedimentare e che richiede sacrificio e gradualità da entrambe le parti. La tendenza alla ghettizzazione nei quartieri delle città è per contro un fenomeno sotto gli occhi di tutti, che testimonia a volte lo stadio primitivo di questo percorso. Ma dobbiamo aiutare la società italiana a mettere a disposizione ogni risorsa in termini umani e strutturali per favorirne la completa evoluzione.
I laici e l’Islam.
Un nodo che anima da tempo il dibattito tra i laici di tutto l’occidente, e che tende a frapporsi anche ai più sinceri afflati di tolleranza e solidarietà, è il rapporto con l’Islam. L’interrogativo che ci si pone riguarda infatti la compatibilità di questa pratica con la democrazia e con la laicità dello Stato.
Se aneliamo a una società in cui la sfera spirituale e quella politica viaggino su binari distinti e paralleli, come possiamo relazionarci con una dottrina manifestamente anti-laica, che mescola fede e agire politico, quale quella islamica?
In prima battuta, una regola guida potrebbe essere il rifiuto. La negazione, cioè, per qualsiasi religione che abbia un rapporto egemonico sulla politica. Atteggiamento tipico di un laicismo “radicale”, si potrebbe dire di stampo francese, che comporterebbe l’aspirazione ad uno Stato rigidamente distaccato, insensibile alle pulsioni spirituali della cittadinanza. Un’impostazione che, se può convivere con l’anima laica del cristianesimo, si rivela però insufficiente a stabilire un rapporto armonico con tradizioni più totalizzanti. Un criterio estremo, insomma, che rischia di scontrarsi con elementari princìpi di libertà democratica.
Un’analisi più attenta, invece, individua nell’Islam un fenomeno molto più variegato sfumato e complesso di quanto vorrebbero gli schematismi mutuati dal clima di scontro e da un approccio brutalmente ideologico.
A separare Islam e democrazia è in primo luogo una diversa filosofia sociale, incentrata sulla comunità nel primo caso, e sull’individuo nel secondo. Inoltre, in linea di principio le comunità islamiche non concepiscono la democrazia, perché la ritengono fondata sul sacrilegio. La sharìa, il volere divino, è la legge che guida l’uomo, e ad esso spetta il solo compito di applicarla in modo corretto e conforme al dettato coranico. In quest’ottica, è chiaro che gli stati democratici, in quanto governati dall’uomo e non da Dio, pongono umano e divino sullo stesso piano, compiendo così un atto grave di presunzione, una vera e propria empietà.
Questo teorema, diffuso e radicato nelle coscienze islamiche, si confronta però con la varietà storico-politica delle realtà locali. La legge di Dio, infatti, viene interpretata e applicata diversamente da paese a paese. Vige ad esempio un’osservanza rigidissima e restrittiva in Arabia Saudita, in Sudan, nell’Afghanistan dei talebani, ma molti altri Stati come l’Egitto, la Turchia, la Siria e la Libia sono retti da regimi laici, in cui la religione è un fatto più privato e di costume che legge inflessibile, e i governi presentano diversi margini di tolleranza. Esiste poi il caso paradossale dell’Iran che, orfano di Khomeini, ha espresso un sistema istituzionale bifronte, in cui si affacciano con prepotenza istanze democratiche accanto al radicalismo più reazionario. Ovunque, infine, coesistono gruppi, partiti, individui con difformi sensibilità: dal fondamentalismo estremo e bellicoso, agli islamisti ortodossi, ai moderati più e meno interessati ai modelli occidentali.
Appare dunque evidente quanto sia sfaccettato e difforme già alla sorgente il bagaglio culturale, politico e religioso della comunità musulmana immigrata in Europa e in Italia.
In questa varietà possiamo enucleare chiaramente due opposte tendenze: la ricreazione del comunitarismo musulmano da un lato, e dall’altro un diffuso processo di individualizzazione religiosa.
Al contrario del precedente, quest’ultimo fenomeno rivela una volontà di assimilazione progressiva della nostra cultura. Gli individualisti rinunciano alla ghettizzazione, preferendo piuttosto la ricerca di contatti con la società ospitante, passando per un allentamento dell’ortodossia religiosa in favore di una pratica dell’Islam in forma privata. Sono aperti al dialogo, possibilisti verso un’evoluzione dei loro precetti, e comunque non ostili nei confronti degli altri. Si tratta di una tipologia di persone in costante aumento, che rappresenta di certo la migliore declinazione del tema della convivenza.
Diverso invece il discorso sui cosiddetti “comunitaristi”, raccolti attorno alla moschea, e tendenti a ritagliarsi uno spazio sociale dove praticare il proprio credo in autonomia, rispettando le regole e pretendendo altrettanto rispetto. Sono musulmani che non cercano la piena integrazione, ma preferiscono una convivenza “parallela”. Per quanto sofferta da parte nostra, si tratta di un’aspirazione comunque legittima, che uno Stato e un pensiero laico dovrebbero accogliere senza indugi, quando tutto avviene nell’osservanza della legge. Senza per questo chiudere le porte al dialogo.
Dialogare vuol dire riconoscere la comunità parte integrante della nostra società; significa tutelarne il culto; assecondarne le esigenze, se non in aperto contrasto con le nostre; legiferare per una società “plurale”; e d’altra parte significa pretendere dai musulmani il rigoroso rispetto delle regole dello Stato.
Nulla di diverso da quanto avviene già per gli ebrei nostrani.
Non bisogna poi trascurare il fatto che l’Islam in Occidente ha sviluppato da tempo una riflessione sulla propria natura e sulle prospettive future, rimettendosi in discussione alla luce del mutato contesto socio-culturale.
Questo scenario articolato e in fermento continuo ci rafforza nella convinzione che la ricerca di un equilibrio è non solo possibile, ma perseguibile con entusiasmo ed ottimismo, per consentire alle varie anime musulmane di adattarsi secondo i percorsi leciti a loro più congeniali: dalla convivenza pacifica ma distaccata, alla mediazione culturale, all’accettazione del nuovo stile di vita occidentale e dei suoi progressi civili e tecnologici.
Nei loro confronti deve prevalere da parte nostra uno spirito aperto e inclusivo, nella certezza che la reciproca sinergia può davvero rappresentare il sentiero della concordia e della comunione.
I laici nel dibattito tra cristiani e musulmani.
L’attualità ci ha recentemente proposto piccole e grandi dispute legate alla convivenza, e tante altre continuerà ad offrirne nel prossimo futuro. Che posizione assume un partito laico progressista?
A tale proposito è utile soffermarsi sul modello francese. La Francia è infatti il Paese europeo che più di ogni altro ha metabolizzato il pluralismo culturale, gestito spesso con il metro di un “laicismo totalitario”, che si presta ad un giudizio controverso. Se da un lato infatti è esemplare la volontà di connotare lo Stato con una politica rigorosamente scevra da implicazioni religiose, dall’altro l’azione appare talvolta viziata da un malinteso concetto di laicità. E’ questo il caso del divieto di indossare il velo islamico nelle scuole.
Eppure una società laica dovrebbe essere votata all’inclusione più che all’esclusione, e promuovere la libertà individuale quando essa non ostacola quella degli altri.
Il velo, in tutte le sue variabili (dall’hijab al niqab, dal burqa al chador) rappresenta prima che un costume, il simbolo di una tradizione che, seppur non ci piaccia e non ci appartenga, dobbiamo saper rispettare. E’ un’espressione individuale che non pretende di condizionare gli altri e che in una società aperta non può turbare nessuno. Se questo modello di società è l’obiettivo di un governo, lo spirito della legge francese lo contraddice in pieno. Un cristiano può tenere una madonnina al collo, può farsi il segno della croce in pubblico, può esporre un santino in auto, può scegliere il comportamento che ritiene opportuno in ogni momento, in base alla propria coscienza e al proprio credo. In uno Stato laico e democratico, le stesse prerogative spettano anche a chi appartiene ad un’altra confessione.
Diverso è il discorso se l’ostentazione di un’icona o la pratica di una condotta possono considerarsi oggettivamente lesive, offensive, o semplicemente inopportune per l’insieme della comunità. Comunità che oramai non si riduce più alla sola componente locale, ma che va riconosciuta in senso più ampio come multietnica.
In Italia, il clamore suscitato da una lineare sentenza giudiziaria sul celebre “crocifisso di Ofena”, ha evidenziato una sostanziale impreparazione ad accettare leggi a tutela di ognuno, quando interessino la sfera religiosa: un crocifisso appeso in un edificio pubblico (di proprietà dello Stato e quindi “laico”) rappresenta un arbitrio, e diventa passibile di rimozione, se non condiviso da tutti.
Una buona regola che eviti future polemiche, non solo tra cattolici, ebrei e musulmani, ma anche tra credenti e non credenti, dovrebbe essere quella di limitare il suggello religioso ai soli edifici privati e legati al culto, lasciando che lo Stato si rappresenti unicamente con i propri simboli nazionali.
Sempre in tema di scuola, poi, qualcuno ha sostenuto la necessità di differenziare classi islamiche nelle strutture pubbliche.
Diciamo subito che una simile iniziativa è del tutto fuori luogo. La scuola pubblica è scuola di miscela plurale, non di steccati o di riserve protette. E proprio in questa natura risiede la sua funzione formativa.
Ben vengano piuttosto le scuole musulmane private e parificate. Una siffatta alternativa soddisferebbe a pieno le diverse domande degli interessati, che potranno scegliere tra una forma di integrazione più o meno mediata, senza scompaginare l’organizzazione scolastica vigente.
Dobbiamo abituarci ad affrontare questi argomenti, perché ne sorgeranno sempre di nuovi. Soprattutto, l’incedere di dibattiti quotidiani su temi legati alla convivenza, ci dovrà indurre a vigilare attentamente affinché il nostro parlamento si presti ad una maggiore cautela: mai come ora urge la pretesa che la politica si guardi bene dal legiferare sotto l’egida etica e morale della Chiesa, e si riallinei con coerenza ai dettami laici della nostra costituzione.
L’immigrazione incontrollata e clandestina.
Un partito laico che possa esercitare a pieno le proprie prerogative di laicità, rispetto e apertura, non può sottacere però i rischi reali e i problemi concreti connessi al tema immigrazione.
Se è vero che, messi in condizione dalla società, gli immigrati tendono all’integrazione, d’altro canto è innegabile che un loro afflusso di massa improvviso e incontrollato abbia un impatto traumatico e destabilizzante sulla gente comune. In termini di ordine pubblico, di occupazione e, certamente, anche culturali.
L’immissione coatta di gruppi numerosi e omogenei, infatti, cagiona la nascita di sottocomunità autonome, chiuse e organizzate, contrapposte, anche con l’esercizio di attività illegali, alla struttura ospitante.
Questo è ciò che la realtà ha dimostrato con l’afflusso clandestino di immigrati dall’est europeo. Con l’insediamento sotterraneo e ramificato dei cinesi. Con la spartizione di specifiche attività criminali tra gruppi di marocchini, nigeriani e albanesi.
Ecco che allora, la condizione per una convivenza pacifica e per una reale integrazione tra i popoli si arricchisce di un’altra parola chiave: la gradualità.
Un inserimento progressivo e programmato è necessario per tanti motivi.
Permette da un lato al nuovo arrivato di misurarsi direttamente con il paese che incontra, di subordinare la sua permanenza alla pratica di un lavoro regolare, di trovare più facilmente un alloggio, di plasmare le proprie abitudini con una quotidianità sconosciuta. Dall’altro disinnesca quel sentimento di ostilità di chi si sente aggredito, invaso, defraudato delle proprie certezze, ed è più incline alla rabbia, all’intolleranza e al razzismo. Allo stesso tempo, poi, mette le istituzioni locali in condizione di fornire più agevolmente offerte occupazionali, strutture e servizi. Infine consente alla società di non mettere in discussione la propria identità, dandole la sensazione di poter custodire tradizioni, usi e costumi, che sebbene, come sempre, il tempo sia inesorabilmente destinato a mutare, subirebbero un’evoluzione più lenta da metabolizzare.
Ma insieme ad un’attenta ed equilibrata gestione dei flussi, occorre affrontare con efficacia gli effetti scaturiti dall’ondata clandestina che da anni imperversa sulle nostre frontiere e che ha colto impreparati i governi. Affluenza che ha dilatato l’attività della criminalità organizzata e messo a repentaglio la pubblica sicurezza. Appare evidente, infatti, che il problema sia sfuggito di mano da subito, e che oggi su questo fronte l’Italia si trovi a rincorrere un rimedio molto difficile.
Su questo versante la legge non può indulgere. E’ necessario mettere in campo ogni iniziativa utile: organizzare un adeguato sistema preventivo, rafforzare il coordinamento delle forze dell’ordine e rendere efficace il meccanismo delle espulsioni.
Mano tesa ai bisognosi onesti, dunque, e pugno di ferro con i criminali.
Diritto di voto agli immigrati. Quando e come.
Sul diritto di voto, le disposizioni vigenti, pur se perfettibili, appaiono in sostanziale equilibrio con la dinamica del fenomeno, e sembrano ispirate al principio di gradualità evocato in precedenza.
Nel dibattito recente, alcune proposte vorrebbero subordinare la partecipazione elettorale degli extracomunitari alla sola residenza italiana e al requisito di un lavoro regolare. In effetti quest’approccio, pur non privo di argomentazioni e di buoni propositi, appare in ultima analisi prematuro e alquanto superficiale. Il voto, in particolare quello politico, è il coronamento di un processo di integrazione e rappresenta, per chi lo esercita, l’appartenenza solidale e indiscussa ad uno Stato. Per questo motivo è strettamente legato al possesso della cittadinanza italiana, vale a dire al riconoscimento della definitiva condivisione dei valori fondativi della comunità. La cittadinanza si può ottenere per nascita o per acquisizione, ma a conferma della sacralità e della sincerità dell’atto, richiede in quest’ultimo caso dieci anni di residenza legale in Italia. Ferma restando la validità del principio, può essere discussa l’opportunità di abbreviare questo periodo, sia pure nella cornice di direttive univoche a livello europeo.
Un iter più accomodante è invece auspicabile per le elezioni locali, specialmente perché è anzitutto nella dimensione urbana che l’immigrato misura le proprie esigenze e le proprie aspettative. Gli esperimenti di Roma e Lecce, che hanno portato nei consigli comunali rappresentanti degli immigrati con sola facoltà propositiva e non decisionale, paiono felici e replicabili su tutto il territorio nazionale, e possono rappresentare il preludio ad una completa partecipazione al voto amministrativo, magari regolata da una tempistica più snella.
Laicizzare il welfare
I lavoratori oggi non sono solo italiani. In una società aperta, laica e multietnica dobbiamo preoccuparci di venire incontro ad abitudini anche molto diverse dalle nostre.
Se consideriamo ad esempio che la domenica è il giorno di festa cristiano, il sabato quello ebraico e il venerdì quello della preghiera islamica, ci rendiamo conto della necessità di rivedere qualcosa nell’organizzazione del ciclo lavorativo per assecondare la legittima libertà di culto. Perché è necessario porre ognuno in condizione di praticare il proprio credo e di seguire almeno nel proprio intimo e nel privato ciò che della sua tradizione non ritiene mediabile con la nostra.
La politica oggi fatica ad adeguarsi alle variabili del lavoro. La società negli ultimi quindici è cambiata velocemente e radicalmente. La politica insegue, spesso arrancando. Sui temi del lavoro, un partito progressista deve invece prevedere gli scenari, pronosticare i problemi, anticipare le risposte.
Una scuola laica
Il discorso sulla scuola laica si snoda sostanzialmente su due questioni ancora irrisolte: l’ora di religione e il binomio scuola pubblica e scuola privata.
Sul primo punto bisogna applicare in concreto ciò che la costituzione sancisce formalmente: che la scuola pubblica è un'istituzione laica. E come tale deve intendere la religione come un fenomeno legato all'umanità nel suo complesso, non come catechesi. Una scuola laica deve poi porsi il problema della conoscenza del mondo, dei suoi abitanti, degli usi e costumi e delle diverse realtà.
Dobbiamo pertanto con coraggio farci promotori di un nuovo concordato, che sancisca la sostituzione definitiva dell’ora di religione con la storia delle religioni, e l’introduzione nelle scuole di nozioni derivanti da discipline oggi irrinunciabili per conoscere il mondo, vivere correttamente e orientarsi nella società: la sociologia, l’antropologia culturale, l’educazione civica.
Sul secondo tema, dobbiamo puntare ad una valorizzazione della scuola pubblica, quale strumento indispensabile di formazione ed educazione dei cittadini. Ma dobbiamo garantire e tutelare anche l’esistenza di un insegnamento privato, senza particolari privilegi o sovvenzioni, improntato alla massima serietà e competenza, ma orientato ad assecondare una richiesta formativa alternativa a quella, laica e pluralista, di Stato. Ben vengano quindi scuole cattoliche e cristiane, musulmane, ebree. Scuole di matrice internazionale. Scuole gramsciane, crociane, sturziane. Purché siano tutte parificate. Cioè rispettino un’ossatura, un programma di base comune tra loro e comune a quella pubblica. E regole chiare e rispettose della legge per quanto concerne il criterio di promozione e le annualità didattiche.
Nuovi nuclei sociali
La famiglia tradizionale non può essere più considerato né l’unico, né il principale nucleo sociale esistente. Essa si è fondata e ha retto storicamente, infatti, su un impianto culturale ormai superabile e su una condizione maschile e femminile che non esiste più.
La donna occidentale di oggi, in particolare, è cambiata. Lavora, si è emancipata, nutre ambizioni e aspettative molto simili, se non uguali, a quelle maschili. Mantiene come logico le sue differenze, ma patisce moltissimo nella società attuale, che la obbliga sempre più al ruolo di moglie, di madre, di casalinga, di impiegata e di libera professionista. Di riflesso soffre anche l’uomo, costretto a sopperire a nuove mansioni e a rinunciare spesso a parte delle proprie prospettive professionali. Così le famiglie si sgretolano e quando resistono, cronicizzano dissapori e frustrazioni, destinate a sfociare collateralmente.
Il concetto di nucleo sociale va necessariamente rivisto. Ripensato, allargato, rimodellato. Da un lato si può incentivare un maggiore equilibrio familiare con sovvenzioni e sgravi fiscali sull'assunzione di colf, badanti, baby-sitter, cuochi. Dall'altro di deve necessariamente guardare a nuovi modelli alternativi e complementari: in Olanda e in Spagna esistono i PACS, cioè le unioni di fatto. Ma bisogna anche pensare a come tutelare e regolare i single, le coppie separate, i divorziati, i figli, le coppie gay. In tutto questo insieme inserirei anche la poligamia musulmana.
Sono problemi che spetta a noi laici affrontare con la massima serietà e la massima determinazione. Sempre nell’ottica della società laica e aperta.
E’ un obiettivo ineludibile, per una forza laica, farsi promotrice per prima su questi temi di proposte magari rivoluzionarie, magari provocatorie, ma che suppliscano al silenzio interessato del blocco cattolico-clericale. Proposte che stimolino tutti i cittadini ad una riflessione, che possano scardinare qualche tabù e che diano la stura a più di una scomoda discussione.
La ricerca e le nuove frontiere della scienza.
Da laici non possiamo che guardare con interesse e con favore ai progressi della ricerca scientifica e tecnologica.
Eppure dobbiamo registrare che l'Italia, malgrado figuri tra i grandi del mondo, è il fanalino di coda in Europa per quanto riguarda gli investimenti in questo settore.
Le università fanno poca ricerca, con scarsi mezzi e modesti risultati perché mancano i fondi. Cosicché i nostri migliori studiosi sono costretti all'espatrio, dissipando altrove tutto il patrimonio formativo acquisito in casa.
Le aziende italiane producono sempre meno e soprattutto hanno smesso di fare ricerca, riducendosi a sviluppare massimamente il settore commerciale-distributivo e dei servizi. Si sono cioè chiuse in un circolo vizioso che produce consumo, avvitandosi in un meccanismo che le rende vulnerabili e impotenti di fronte al fenomeno recessivo che è in atto da anni. Appare chiaro, invece, che l'unica arma in grado di rilanciarle nel medio e lungo periodo è un investimento sulla ricerca e l'innovazione.
Dal canto nostro, dobbiamo adoperarci perché i futuri governi cambino radicalmente registro e puntino sulla ricerca come base strategica per il progresso e il rilancio del nostro Paese.
Esiste poi il tema appassionante della bioetica. Nuovi orizzonti si aprono per l'uomo e per la sua vita. Dalla procreazione assistita, alla clonazione, all'informatizzazione dell'essere umano (la nascita della cosiddetta generazione post-umana).
Un percorso ricco di speranze, ma anche di insidie. Il nostro approccio deve essere vigile e ponderato, affinché il progresso non degeneri in fenomeni aberranti e controproducenti. Non possiamo però accettare che la morale religiosa si frapponga come uno sbarramento al progresso.
Compito nostro sarà quello di incanalare e imbrigliare la ricerca sui binari corretti del beneficio, della tutela della dignità e della libertà collettiva e individuale. Sarà quello di tracciare la linea di confine di un'"etica universale" che non sia l'emanazione di precetti biblici, ma la risultante delle sensibilità dei singoli. Sarà quello di tenere sempre ben distinte le strade della scienza e della fede. Così come fecero Galilei e Cartesio, entrambi cattolici praticanti e devoti, di fronte alla potenza delle loro intuizioni.
La riscoperta del patriottismo
Il nostro è un Paese giovane, unito da meno di un secolo e mezzo. E’ un Paese arlecchino, dove coesistono realtà e genti diverse tra loro, interessi e culture spesso divergenti, caratteristiche geografiche multiformi. Questa varietà etnico-culturale e territoriale è la sua ricchezza, e costituisce il patrimonio che la rende una delle attrattive mondiali e una grande risorsa, reale e potenziale, in termini di valore umano.
E’ noto come la natura del nostro Risorgimento sia stata élitaria e non popolare, come i princìpi ispiratori siano stati dettati più che da un impeto generale, da una consapevolezza colta del nostro passato, che ha ricercato e ritrovato le radici comuni nella lingua, nell'arte e nella letteratura, nella cultura, nei fasti dell'antichità, oltre che nella conformazione geografica del nostro Paese.
Eppure il pensiero di un borghese come Giuseppe Mazzini non è stato solo il motore del Risorgimento, ma ha guidato il nostro destino fino a dopo la seconda guerra, rivelandosi il primo ispiratore dell’Italia moderna, democratica e repubblicana. Per questo noi, eredi diretti di questa tradizione, abbiamo una responsabilità e un compito fondamentali: quello di rigenerare e diffondere l’idea di Patria, il patriottismo.
All’Italia di oggi serve pertanto una classe politica che sappia incarnare i più autentici valori unitari.
Soprattutto perché gli italiani sembrano non aver assimilato questo capitale. Il concetto di patria è troppo spesso assente nella massa dei connazionali, mentre dovrebbe rappresentare l'essenza di un popolo, la sua linfa vitale, il suo primo collante.
Tra gli italiani sono rimasti gli stessi particolarismi, gli egoismi, i pregiudizi e le incomprensioni latenti e patenti da sempre. Di più. Non è mai esploso un vero e proprio "amor patrio". Anzi, spesso gli italiani gareggiano nel denigrare il proprio Paese, fanno confronti in negativo, alcuni addirittura "si vergognano di essere italiani". Mentre al nord da anni serpeggia una vocazione secessionista.
La spiegazione di questa anomalia è riconducibile, a mio avviso, ad un'evoluzione distorta della nostra coscienza nazionale.
L'Italia, dopo l'unità, ha avuto poco tempo per maturare spontaneamente, per essere gradualmente educata alla convivenza e al rispetto per le nuove istituzioni. Non ha fatto in tempo perché si è presto instaurato il fascismo. Fascismo non solo come dittatura, ma come insieme di retorica, di nazionalismo, di simbologia e di propaganda.
Il sentimento nazionale artatamente infuso in quel periodo era cosa ben diversa dal "patriottismo". Era un orgoglio nazionale, un delirio di potenza, una sovrastruttura aulica e ridondante, una costruzione artificiale.
L'amor di patria è ben altra cosa. Si manifesta nel rispetto per uno Stato e per le sue istituzioni, in quel sentimento di appartenenza ad una comunità che ci conduce a perseguire ideali di giustizia, di libertà, di etica civile. Chi ama la Patria, in sostanza, vuole solo il suo bene, in modo disinteressato, senza egoismi, nel rispetto degli altri cittadini e degli altri popoli e senza ambizioni egemoniche o prevaricatrici.
Purtroppo il fascismo e la sua caduta hanno condizionato i nostri sentimenti.
Così oggi, tra la massa indifferente, si distinguono da un lato i nostalgici, che vivono ancora le eco degli ideali nazionalisti, ben espressi da ampi settori della destra odierna in generale; dall'altro la sinistra comunista e post-comunista, quella che ha fatto la Resistenza col chiodo fisso dell'Unione Sovietica, dell'Internazionalismo, della negazione della vacua retorica fascista. Per costoro, ancora oggi, parlare di Patria è un tabù.
In mezzo ci siamo noi. Pochi testimoni, ereditieri di un passato nobile, democratico, antifascista e patriottico. I nostri padri politici l’Italia l'hanno propugnata, l'hanno perseguita, l'hanno creata davvero. E si sono battuti, durante la Resistenza, per restituirle la dignità e l'istituzione democratica e repubblicana (cioè di tutti) che meritava.
Noi rappresentiamo il nucleo da cui nel prossimo futuro si potrà diffondere una sincera coscienza nazionale, e potrà generarsi quell'"amor patrio" che finora è troppo spesso mancato.
Nell’alleanza con la sinistra socialdemocratica e riformatrice sarebbe opportuno rimpiazzare i “compagni” coi “compatrioti”.
Il professor Maurizio Viroli ha scritto libri davvero illuminanti a riguardo, di cui dovrebbe appropriarsi ogni laico di matrice repubblicana.
Rimando alla lettura del saggio “Per amore della patria” (ed. Laterza), che ritengo di fondamentale importanza per alimentare e propagare un sentimento di attaccamento allo Stato e al nostro Paese, fondato non sul nazionalismo ma sulla riscoperta di un sentimento di sobrio ma genuino “patriottismo”.
La nostra Europa
L'Europa può vantare una storia plurimillenaria. Esperienze diverse, culture svariate, contaminazioni continue.
L'Europa che nasce oggi può ispirarsi a tutto questo, ma resterebbe un paniere con dentro ogni sorta di provvigione. Tutto e il contrario di tutto. Cristianesimo, ateismo e paganesimo. Fondamentalismi e moderazioni. Democrazie e dittature. Monarchie, imperi, repubbliche. Solidarismo e prevaricazione. Culture mediterranee, germaniche, slave, vichinghe.
Per questo, per non chiudersi in una staticità nostalgica e museale fine a se stessa, l'Europa oggi necessita di attingere dal suo passato soprattutto gli strumenti utili a guardare al futuro.
E nel futuro c'è una società sempre più variegata, sempre più miscelata, che richiede laicità e raziocinio.
Appare chiaro che il riferimento che più di ogni altro si presta a questa esigenza è il secolo dei Lumi.
La componente maggioritaria dell'Unione che sta nascendo è orientata su quest'approccio. Approccio che un partito laico e progressista non può che condividere e sottoscrivere: a noi piace l'Europa fondata sulle scoperte di Newton;
sul pensiero di Voltaire e di Rousseau; sulle pagine di Montesquieu; sulla rivoluzione francese e la rivoluzione industriale. Ci piace l'Europa di Giuseppe Mazzini, precursore di un'entità sovranazionale unita e solidale, fondata sull'autodeterminazione di ciascun popolo.
Purtroppo quest'idea di Europa, pur se maggioritaria, deve farsi spazio tra le istanze reazionarie di componenti cattoliche ideologizzate e tra politiche conservatrici di sudditanze internazionali.
Un partito laico e repubblicano deve favorire la nascita e la crescita di un'Europa laica, aperta, autonoma. Un'Europa che sappia difendersi ma che abbia nel dialogo la sua arma migliore. Un'Europa esperimento di integrazione e convivenza armonica tra le sue genti. Un'Europa foriera di pace al suo interno, e messaggera di pace nel resto del mondo.
Questi sono alcuni temi che, secondo la mia opinione, dovrebbero caratterizzare il nostro movimento. Se riusciamo ad elaborare un pensiero ampio, profondo e condiviso su queste tematiche, e se riusciremo a far sentire la nostra voce nell'agone politico, sono convinto che in futuro le nostre idee cammineranno. E dopo aver vinto la battaglia unitaria, quella democratica e quella repubblicana, vinceremo anche la battaglia laica, la sfida oggi forse più difficile, ma cruciale per garantire un futuro di progresso per il nostro amato Paese.