...ancora

“Le previsioni non colgono mai nel segno, è una delle poche certezze che siano date all’uomo. Ma se non colgono nel segno per quel che riguarda l’avvenire, dicono il vero su coloro che le formulano, sono la chiave migliore per capire come vivano il loro tempo presente”.
Sebbene si possa ritenere esagerata la prima asserzione di Milan Kundera (“L’ignoranza”, 2001), è la seconda che ci aiuta a capire perché alcuni economisti americani profetizzano la sventura dell’economia Usa.
Uno di questi è Stephen Roach, managing director e capo economista di Morgan Stanley, una delle più grandi e stimate società di consulenza finanziaria del mondo.
Se certamente l’America di oggi non è l’idillio, è possibile che sia un paese alla vigilia di una “Armageddon economica”, come avrebbe predetto Roach in una riunione a porte chiuse il mese scorso? Poiché la riunione era “riservata”, non si sa se Roach abbia pronunciato veramente questa profezia.
Tuttavia, il Boston Herald ha ottenuto una copia del discorso di Roach e il 23 novembre scorso ne ha pubblicato un resoconto sul suo sito (http://business.bostonherald.com/businessNews/ view.bg?articleid=55356). Curiosamente, sulla Stampa dell’altro ieri è comparsa una “traduzione” dell’articolo del Boston Herald (vecchio di tre settimane) a firma di Giulietto Chiesa.
Facendo un po’ di confusione biblica, la Stampa ha titolato: “Stati Uniti, l’apocalisse dietro l’angolo”.
In ogni caso, sembrerebbe che secondo Roach l’America non avrebbe più del 10 per cento di probabilità di evitare una dolorosa resa dei conti.
L’analisi di Roach è estrema nelle conclusioni ma poco originale nelle argomentazioni: l’indebitamento delle famiglie e del governo americani hanno prodotto una bolla che il deprezzamento del dollaro, necessario a riequilibrare il deficit commerciale, farà scoppiare, innescando una serie di contraccolpi drammatici (aumento dell’inflazione-aumento dei tassi-bancarotte dei debitori-recessione, etc.).
E del resto Roach, che secondo il Boston Herald ha una reputazione di “ribassista”, da anni prospetta scenari pessimisti per il suo paese: due anni fa era un “double-dipper”, ossia uno tra quelli che giudicavano la ripresa della primavera 2002 una falsa partenza e si aspettavano una seconda ricaduta dell’economia Usa nella recessione.

Come siano poi andate le cose, è noto.
Disubbidendo ai pessimisti, l’economia americana – che era entrata in recessione prima dello shock dell’11 settembre – proseguì nella ripresa, e, nonostante gli scandali finanziari e i timori degli scettici, rafforzò la sua crescita nel 2003 e poi nel 2004. Oggi ci sono pochi dubbi che i tagli delle tasse di Bush e la politica della Fed hanno contribuito a stimolare con successo l’economia, che questo anno sembra essere uscita anche da quella fase di “jobless recovery” che aveva caratterizzato il mercato del lavoro fino ad allora.
Si deve allora concordare con Greg Mankiw, il “neo-keynesiano” a capo dei consiglieri economici di Bush e autore di uno dei più fortunati manuali di macroeconomia in circolazione, che recentemente ha detto:
“Quando ho scritto il mio primo libro di testo ho detto ai miei studenti di dare un’occhiata a tre indicatori di prestazione economica - il prodotto interno lordo, l’inflazione e il tasso di disoccupazione – e secondo questi parametri l’economia americana si sta comportando ammirevolmente”?
La risposta è: non completamente. In effetti, il pil aumenterà nel 2004 a un tasso del 4,4 per cento, il tasso d’inflazione sarà del 2,7 e il tasso di disoccupazione del 5,4, come dire crescita elevata con disoccupazione e inflazione basse.
Ma Mankiw sorvola sullo squilibrio esterno degli Usa – il deficit di conto corrente della bilancia dei pagamenti è di circa 572 miliardi di dollari, il 5,5 per cento del pil.
Lo squilibrio esterno – la necessità di prendere a prestito dagli stranieri una grande quantità di fondi per finanziare il deficit delle partite correnti – riflette la scarsità di risparmio nazionale.
La riluttanza degli americani verso la frugalità è stata abilmente sfruttata dalla Fed che, allo scopo di far uscire il paese dalla recessione in cui era entrato alla fine del 2000, ha contribuito non poco con la sua politica alla propensione delle famiglie a indebitarsi e a spendere.
Ma anche il governo in questi anni è stato poco parsimonioso e il deficit di bilancio è stato pari al 3,9 per cento del pil nell’anno fiscale che si è chiuso a settembre (nella media del 2004 si arriva al 4,4). La proposta di bilancio di Bush per il 2005 indica che un aumento del risparmio interno verrà dal governo federale attraverso una limitazione delle sue esigenze di finanziamento.
Le enunciazioni dei governi sono materia discutibile, ma la maggior parte degli analisti concorda nel prevedere che il deficit di bilancio del 2005 sarà intorno al 2,9 per cento del pil (circa 360 miliardi di $), ossia non molto superiore alla media del 2,5 successiva al 1970. E’ probabile che nei prossimi anni il bilancio pubblico resterà sotto controllo, anche in assenza di qualsiasi nuova misura di incremento delle entrate, soprattutto come conseguenza della crescita dell’economia e di una certa tendenza al contenimento della spesa discrezionale (la sostenibilità di lungo termine è un’altra questione alla luce degli aumenti di spesa che vari “diritti” acquisiti faranno maturare dopo il
2012).
Ma anche se non tutti concordano con queste prospettive – secondo la Brookings Institution nel prossimo decennio il deficit di bilancio si assesterà sul 3,5 per cento del pil – è lo squilibrio esterno l’aspetto più problematico dell’economia americana.
Il vero problema di breve-medio periodo per gli Usa è quello di continuare ad avere un afflusso di capitali sufficiente al finanziamento del deficit di parte corrente della bilancia dei pagamenti. Poiché ciò che conta sono i flussi di capitale netti, è necessario considerare sia la convenienza dei risparmiatori non americani a portare i loro risparmi negli Stati Uniti sia quella dei risparmiatori americani a portare i loro in altri paesi. Il permanere di un disavanzo corrente ha infatti reso gli Usa debitori netti, e in misura crescente, del resto del mondo. Questo debito pone problemi di remunerazione dei capitali importati e pone il problema di evitare una fuoriuscita dei capitali posseduti da stranieri. Se lo scenario è questo, la discesa del dollaro è stata inevitabile e dovrà completarsi il prima possibile. Per i seguenti motivi.
Con il deprezzamento del dollaro, il debito americano si svaluta per gli investitori stranieri mentre si rivalutano i crediti americani verso il resto del mondo.
La posizione debitoria americana quindi migliora. Un po’ come avviene con l’inflazione che all’interno di un paese avvantaggia i debitori e danneggia i creditori.
Chi ha già capitali negli Stati Uniti non ha quindi interesse a portare fuori i capitali con il dollaro basso, soprattutto nel momento in cui non vi sono grandi rendimenti in giro nel mondo. Inoltre, il dollaro basso, soprattutto se scenderà ancora e subito annullando le aspettative di ulteriori ribassi, può rendere conveniente investire negli Stati Uniti, così come è conveniente acquistare azioni dopo un crollo di Borsa e non durante i picchi superiori. Simmetricamente non è conveniente per i risparmiatori americani investire all’estero quando i propri risparmi sono in dollari con poco potere di acquisto all’estero. Il dollaro basso dovrebbe quindi favorire l’avanzo del conto capitale della bilancia dei pagamenti oltre che contribuire a riequilibrare la bilancia commerciale.
Tutto ciò eviterà all’economia americana quella dolorosa resa dei conti predetta dall’oracolo di Stephen Roach? Una possibilità alternativa è che il processo che abbiamo descritto sia in grado di favorire un atterraggio morbido, assecondato da un moderato aumento dei tassi che raffreddi il mercato immobiliare ma non rallenti la crescita. D’altra parte l’economia Usa funzionava bene anche con tassi di interesse di tre punti più alti di quelli attuali. La discesa dei tassi è stato il mezzo per creare deliberatamente la bolla immobiliare, servita a compensare lo scoppio della bolla azionaria e quindi a evitare effetti disastrosi sulla ricchezza dei consumatori e il crollo dei consumi. Si tratta ora di tornare gradualmente indietro. Di questa possibilità più benigna deve essersi accorto lo stesso Roach, che il 6 dicembre sul sito della Morgan Stanley ha scritto: “Devo ammettere che recentemente si è realizzata una serie di fattori positivi. Io assegnavo una probabilità del 40 per cento a uno scenario di recessione globale nel 2005… Tuttavia, dati i recenti cambiamenti positivi del petrolio, del dollaro, e della Cina, ora credo che sia appropriato ridurre questo rischio al 25. Non fraintendetemi, la valutazione dei rischi non è la fisica nucleare”. Fino a oggi le politiche americane hanno funzionato, nonostante i perduranti squilibri e i “wishful thinking” di qualche aedo del pensiero no-global. E il grande malato sembra essere invece l’Europa, anche se ormai da oltre un lustro alcuni speranzosi osservatori si aspettano il sorpasso europeo. Quale probabilità assegnerebbe a questo evento Roach? Forse è meglio chiederlo a un fisico.

Ernesto Felli e Giovanni Tria su Il Foglio

saluti