Documento originale: "Is Turkey the next Argentina?"
Il denaro straniero si è riversato in Turchia molto velocemente, alimentando un’espansione economica, con molti investitori ed analisti a lodare le politiche e le riforme del paese. Ma quelli, che, a proposito dell’Argentina all’inizio degli anni 1990, si ricordano di una simile agitazione seguita da una delle più disastrose crisi della storia latinoamericana, dovrebbero fare attenzione.
Il parallelo è evidente. Anche la crescita
dell’Argentina, all’inizio degli anni 1990, fu stimolata dall’afflusso di capitali stranieri e condusse anche a una sopravvalutazione valutaria. Che contribuì a distruggere la base industriale del paese. E anche negli anni della crescita del paese, quando era considerato come modello dal Fondo Monetario Internazionale, la creazione di posti di lavori fu scarsa.
L’economia turca, in effetti, fra il 1998 e il 2001 è andata indietro, con una discesa del 9,5% nell’ultimo anno. In risposta alla crisi, il governo si è indebitato col FMI – per 31,8 miliardi di dollari dal 1999 ad oggi – e ha adottato una serie di politiche sostenute dal FMI. Queste politiche hanno determinato altissimi tassi di interesse, la riduzione delle entrate fiscali e delle capacità di spesa dello stato, un aumento dell’indebitamento estero, una fluttuazione del cambio e una crescita della valuta locale. Si sono anche tradotte nella privatizzazione delle industrie statali (e nella conseguente disoccupazione) e nell’eliminazione di sussidi all’agricoltura e ad altri settori.
I sostenitori di queste politiche sottolineano la crescita iniziata nel 2001. Fra il 2003 e il 2004 l’economia turca è cresciuta annualmente, in media, del 7%. L’inflazione, che nel 2001 era del 68,5%, nel 2004 è stata contenuta all’11,4%.
Ma dietro queste cifre, si prepara una crisi. L’espansione ha portato a un grosso afflusso di capitali dall’estero: 10,9 miliardi di dollari nel 2003 (il 4,6% dell’intera economia) e 12,5 miliardi solo nei primi otto mesi del 2004. Questi sono investimenti prevalentemente speculativi a breve termine, non investimenti diretti (che, ad esempio, espanderebbero la capacità produttiva del paese e creerebbero posti di lavoro). Gli investimenti diretti stranieri di fatto si sono abbassati a partire dal 2000. Il paese è molto esposto a una seria depressione economica, appena si prosciuga il flusso di moneta straniera.
Il flusso di capitali speculativi di questo genere ha l’abitudine di invertirsi, come ha fatto in sia nel 1997, facendo esplodere la crisi finanziaria asiatica e una depressione regionale. In situazioni del genere, gli investitori alla fine cominciano a preoccuparsi della solvibilità del debito. Un evento esterno qualsiasi potrebbe provocare una fuga del genere dalla Turchia: ad esempio, se i tassi di interesse USA e mondiali salissero, come indubbiamente faranno a partire dai loro attuali minimi storici, rendimenti sicuri, come i titoli del Tesoro USA, diverranno molto più allettanti.
L’afflusso speculativo di moneta dall’estero ha anche spinto a una sopravvalutazione la valuta turca, la lira. Anche questa è una bolla che sta per scoppiare. Nel frattempo c’è stata la devastazione delle industrie tradizionali turche, che sono tradizionalmente ad alta concentrazione di mano d’opera grazie al contenimento artificiale delle importazioni. Quindi si è aggravato il problema della disoccupazione. La lira , fra il 2000 e 2003, è cresciuta del 139% rispetto al dollaro.
Il debito pubblico del paese, al 70% dell’economia, è insostenibile. Per sostenerlo, il FMI ha imposto al governo un surplus primario di bilancio del 6,5% (esclusi gli interessi). A confronto del 3% dell’Argentina e del 4,25% del Brasile, questa quota è particolarmente alta e impedisce allo stato di fare gli investimenti necessari in capitale umano e in infrastrutture.
Un’altra parte devastante del programma del FMI sono gli alti tassi d’interesse: i buoni del Tesoro, che sono i beni turchi più importanti sui mercati finanziari, hanno un tasso d’interesse del 26%, ancora altissimo - al 15% reale – se depurato dall’inflazione. Confrontatelo col 2% degli USA: è facile capire perché le imprese in Turchia siano riluttanti a chiedere prestiti e a investire per incrementare le capacità produttive.
In breve, i politici hanno creato un’economia che progredisce in direzione di una bolla speculativa. Sarebbe bello se la maggioranza del popolo turco accedesse almeno ai benefici di questa crescita speculativa, almeno finché dura. Ma sfortunatamente questa eventualità non si verificherà. Dal 2000, la disoccupazione è cresciuta di quasi il 4%, giungendo al 10,5% e, di fatto, i salari reali sono diminuiti.
Dal momento che i colloqui fra la Turchia e l’Unione Europea, sulla possibilità dell’ingresso in quest’ultima della Turchia, continuano, il governo turco dovrebbe riconsiderare le sue insostenibili politiche economiche dell’ultimo quinquennio. Andare avanti con queste politiche economiche sostenute dal FMI, con la speranza di guadagnare credibilità nei confronti dell’UE, può essere pericoloso. Per ironia della sorte, politiche del genere potrebbero condurre a un fallimento economico, che farebbe venir meno ogni possibilità d’adesione della Turchia.
12 dicembre 2004
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