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Risultati da 1 a 3 di 3
  1. #1
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    Predefinito domande al Fronte Rosso

    Amici, buongiorno,

    Io non sono italiano, non conosco la realta politica italiana. Di sensibilità mi sento vicino alla nuova destra di Alain de Benoist, ma anche della critica radicale (Debord e il filone situazionnista). Questo dovrebbe bastare per le presentazioni.

    Le domande che voglio farvi sono le seguenti:

    1) Visto che il capitalismo coincide con la mercificazione del monde, e alla riduzione dell'uomo a semplice merce, dove lo trovate un soggetto rivoluzionario quale la classe lavoratrice?

    2) Secondo me, l'uscita dal capitalismo significa l'uscita dal dominio della razionalita tecnicista al servizio del mercato. Dunque: riduzione drastica della produzione. Voi cosa ne pensate?

    3) L'invasione della merce significa, sul piano simbolico, la distruzione dei valori, tranne il valore di scambio (che tiraneggia il valore di uso). Quest'ultimo, che trova sua origine nel rapporto sociale, dovra dunque essere rimosso se si vuole distruggere il Capitale. Ma allora quali valori proponete alle comunità umane?

    4) Il sogno di un mondo multi-culturalista e multi-razziale non è capitalista? Nel senso che appunto il Capitale non fa differenza tra il nero e il bianco, il cristiano e il musulmano, e cosi via. Se la produzione non è piu fine a se stessa (com'è il caso nel capitalismo), ma sottomessa a decisioni politiche, allora forzatamente si dovra avere anche l'uomo sociale, e dunque culturale.

    5) ... e dunque: voi volete una cultura mondiale? Nel caso contrario, il comunitarismo non pone gravi problemi di co-esistenza tra diverse culture? (com'è il caso oggi in Francia - realtà che conosco bene)

    Grazie per la vostra attenzione.

    Scusate il pessimo italiano.

    Saluti a tutti voi


    P. S.: dove si possono trovare tanti testi di Costanzo Preve? Un indirizzo internet per caso?

  2. #2
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    Predefinito

    Per cominciare i testi di Preve li trovi in rilievo in questo Forum almeno alcuni poi sul sito sovrastante di Socialismo e Liberazione.

    Sui problemi che poni .

    1) E' vero la classe lavoratrice cosi' come intesa dagli apologeti del marxismo non esiste piu'.Oggi i lavoratori sono comprensivi di un universo variegato e complesso rimodellato dalle esigenze del mercato del lavoro.Un soggetyto politico socialista deve considerare che la sua base sociale deve essere ampia e deve tenere conto del fattore nazionalitario.

    2)Sono d'accordo ..la logica produttivista ha distrutto anche i paesi socialisti che hanno rincorso il capitalismo sul suo terreno perdendo il confronto..l'Urss in modo tragico,la Cina adattandosi pragmaticamente al mercato .

    3) sulla merce quale valore di ricosnoscimento tra le persone e nei rapporti sociali hai ragione..i valori che proponiamo sono in sintesi ,condivisione comunitaria di un patrimonio comune nella liberta' individuale e socialismo solidaristico.

    4) Il Capitalismo non fa certo differenze ,ma al contempo negando le differenze alimenta anche il razzismo come propria valvola di sfogo nella competizione tra forza -lavoro ..è quindi chiaro il rifiuto del razzismo da parte nostra .Parimenti siamo per la custodia delle diversita' culturali, ricchezza da tutelare.

    5)Non vogliamo una cultura mondiale..guai ad avere "culture mondiali" valide per tutti..questo è un impostura occidentalista e capitalista..una cultura..nessuna cultura..noi siamo per la tutela delle diverse culture.

    Ciao ed a presto.

  3. #3
    Socialista nazionalitario
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    Predefinito

    orkonner ti posto un paio di articoli di Preve.



    Dieci tesi sulla nuova epoca storica
    Costanzo Preve


    Predatori del mondo intero, adesso che mancano terre alla loro sete di totale devastazione, vanno a frugare anche il mare: avidi se il nemico è ricco, arroganti se povero, gente che né l’oriente né l’occidente possono saziare; loro soli bramano possedere con pari smania ricchezze e miseria. Rubano, massacrano, rapinano, e con falso nome lo chiamano impero: infine dove fanno il deserto, lo chiamano pace.
    Tacito, da “Vita di Agricola”, 98 d.C.

    Ho scritto queste righe nel marzo e nell’aprile del 2003, in preda alla rabbia, alla vergogna ed all’umiliazione nel vedere le belve americane e sioniste distruggere il corpo e l’anima del popolo iracheno. Mi scuso con il lettore per avere talvolta ecceduto. Ho dovuto arrivare a sessant’anni per capire il verso di Bertolt Brecht che dice:”Anche l’ira contro l’ingiustizia rende roca la voce”. Ma il lettore intelligente riequilibrerà dove è necessario.
    Prima di tutto, subito l’essenziale. Bisogna impedire ai mostri americani e sionisti di distruggere le nostre anime oltre ai nostri corpi, e cioè di farci diventare come loro, disumanizzandoci completamente. Questa è la ragione per cui continuo a non approvare gli attentatori delle Torri Gemelle, e non condivido nel profondo frasi come “se la sono voluta”, “hanno avuto quello che hanno seminato”, ecc. Non ho certamente passato la vita a decostruire gli aspetti fetidi del comunismo storico novecentesco per avere Bin Laden come ultima spiaggia. I mostri americani e sionisti avranno vinto quando ci avranno disumanizzato come loro. Scrive il direttore della “Stampa”, uno dei giornali più sionistizzati d’Italia: ”La guerra che sa di festa” (cfr. la “Stampa”, 10-04-2003), alludendo alla povera plebaglia impaurita che ballonzola davanti ai marines ed alle oche mediatiche e riproduce la solita Scena Primaria della Democrazia che vince contro la Dittatura. Dopo venti giorni di stermini tecnologici vili ed infami abbiamo “la guerra che sa di festa”, e chi lo scrive non capisce neppure che Goebbels è ancora vivo, e cammina con lui. Ecco, bisogna evitare di diventare come loro. Qui l’incorreggibile umanesimo, troppo spesso incautamente diffamato, deve aiutarci. Dobbiamo odiare, ma dobbiamo evitare che l’odio si installi nei nostri cuori e li divori. Non dobbiamo diventare come loro. Questo, e solo questo, è l’essenziale. Onore al popolo iracheno. Il popolo iracheno si è battuto, e così pure gli stupendi volontari che lo hanno raggiunto. Il circo mediatico e le ridicole donne in carriera della televisione italiana con le loro urla isteriche all’arrivo dei marines imperiali a Baghdad sono al servizio dell’impero e del sionismo, e devono proseguire simbolicamente la guerra mostrando plebi straccione che barcollano sotto poltrone rubate e che inneggiano alle belve per esorcizzarne la ferocia. Tutto previsto. Per venti giorni e più si sono uccisi i corpi, ora bisogna ucciderne le anime e le immagini. Il sionismo in questo è specializzato, e lo fa da decenni. Non cadiamo nella rete di questi cialtroni. Onore al popolo iracheno, che si è battuto bene.
    Onore al vecchio Pietro Ingrao. Io non do un giudizio positivo sulla sua funzione storica di copertura ideologica di “sinistra” al baraccone PCI-PDS-DS, e continuerò a non nasconderlo. Ma giunto al limite della sua vita, quando ormai sono finiti i giochi, Ingrao ha detto apertamente che un popolo aggredito ha il diritto di resistere, e fa bene a farlo. Questo per me basta ed avanza per mandare un saluto rispettoso ad Ingrao, e per manifestare il mio disprezzo per la marmaglia di “sinistra” che auspicava una rapida fine della guerra con la resa degli aggrediti, esattamente lo stesso obbiettivo di Bush, di Cheney e di Rumsfeld (ma con intenzioni di “sinistra”). Vergognosi cialtroni. Ci sono fra i piedi da decenni, e continueranno ad esserlo, perché qualcuno paga e finanzia profumatamente perché lo siano.
    Onore al vecchio scrittore Oreste del Buono. Dal 1945 del Buono non ha mai avuto nulla in comune con la carovana populista degli scrittori “impegnati”, “organici”, ecc. Ed ora (cfr.”La Stampa”, 10-04-2003) scrive con lucidità: “Davvero crede, caro lettore, che se gli Stati Uniti avessero avuto il loro antagonista e freno storico si sarebbero azzardati a compiere un atto illegale e insensato come la guerra contro l’Iraq?”. Qui è detto tutto, e questa frasetta vale vent’anni di collezione del “Manifesto” e di “Liberazione”. Chi scrive ha sempre avuto ribrezzo per la feccia della burocrazia comunista, che simboleggiava nella permanenza della Mummia (Lenin, Stalin, Mao, Dimitrov, ecc.) il delirio di permanenza della sua abbietta natura sociale. Ma sono rimasto angosciato quando ho visto il baraccone dissolversi nel 1991 perché in questa dissoluzione c’era il Kosovo 1999 e Baghdad 2003. Grazie ancora, Oreste del Buono.
    Grazie ad Alberto Asor Rosa per aver colto il punto essenziale che falangi di girotondari e no-global neppure riescono a sfiorare concettualmente (cfr. La grande caccia, in “Manifesto”, 06-04-2003): “La grande caccia è cominciata. Quando dovremo difendere noi stessi, invece dei civili iracheni massacrati, tutto sarà più chiaro”. Infatti è proprio questo il punto. Fino a quando le isteriche donne in carriera del giornalismo italiano potranno esultare nel vedere ladri e saccheggiatori rubare vasi da fiori e chiamare questo “liberazione” nulla cambierà in questo popolo corrotto lottizzato fra il Grande venditore Berlusconi ed il Grande Mentitore D’Alema. Ma quando i ragionieri cominceranno a non poter più andare a Santo Domingo e gli operai in motocicletta cominceranno a non potersi più impasticcare in discoteca il sabato sera perché l’economia americana ci strangolerà, allora e solo allora, le cose cambieranno. Chi crede fino ad allora di poter “far politica” ed “avere l’egemonia nella sinistra” è fuori dal mondo. Mia madre, una signora nata nel 1920 e che aveva la quinta elementare, mi disse sempre che l’egemonia del fascismo sulla gente fino al 1942 era pressochè completa, e le cose cominciarono a cambiare solo nei primi sei mesi del 1943 con i bombardamenti a tappeto indiscriminati americani. Io allora non ci credevo, nella mia stupidità storiografica di “sinistra”, e pensavo che la gente fosse diventata antifascista leggendo gli eroici volantini clandestini. Nulla è peggio che diventare prigioniero delle proprie menzogne. Finché il corrotto popolo italiano penserà di poter mangiare fino all’obesità all’ombra degli assassini americani e sionisti non cambierà niente, se non in piccoli gruppi di filatelici politici. Ma è solo questione di tempo prima che l’impero ci scarichi addosso le sue crisi economiche, ed allora forse si aprirà lo spazio per quel blocco geopolitico eurasiatico di cui parla Emmanuel Todd (cfr. “Il Manifesto”, 04-04-2003), e che vedo realisticamente come la sola prospettiva storica possibile (alle idiozie New Global fingo talvolta di credere solo per amor di pace e per amor socratico-levantino del dialogo inutile da caffé, così come faccio con il general intellect, le moltitudini disobbedienti, le macchine desideranti, il ginseng e l’aerobica).

    1. L’inizio della terza guerra mondiale
    Il 20 marzo 2003, giorno in cui i criminali americani, i loro servi inglesi ed i loro padroni sionisti iniziarono l’attacco illegale ad un paese sovrano, il cardinale cattolico Etchegaray fece una dichiarazione inquietante ed impegnativa, che i giornali pubblicarono, ma che passò egualmente sotto silenzio nell’assordante rumore della chiacchiera mediatica. Etchegaray disse, non smentito, semplicemente questo: “Oggi è cominciata la terza guerra mondiale”.
    A prima vista potrebbe sembrare un’esagerazione dettata dall’emozione di chi si era molto impegnato nei mesi precedenti per impedire questa guerra. In fondo, questa guerra potrebbe essere interpretata superficialmente, a “sinistra”, come una guerra economica per il prezzo del petrolio oppure come una guerra geopolitica di controllo militare totale del Medio Oriente, ed a “destra” come un’ennesima guerra antitotalitaria per l’esportazione della libertà occidentale a folle straccione ma festanti. Ma Etchegaray a mio avviso non esagera, e purtroppo ha ragione. Bisogna partire dalla sua diagnosi terribile e realistica per capire qualcosa dei tempi che si stanno aprendo. Se non mutiamo integralmente la nostra percezione dei fatti politici e se non ci rendiamo conto che occorre riposizionare integralmente il nostro sguardo “gestaltico” rischiamo di non capire nulla, e di continuare ad affrontare il 2003 con gli occhi del 1789, del 1848, del 1914, del 1945, o del 1968.
    Il 2003 vede la dichiarazione di guerra dell’impero americano potentemente armato contro tutti coloro che nel mondo decidono o decideranno in futuro di resistergli. E’ per questo, naturalmente, che “non possiamo non dirci antiamericani”, anche se il ceto politico professionale e lo strapagato circo mediatico tentano e tenteranno sempre di più di esorcizzare questa sobria espressione. Essere antiamericani, ovviamente, non significa condannare Melville ed Humphrey Bogart, Hemingway e Marylin Monroe, e non significa neppure fare di ogni erba un fascio e smettere di distinguere fra “americhe” differenti, alcune odiose e ripugnanti ed altre simpatiche e gradevoli. Essere antiamericani significa semplicemente proclamare (e fare poi seguire alle parole i fatti) la propria volontà di resistenza al dominio unilaterale di un unico impero mondiale.
    E’ difficile che un popolo corrotto e culturalmente svuotato come quello italiano sia in grado di assumersi le responsabilità storiche di questa resistenza. Su questo le ultime canzoni di Giorgio Gaber hanno purtroppo detto tutto quello che c’era da dire. In sintesi, Etchegaray e Gaber ci dicono due verità terribili, che bisogna guardare in faccia: nel marzo 2003 è cominciata la terza guerra mondiale, ed il popolo italiano nella sua maggioranza (non parlo qui di alcune sue meravigliose minoranze) è talmente culturalmente corrotto da non poter capire quello che sta avvenendo.
    Il fatto è, che lo vogliamo o no, che alla dichiarazione di guerra unilaterale dell’impero americano qualcuno resisterà, e già molti si preparano a resistere, in forme estremamente differenziate. C’è chi costruirà sommergibili nucleari e li farà navigare negli oceani, per evitare un altro marzo 2003. E c’è chi ha capito che per l’Europa non c’è futuro se non riacquista una sfera di indipendenza, al punto che un moderato neoliberale come il francese Giscard d’Estaing ha parlato seriamente di una “dichiarazione d’indipendenza” per l’Europa del 2003 paragonabile alla dichiarazione d’indipendenza americana del 1776.
    Si dirà che la guerra non è stata iniziata il 20 marzo 2003, ma l’11 settembre 2001 con l’attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono. Non è vero. E non è vero per il semplice fatto che l’attacco dell’11 settembre 2001 fu fatto da forze ben precise, e cioè da Al Qaeda, e cioè da un gruppo semiprivato saudita che contestava un fatto estremamente specifico, e cioè l’istallazione di basi militari americane in Arabia Saudita. Coloro che sostengono che gli USA hanno un diritto di autodifesa e di prevenzione devono di fatto “alqaedizzare” tutto ciò che si oppone nel mondo alla globalizzazione imperialistica americana. Questo è un gioco sporco, perché si basa su di una menzogna originaria. Il discorso dell’impero, dei suoi servi anglosassoni e dei suoi burattinai sionisti deve simbolicamente “alqaedizzare” tutto ciò che resiste o resisterà all’impero.
    Ma questo è lo scenario della terza guerra mondiale. Non pretendo certo che il ceto politico professionale e lo strapagato circo mediatico lo capisca. E’ chiaro che non può capirlo, perché non ha neppure le categorie concettuali per farlo. Dall’ideologia imperiale il ceto politico ed il circo mediatico ha assunto acriticamente la premessa della condanna (sacrosanta) di Auschwitz e della assoluzione (schifosa) di Hiroshima. E’ questa, secondo il filosofo irlandese Desmond Fennell, la base metafisica unitaria dell’odierna civiltà post-occidentale, che appunto non è neppure più occidentale in senso greco o cristiano. Bisogna partire da qui. Il resto seguirà.

    2. La nascita del dominio, la paura della morte e la resistenza.
    Considerazioni filosofiche elementari.
    Uno dei maggiori criminali di guerra americani, Donald Rumsfeld, ha dichiarato alla CNN il 23 marzo: “Tutto potrebbe terminare prima se la gente si comportasse razionalmente, deponendo le armi e smettendo di opporre resistenza. Ma tutto potrebbe terminare fra più tempo se si comporteranno da stolti, se si faranno uccidere perché si rifiuteranno di arrendersi e non deporranno le armi. Noi non ci fermeremo, mai”.
    Rumsfeld non passerà probabilmente sui manuali di storia della filosofia occidentale, ma senza volerlo ha potentemente contribuito a proporre una nuova nozione di razionalità e di comportamento razionale. La razionalità consiste nella sottomissione. Uno dei motti dell’impero romano era: parcere subiectis et debellare superbos, che potremmo tradurre letteralmente come risparmiare la vita a chi si butta ai nostri piedi e distruggere con la guerra chi continua a rimanere eretto. L’equazione fra razionalità e sottomissione viene ostentata da Rumsfeld e ripetuta milioni di volte dal ceto politico, dal circo mediatico e dalla corte dei buffoni intellettuali di servizio. In questo nulla di nuovo sotto il sole. Di nuovo c’è invece che, forse per la prima volta nella storia della tradizione occidentale, il popolo è ridotto a puro destinatario di intervento umanitario, chi resiste è diffamato come fanatico e seguace totalitario di Hitler (e in subordine di Stalin), ed i musulmani vengono visti come gli ultimi kamikaze in un mondo che non vorrebbe altro che consumare pacificamente.
    A suo tempo, Pietro Micca si fece saltare in aria per il re del Piemonte senza che nessuno osasse diffamarlo come kamikaze musulmano fanatico. Un altro esempio di kamikaze è stato l’eroe veterotestamentario Sansone, che come è noto si suicidò facendo morire con sé più filistei possibile. Un curioso esempio che i sionisti sembrano aver dimenticato. Ma il suicidio spirituale dell’occidente oggi è giunto al punto tale da diffamare come fanatico chiunque resista per difendere il suo popolo ed il suo paese. Questa infamia, frutto congiunto del dominio dell’oligarchia finanziaria capitalistica e della spregevole dissoluzione morale del comunismo storico novecentesco, deve essere segnalata e denunciata.
    La tradizione culturale occidentale comincia con l’Iliade di Omero. Nell’Iliade il troiano Ettore, pur sapendo benissimo che Achille ha con sé gli dei (equivalente antico della tecnica meccanizzata contemporanea, in quanto al di sopra delle possibilità umane di controllo), decide egualmente di accettare la sfida, combatte e muore di fronte alla moglie ed al figlio. Omero non si sarebbe mai sognato di parlare di “regole di ingaggio” degli Achei, di “sacche di resistenza” dei troiani, di “milizie di Priamo” che tengono in “ostaggio” i troiani che non aspettano altro che l’arrivo degli interventi umanitari, eccetera. Omero credeva ancora nel diritto di resistenza di un popolo aggredito, a differenza del ceto politico, del circo mediatico e della corte di intellettuali pagliacci. Priamo e Ettore non erano ancora stati simbolicamente “hitlerizzati”, ed in questo modo privati addirittura del diritto alla guerra giusta di difesa e di resistenza.
    Ma se Omero vi sembra troppo lontano nel tempo, spostiamoci più vicini a noi ed alla cosiddetta “modernità”, e cioè ad Hegel. Mi riferisco alla teoria hegeliana sulla nascita del potere politico, esposta nella cosiddetta “prima figura” della Fenomenologia dello Spirito, che esporrò qui brevemente. Non mi perderò in particolari filologici, perché voglio che si capisca solo l’essenziale.
    Hegel, in estrema sintesi, non crede che il potere politico possa nascere da un contratto sociale. E’ interessante che egli rifiuti tutte le varianti del contrattualismo che oggi chiameremmo di “destra” (Hobbes), e di “centro” (Locke) e di “sinistra” (Rousseau). Come si vede, egli era su questo punto un precursore di coloro che rifiutano integralmente una problematica che ritengono errata, al di là delle versioni con cui questa problematica può essere presentata. In realtà Hegel non crede, ed a mio avviso ha perfettamente ragione, che qualcuno potrebbe acquisire una posizione di potere e qualcun altro accettare un ruolo di servizio attraverso una negoziazione contrattuale. Vi è qui una critica anticipata ai vari Rawls, Habermas e Rorty su cui non mi soffermo per ragioni di spazio. Il potere infatti non nasce mai da un contratto, ma da un atto di forza, più esattamente da un atto di paura della morte, che fa inginocchiare ai piedi del vincitore il vinto che in questo modo accetta la schiavitù per avere in cambio salva la vita.
    L’assassino Rumsfeld non ha probabilmente mai letto Hegel, troppo occupato per progettare le stragi, ma coglie il punto essenziale della questione meglio di tutto il cosiddetto “pensiero debole”, di Rawls, di Habermas e di Rorty, senza parlare del ceto politico, del circo mediatico e della corte dei miracoli intellettuale universitaria globalizzata. In sede teorica si è parlato moltissimo del rapporto fra Hegel e Marx (continuità, discontinuità, eccetera), ma io vorrei qui limitare a questo solo punto, ed a nessun altro, il rapporto fra Hegel e Marx. Marx fraintende tragicamente Hegel su molti punti, ed in questo modo ne abbassa il livello teorico anziché alzarlo, ma su di un punto lo comprende perfettamente. Ed il punto fondamentale sta in ciò, che il potere non nasce da un contratto, ma da un reciproco scambio di coraggio e di paura, di aggressione e di resistenza. Prima di diventare schiavo, il combattente può scegliere fra il continuare a lottare o arrendersi. E’ esattamente questa la situazione in cui ci troviamo, o meglio la situazione che ha messo di fronte al mondo l’impero americano, i suoi servi inglesi ed i suoi padroni sionisti.
    Come si vede, e qui chiudo su questo punto, non c’é bisogno di “hitlerizzare” i musulmani come i soli che sono disposti “irrazionalmente” a rischiare la vita pur di non sottomettersi. La scelta filosofica fra morte e sottomissione è un classico della migliore tradizione occidentale, da Omero a Hegel (e Marx), e nessun ceto politico, circo mediatico e corte dei miracoli intellettuale potrà nasconderlo a lungo.

    3. L’impero americano, la globalizzazione e l’imperialismo
    La guerra scatenata il 20 marzo 2003 dall’impero americano, dai suoi servi inglesi e dai suoi padroni sionisti ha fatto a mio avviso piazza pulita per sempre del chiacchiericcio intellettuale del decennio 1993-2003, secondo cui il Novecento è frutto del delirio produttivistico dello homo faber inebriato dal fordismo e secondo cui la globalizzazione ha reso del tutto sorpassata ed obsoleta la categoria di “imperialismo”. Bisogna solo vergognarsi del fatto che simili stupidaggini siano state prodotte dalla corte dei miracoli degli intellettuali, diffuse dal circo mediatico delle pagine culturali presunte “colte” e recepite pensosamente da una parte del ceto politico professionale dilettante ed analfabeta. Ma dopo il 20 marzo 2003 è possibile vedere questo episodio culturale con maggiore prospettiva.
    In estrema sintesi la teoria per cui siamo ormai in una globalizzazione senza imperialismo, in cui moltitudini disobbedienti spinte dal desiderio potranno trasformare magicamente il capitalismo finanziario in comunismo negriano, ecc., deve essere vista come una variante metropolitana semicolta della vecchia esorcizzazione della paura della morte e del rifiuto infantile del principio di realtà. La realtà era Sharon, Bush e Rumsfeld, ed il ceto intellettuale semicolto alla moda credeva che fosse Revelli, Negri e Hardt. E questo ovviamente niente affatto a caso.
    E’ possibile che io sia sconvolto ed emozionato dalla guerra scatenata nel marzo 2003, e che tenda ad esagerare la severità della mia diagnosi. Se questo avviene, vorrei che il lettore mi correggesse, visto che la pubblicazione delle opinioni dovrebbe servire proprio a questo, e non ad alimentare il narcisismo degli scrittori. Ma temo purtroppo di cogliere nel segno. La dissoluzione non solo politica, ma soprattutto storica (e storica significa prospettica) del comunismo storico novecentesco ha gettato un settore importante del mondo intellettuale detto di “sinistra” nella confusione più totale. Anziché dichiarare ufficialmente lo “stato di confusione” si è preferito coprirlo con la solita doppia fuga: la fuga all’indietro (alla Marco Revelli), alla ricerca di un’impossibile riproposizione del mutualismo cooperativistico ottocentesco travestito da banca etica, da sinistra sociale e da no profit, e la fuga in avanti (alla Toni Negri), all’inseguimento di inesistenti moltitudini disobbedienti e desideranti.
    Il passatismo ed il futurismo sono due aspetti complementari di una unica realtà, quella del rifiuto del guardare in faccia il presente. Il presente è la dichiarazione di guerra al mondo dell’impero americano. Per questo, è necessario un ritorno a Marx che non esorcizzi il (purtroppo) indispensabile ritorno a Lenin, e cioè alla categoria di imperialismo. In Italia, coloro che negli ultimi anni hanno lavorato di più per riqualificare questa categoria sono stati a mio avviso Gianfranco La Grassa e Domenico Losurdo, due pensatori che sono peraltro in forte dissenso a proposito del bilancio storico del comunismo storico novecentesco (negativo per l’uno, semipositivo per l’altro) e dello statuto teorico del marxismo (antistoricistico per l’uno, sostanzialmente storicistico per l’altro). Ma la relativa convergenza sulla questione della centralità dell’imperialismo americano come nemico principale dei popoli del mondo dimostra come sia possibile per dei pensatori onesti ed intelligenti isolare le pur profonde divergenze (non eliminarle, semplicemente isolarle e discuterle poi a parte) per concentrarsi sul cosiddetto “aspetto principale della contraddizione” (un tema su cui è utile rileggere sia Hegel sia Mao Tsetung).
    Non a caso, sia La Grassa sia Losurdo sono stati isolati come appestati dal “pensiero unico” del “politicamente corretto” della casta unificata dei politici e dei giornalisti della cosiddetta “sinistra” italiana. Anche questo, ovviamente, non è affatto un caso. I dibattiti vengono oggi manipolati costituendo artificialmente uno “spazio” da cui vengono escluse ferocemente tutte le posizioni che si è deciso a priori in modo oligarchico che debbano essere escluse. Il piccolo mondo che va dal “Manifesto” a “Liberazione” non fa così che riprodurre in un bicchier d’acqua il modello attuato in una grande piscina dal “Corriere della Sera”, dalla “Stampa” e da “Repubblica”. Certo, molti storici delle idee se ne accorgeranno, ma possono passare anni e decenni, e nel frattempo il male è fatto, ed è irreversibile.
    L’apparente unanimità dei vertici mediatici del movimento No Global ad escludere la categoria di imperialismo deve dunque essere messa al centro dell’attenzione. Nessuno si fiderebbe di un chirurgo che intende operare senza prima esaminare le cartelle cliniche, le analisi di laboratorio e le radiografie (e non parlo qui ovviamente della cosiddetta chirurgia di urgenza). Ma oggi il movimento no global è rappresentato da dilettanti ideologici più cretini che malvagi, manipolati dietro le quinte da apparati ideologici e mediatici più malvagi che cretini. Questa vergogna deve finire, ed il ritardo a porre il problema con la dovuta urgenza, che era soltanto fastidioso ed in fondo ridicolo prima del marzo 2003, ora diventa veramente intollerabile.

    4. L’ispirazione religiosa dell’impero americano
    Si sono scritti molti buoni libri e molti ottimi saggi sull’ispirazione religioso-messianica dell’impero americano, e non c’è qui ovviamente lo spazio per riassumerne gli illuminanti dettagli. Tuttavia, vi è una tendenza, a mio avviso errata, a limitare il discorso alla cosiddetta “destra evangelica”, ai predicatori televisivi del Middle West, al gruppo di George Bush e dei cosiddetti “rinati in Cristo”, ecc. Questa tendenza limitativa è analoga alla tendenza politica di chi polemizza contro l’opportunità del cosiddetto “antiamericanismo” (e di manifesti antiamericani come quello che ho avuto l’onore di firmare e che ovviamente firmerei ancora), sostenendo che l’America è un paese complesso e pluristratificato, che non può e non deve essere ridotta al solo imperialismo, che come ovunque anche là c’è il buono ed il cattivo, che noi dobbiamo allearci con il buono contro il cattivo, ecc., ecc.
    Non intendo qui polemizzare contro le buone intenzioni morali e filosofiche di coloro che amano “l’altra America”, e che perciò non firmerebbero mai un manifesto dichiaratamente antiamericano perché vedono in esso il pericolo di fare di ogni erba un fascio, ecc. Fra costoro ho alcuni fraterni amici, e considero questo dissenso del tutto secondario. Ma colgo l’occasione per chiarire ancora una volta che la questione dell’ispirazione religioso-messianica dell’impero americano potentemente armato è una questione costitutiva della stessa identità fondamentale degli USA, da destra a sinistra, o meglio dai repubblicani ai democratici, perché si fonda sull’equazione fra identità americana e sua universalizzazione mondiale proiettiva. Si tratta di un universalismo potenziale presupposto, che non passa attraverso il filtro filosofico, dialogico e razionale, ma si basa sull’assunzione di una missione mondiale speciale da compiere. Ora, tutti questi complicati paroloni si possono riassumere in una parola sola: religione. Ed infatti l’universalismo potenziale presupposto (che si traduce in linguaggio economico e finanziario con il termine di “globalizzazione”, che non passa attraverso il filtro filosofico, dialogico e razionale (e cioè attraverso l’eredità prima greca-classica e poi illuministico-europea), ma si basa sull’assunzione di una missione mondiale speciale da compiere, si chiama religione fondamentalista, ed allora il quesito fondamentale da risolvere diventa: che tipo esattamente di religione fondamentalista?
    Si tratta di una religione fondamentalista nuova, condivisa nell’essenziale da tutta la classe dirigente e dalla stragrande maggioranza del popolo americano (con minoranze certo importanti e per questo tanto più stimabili ed apprezzabili, ma comunque restano minoranze, ed anche minoranze statisticamente molto piccole), una religione fondamentalista che ha due componenti storiche principali, il fondamentalismo cristiano protestante ed il fondamentalismo ebraico e sionista. Dunque, bisogna essere ben chiari su questo punto. Non tutti i protestanti e tutti gli ebrei, ovviamente, ma solo le componenti fondamentalistiche protestanti ed ebraiche. Ed ancora, cattolici ed ortodossi, induisti e buddisti sono solo massa plebea di manovra. I cattolici e gli ortodossi sono plebe etnica facilmente incorporabile nello strato inferiore dell’americanismo (poliziotti irlandesi, padrini italiani, operai polacchi, braccianti latinoamericani), mentre ai buddisti è delegata l’igiene mentale, lo stretching, lo zen californiano ed il mito tibetano per attori hollywoodiani stanchi per le eccessive scopate. Non mi soffermo qui sulle origini puritane seicentesche di questa religione della missione speciale, se non per attirare l’attenzione sulla preferenza del riferimento all’Antico Testamento piuttosto che al Nuovo, e dunque sui temi del popolo eletto, della secessione dall’Egitto del faraone, dell’occupazione genocida della Palestina, ecc., rispetto al messaggio di amore e di fratellanza di Gesù di Nazareth. Del resto, i pionieri ottocenteschi genocidi degli indiani pellerossa ed asservitori dei braccianti ispanofoni messicani (sistematicamente presentati dai western hollywoodiani in veste di pecorai ridanciani ma scemi) non mancavano mai di tre cose essenziali, la pistola, la bottiglia di whisky e la bibbia protestante. Ma conviene farla corta, ed arrivare al dunque.
    Ed il dunque sta in ciò, che le due componenti del fondamentalismo protestante e del fondamentalismo sionista si sono finalmente fuse insieme, cosa che non era avvenuta fino a circa venti anni fa, in quanto la destra protestante americana tendeva ancora ad essere antisemita (e si pensi solo al capitalista Ford, che faceva distribuire ai suoi venditori di automobili anche i famigerati Protocolli dei Savi di Sion, falso dei servizi segreti zaristi russi fatto passare per piano degli ebrei per conquistare il mondo). Fuse insieme, queste due componenti originarie formano una religione nuova ed inedita, che occorre comprendere bene nella sua natura.
    La componente fondamentalista protestante è sempre quella descritta a suo tempo da Max Weber nel suo studio sul calvinismo, per cui la ricchezza capitalistica acquisita con il commercio e con l’industria è vista come un segnale della predilezione divina, e per cui di conseguenza la ricchezza è virtù e la povertà è peccato. La componente fondamentalista ebraica è quella per cui non tutti i popoli sono eguali, ma uno è orwellianamente più eguale degli altri, ed è il popolo eletto da Dio, che lo ha scelto per comunicare al mondo la sua volontà ed i suoi comandamenti, il che fa di questo popolo eletto qualcosa di speciale e di sottratto alle leggi ordinarie, fino ad occupare un territorio popolato da duemila anni da altri, scacciarli e se si difendono diffamarli ancora come “terroristi” (e questo è fino ad oggi un vero unicum nella storia mondiale).
    Si dirà che questa mostruosa religione è il frutto dell’occidentalismo e della tradizione occidentale. Ma qui ripeto per la seconda volta la tesi di Fennell. Da quando si è deciso di criminalizzare Auschwitz e di assolvere Hiroshima (e non di condannare entrambe come sarebbe stato necessario) la tradizione occidentale propriamente detta è stata interrotta, e viviamo ormai in una condizione post-occidentale. I bombardamenti su Baghdad del marzo e dell’aprile 2003 sono in questo senso pienamente post-occidentali, anche se non intendo ovviamente negare la continuità con il vecchio colonialismo imperialistico.
    Anche trascurando fenomeni culturali giganteschi come il pensiero scientifico moderno ed il marxismo, resta il fatto che nella tradizione occidentale correttamente ricostruita ci sono almeno tre componenti storiche e culturali imprescindibili, la filosofia greca, il cristianesimo ed infine l’illuminismo, e che queste tre componenti strutturali sono a loro volta passibili di interpretazioni differenziate ed anche divergenti. Ora, la nuova religione fondamentalista dell’impero americano elimina la componente greca (che era dialogica) e la componente illuministica (che era razionalistica). Eliminati l’elemento dialogico e l’elemento razionalistico, e cioè Socrate e Diderot, resterebbe apparentemente il solo elemento cristiano, ma in realtà non resta neppure quello, perché è un cristianesimo da crociati assassini, senza Francesco di Assisi e senza irenismo, e quindi senza pace e giustizia.
    L’impero americano non è dunque l’esito della tradizione occidentale, e questo bisogna dirlo sopratutto a tutti quei cristiani, ebrei e musulmani onesti che sono sbigottiti da quanto sta accadendo e quindi si lasciano tentare dall’idea sbagliata di buttare via il bambino con l’acqua sporca. E’ invece più utile fare alcune prime sommarie ipotesi su quali sono o possono essere oggi le basi sociali e culturali dell’impero americano.

    5. Le tre forme attuali dell’americanismo: base di classe, base di massa e copertura
    ideologico -simbolica
    L’americanismo è molto forte. Di qui bisogna partire. E non è solo forte sul piano tecnologico e militare. Anche se può sembrare strano, non sta qui la sua forza. E’ vero che gli USA potrebbero distruggere il mondo cinquantamila volte con le loro armi, ma basta poterli distruggere tre sole volte (e questo per fortuna è alla portata di qualunque stato nucleare) per pareggiare la partita. Qui sta la debolezza dello slogan americano:”Colpisci e terrorizza”. Si può terrorizzare solo chi accetta di essere terrorizzato. Io ho un grande rispetto ed una grande considerazione per i “martiri” (impropriamente e stupidamente chiamati kamikaze), perché essi hanno capito qual’è il punto debole dell’americanismo e del sionismo. Dunque, la forza dell’americanismo non risiede in prima istanza negli apparati tecnologici e militari, anche se essi ovviamente sono apparsi in primo piano nel marzo e nell’aprile 2003.
    La forza dell’americanismo è infatti prima di tutto sociale e culturale. In proposito, bisogna distinguerne tre distinti livelli, la sua base storica di classe, la sua base sociologica di massa ed infine la sua copertura ideologico-simbolica.
    In primo luogo, la base storica di classe dell’impero americano non è la borghesia, come ripetono tutti i veteromarxisti fermi nell’analisi a mezzo secolo fa, ma è una nuova classe, che potremo definire “classe media globale”, e che non è più la “borghesia”, anche se ne rappresenta un’evoluzione degenerativa. La borghesia, che non si è mai ridotta agli agenti sociali della produzione capitalistica (questa è sempre stata l’equazione del sozzo e ripugnante marxismo economicista), è una classe dialettica, e cioè insieme apologetica e critica (della società capitalistica), e pertanto è la classe che produce Hegel e Marx, Tolstoj e Kafka. La borghesia produce filosoficamente la “coscienza infelice”, da cui è sorto al 100% il pensiero di Marx. Oggi questa classe media globale (global middle class), anche se si struttura in tre diversi livelli di reddito (alto, medio e basso), non è più la borghesia, ed infatti respinge l’eredità greca come l’eredita illuministica. Questa classe post-borghese non è però unificata al suo interno, almeno in Europa, in Giappone e nel cosiddetto Terzo Mondo, perché una parte per ora maggioritaria e dominante intende sottomettersi direttamente e servilmente all’impero americano, mentre una parte si rende conto che in questo modo finisce con lo scavarsi la fossa, e comincia a pensare in termini di autonomia economica, politica, culturale e militare.
    La classe media globale è oggi differenziata esclusivamente per livelli di reddito, e questo non permette lo sviluppo di un’autonomia culturale reale. In quanto gruppo sociale quasi oscenamente postborghese, questa classe media globale ha sviluppato una cultura totalmente degenerata e vigliacca. Ancora una volta lo si è visto nel marzo e nell’aprile 2003, in cui non è stata neppure capace del tradizionale rispetto per il debole che ha il coraggio di resistere (le milizie di Saddam, i rubinetti d’oro dei suoi faraonici palazzi, i fedayn fanatici, tutto, pur di non dover mai pronunciare la parola “popolo iracheno che resiste”).
    Anche se postborghese, ed anzi appunto perché postborghese, questa classe media globale è molto forte. Essa è priva di coscienza infelice, e quindi è soddisfatta del suo bestiale nichilismo. Rispetto alla borghesia tradizionale essa si è allargata socialmente incorporando mano a mano strati sociali provenienti dalle classi popolari (ad esempio i ceti politici professionali operai e socialisti, la cui evoluzione culturale può essere fotografata con il passaggio da “l’Unità” a la “Repubblica”). Non bisogna limitarsi all’aspetto morale paragonando il viso pensoso ed intelligente di Gramsci con il ghigno cinico di D’Alema. Questa ottica “moralistica”, pur comprensibile, è assolutamente insufficiente. Bisogna esaminare il passaggio da Gramsci a D’Alema dal punto di vista del successo delle capacità storiche di integrazione culturale del capitalismo. E queste capacità di integrazione culturale si basano proprio sul passaggio dalla borghesia alla classe media globale, un passaggio che a modo suo è anche una vera e propria “democratizzazione”, nel senso ovviamente di Tocqueville e non di Marx.
    In secondo luogo, la base sociologica di massa del nuovo impero americano rappresenta, in un certo senso, non tanto la fine del “proletariato” (in senso marxista), quanto proprio la fine del “popolo” in senso moderno. Questo è un punto fondamentale da capire, che il sozzo e ripugnante marxismo economicista non potrà capire mai. Io non mi stupisco assolutamente della cosiddetta “fine del proletariato”, per il fatto che non ho mai creduto al proletariato stesso. Intendiamoci. Il proletariato come insieme sociologico e statistico delle classi salariate a basso reddito, del lavoro manuale subalterno, eccetera, non è un opinione, ma è un fatto macroscopico, che comprende nel mondo ben più di un miliardo di persone. Alludo qui al proletariato della mitologia marxista, la Classe In Sé che diventa Classe per Sé. Chi dopo un secolo e mezzo continua ancora a cullarsi in questa illusione si merita non solo George Bush ma anche Toni Negri.
    No, il vero problema non è, e non è mai stato, il cosiddetto tramonto del proletariato, ma è proprio il tramonto del popolo, e l’americanizzazione consiste proprio in questo. A partire dal Settecento europeo almeno il termine “popolo” ha indicato la costituzione politica autonoma di coloro che prima facevano parte dei servi della gleba e delle masse contadine ed artigiane. Il popolo è stato il protagonista del 1789, del 1848 ed infine del 1917. Il popolo ha rappresentato il superamento dialettico per linee interne della precedente plebe.
    L’americanismo rappresenta la ritrasformazione del popolo in plebe, più esattamente del popolo ottocentesco e novecentesco in nuova plebe che non è più creatrice di cultura popolare ma solo consumatrice di cultura di massa. In proposito sono determinanti i due momenti successivi della “massificazione” davanti alla televisione e della “individualizzazione” davanti al computer. E’ superfluo aggiungere che non intendo assolutamente demonizzare né la televisione né il computer, ma semplicemente far notare che storicamente la progressiva dissoluzione del vecchio popolo ottocentesco e novecentesco è avvenuta attraverso l’azione combinata del rincretinimento televisivo e della estrema solitudine dell’atomo sociale impotente davanti ad Internet.
    La base sociologica di massa dell’impero americano è allora questa gigantesca plebe frutto della dissoluzione del popolo moderno. Questa plebe è a sua volta lo strato inferiore della classe media globale. Nuova classe media globale e nuova plebe sono allora due nuovi aggregati storico-sociali che formano la forza dell’impero americano, perché si tratta di due soggettività ampiamente “democratiche”, non certo nel senso dell’autogoverno politico e dell’autogestione economica (entrambi pressoché azzerati dallo strapotere dei mercati finanziari), ma nel senso di gruppi sociali “aperti”, cui tutti possono aderire in linea di principio purché si accettino le regole del gioco.
    In terzo luogo, la copertura ideologico-simbolica del nuovo impero americano è garantita da un nuovo clero, infinitamente più articolato, capillare e potente dei vecchi apparati religiosi, oggi brutalmente riconvertiti a strutture caritative di assistenza a drogati e poveracci. Questo clero si divide a sua volta in clero secolare (i giornalisti, in particolare televisivi) ed in clero regolare (i professori universitari e gli apparati editoriali nel loro complesso). Questo clero non amministra più simbolicamente la “volta celeste”, e cioè l’Aldilà, ma è un clero dell’Aldiquà, e cioè di miscredenti e di senza Dio del tipo di Pannella, Sofri, Bonino, Deaglio, Riotta, ed altra feccia proveniente in massima parte da “sinistra”. Costoro nel mondo sono milioni, e sono appunto il clero dell’americanismo. Filosoficamente parlando, si tratta di prodotti della nicciana morte di Dio, e di tipi antropologici alla Ultimo Uomo.
    Questo partito intellettuale americano è ovviamente diviso al suo interno, ma io personalmente non trovo differenze di fondo fra Gianni Riotta e Toni Negri. Nel futuro ce lo troveremo sempre più di fronte. Non bisogna farsi in proposito nessuna illusione. Essi sono già dominanti nel cosiddetto Movimento No Global, che cercano già con successo di trasformare in Movimento New Global, cioè in fattore culturale interno all’americanismo.
    Ho finito su questo punto. Spero che il lettore capisca l’essenziale, e cioè che l’americanismo è fortissimo, perché ha una base storica, la nuova classe media globale, una base sociale, la nuova plebe frutto della dissoluzione del popolo, ed infine dei potentissimi gruppi intellettuali.

    6. L’americanismo e l’hitlerizzazione del nemico
    Come tutti gli imperi, anche l’impero americano si pensa e si vorrebbe eterno, e quindi la sua immagine del mondo è la fine della storia. Non si tratta dunque solo dell’invenzione del pagliaccio Fukuyama. La fine della storia è sempre il modo spontaneo e naturale con cui un impero rappresenta il proprio destino. Ma l’impero, nella misura in cui destoricizza il suo futuro, destoricizza anche il presente ed il passato. L’intera storia universale precedente viene destoricizzata, ed al posto della storia, che è sempre oggetto di analisi razionale, si mette l’opposizione fra il Bene (l’impero) ed il Male (i suoi avversari e tutti coloro che gli resistono), che si basa su di una concezione di tipo religioso fondamentalistico.
    Il Male ha bisogno di un Simbolo, e Hitler si presta perfettamente per questo scopo. I tentativi di creare un gemellaggio Hitler-Stalin, propugnato particolarmente dai “nuovi filosofi” guerrafondai francesi (Glucksmann, Henry-Lévy) e dai “vecchi dissidenti” guerrafondai cechi e polacchi (Havel, Michnik), non riescono a sfondare i ristretti limiti dei piccoli ambienti degli ex-comunisti pentiti e rinnegati. Stalin ne ha fatte di cotte e di crude, ma è pur sempre un personaggio storico che è difficile destoricizzare, ed ogni volta che si parla di lui si è costretti a parlare di un argomento razionale come il bilancio complessivo del comunismo storico novecentesco (1917-1991). E si comincerebbe allora a ragionare, mentre la destoricizzazione non vuole ragionare, ma creare una demonizzazione religiosa assoluta.
    Per questo Hitler si presta benissimo, ed è anzi insostituibile. Egli è infatti il paradigma dell’assolutamente imperdonabile, perché assolutamente ingiustificabile (e naturalmente - aggiungo io - lo è veramente). E’ dunque normale che l’apparato ideologico imperiale debba hitlerizzare tutti i suoi avversari, e questo non certo per “antifascismo” (come credono molti creduloni), ma per intenzionale destoricizzazione.
    Il primo leader hitlerizzato è stato l’egiziano Nasser negli anni Cinquanta e Sessanta. Purtroppo, sono abbastanza anziano per ricordarmelo ancora. Naturalmente, la gestione simbolica di questa hitlerizzazione fu costruita dal sionismo, ma la via era aperta.
    Nel 1999 il presidente serbo Milosevic fu hitlerizzato. Una copertina del settimanale “Espresso” portava la dicitura “Hitlerovic”. Da non dimenticare. Si inventò un genocidio degli albanesi, di cui non c’era neppure traccia. Si inventò una “pulizia etnica” degli albanesi, di cui non c’era ovviamente la minima traccia, e che centinaia di osservatori OSCE non poterono verificare, appunto perché non c’era (c’era invece una repressione armata jugoslava della guerriglia separatista UCK, il cui scopo dichiarato era invece l’espulsione etnica dei serbi dal Kosovo, cosa che si verificò puntualmente). I pagliacci italiani si inventarono una Operazione Arcobaleno, in cui l’orgasmo umanitario simulato copriva l’avallo alla guerra geopolitica americana (Camp Bondsteel, eccetera). Comunque, Milosevic dovette ad ogni costo diventare Hitlerovic.
    Nel 1991 e nel 2003 Saddam Hussein dovette essere naturalmente hitlerizzato, e la resistenza eroica del popolo iracheno dovette essere assimilata alla difesa di Berlino delle SS nell’aprile 1945. Ma l’hitlerizzazione continuerà certamente. Avremo in Colombia le FARC-Hitler, Chavez-Hitler in Venezuela, e Kim-Hitler in Corea del Nord. Basta aspettare.
    Questa hitlerizzazione del nemico, bisogna ribadirlo e ripeterlo senza stancarsi mai, non rappresenta assolutamente una concessione “virtuosa” postuma all’antifascismo. E’ esattamente il contrario. L’antifascismo fu un fenomeno storico, oggetto di ricostruzione e di dibattito storiografico razionale. L’hitlerizzazione è il contrario. E’ una manifestazione di destoricizzazione, una sorta di passe-partout per mettere la Maschera del Cattivo a chiunque si opponga all’impero americano ed ai suoi burattinai sionisti.

    7. Fine dell’antifascismo? E’ il momento di porre una domanda scandalosa
    La mia opinione, espressa qui in modo brutale ma chiaro, è che l’antifascismo è finito, e deve essere seppellito. Con tutti gli onori, e riconoscendone integralmente i giganteschi meriti storici, ma seppellito. Veramente era già finito nel 1945 (i colonnelli greci del 1967 e Pinochet del 1973 sono state cose orribili, ma anche un’altra cosa), ma è stato artificialmente tenuto in vita per una ragione di “carenza di legittimazione”. Il comunismo sapeva di non avere una sufficiente legittimazione storica (il modello di dittatura del proletariato e del monopolio del potere politico non la può avere, perché socialmente minoritario e filosoficamente poco fondato), ed allora ha creduto di poter rinviare la propria riforma radicale coprendosi dietro l’ampio mantello dell’antifascismo. In Italia questo è stato più chiaro (ma anche più grottesco) che altrove. Il punto più importante, che temo però sfugga al lettore (quanto sto dicendo è talmente orribile per il sentire comune di sinistra da provocare con tutta probabilità un rifiuto automatico non razionalizzato), è questo: la copertura pretestuosa di un antifascismo già finito nel 1945 ed artificialmente tenuto in vita con un cinquantennale accanimento terapeutico è stato un alibi per rinviare la resa dei conti con il vero problema, che era l’insufficienza sociologica, politica, filosofica e morale del comunismo storico novecentesco.
    Certo, se qualcuno mi chiede se Bush è il nuovo Hitler risponderò di sì, perché a volte purtroppo bisogna semplificare. Ma ciò che funziona per la polemica politica non funziona per la scienza sociale, per la storia e per la comprensione delle novità storiche. Il cercare di capire le novità storiche con i facili occhiali dell’analogia (Hitler, Mussolini, Pol Pot, Nerone, Gengis Khan, eccetera) è sempre un atto di pigrizia intellettuale. Le novità storiche richiedono novità teoriche, non stanche riproposizioni di facili ma inutili analogie storiche.
    Siamo chiari. Per esprimermi in modo banale ma chiaro, dal 1919 al 1945 i fascisti avevano torto, e gli antifascisti ragione. Dunque, onore e gloria all’antifascismo. Il fascismo fu fondamentalmente una reazione di classe alla rivoluzione russa del 1917, che invece fu una cosa buonissima. Per inciso, il fascismo non fu nella sua essenza storica l’espressione della parte più reazionaria del grande capitale finanziario (secondo la tesi tautologica ed economicistica di Dimitrov, che i comunisti ripeterono a pappagallo per decenni), ma una reazione di classe della nuova piccola borghesia protonovecentesca (e quindi diversissima dalla new global middle class di oggi) al progetto livellatore della classe operaia. Il fascismo era colonialista (Mussolini 1935 in Etiopia) e razzista (Hitler verso gli ebrei, gli zingari, gli slavi, ecc.). Io odio il colonialismo ed il razzismo, e dunque chi mi conosce non può sospettarmi di revisionismo e tanto meno di negazionismo. Io nego l’attualità storico-politica dell’antifascismo, non certo la funzione storica dell’antifascismo fra il 1919 ed il 1945.
    Se si vuole ad ogni costo (ma io non lo vorrei) paragonare il nuovo orribile impero americano al nazismo, allora gli intellettuali organici di questo nuovo nazismo non sono certo Marco Tarchi o Alain de Benoist (come continuano a salmodiare alcuni stralunati), ma sono Adriano Sofri e Giuliano Ferrara, e dunque feccia ex-comunista, e non residui della cosiddetta “nuova destra”. Il re è nudo da tempo, ma il “politicamente corretto” di sinistra non vede ciò che un bambino sveglio potrebbe vedere.
    La ragione che mi porta a proporre (educatamente ma fermamente) un congedo dall’antifascismo è però un’altra. Non si tratta soltanto del fatto che bisogna smetterla con le rappresentazioni del week-end dei Bastoni Incrociati degli Opposti estremismi (Centri Sociali contro Forza Nuova), e bisogna incominciare a capire che queste rappresentazioni mediatizzate sono elementi spettacolari funzionali all’Estremismo di centro, che è la vera ideologia “nazista” contemporanea. Il punto base è un altro, ed ho cercato (con pochissima speranza, non mi faccio nessuna illusione) di chiarirlo nel paragrafo precedente sulla nuova hitlerizzazione (e non stalinizzazione) simbolica del nemico dell’impero religioso americano. Oggi il sistema ideologico dell’impero non propone Milosevic-Stalin e Saddam-Stalin (se non in alcuni zelanti dissidenti polacchi), ma propone Milosevic-Hitler e Saddam-Hitler. In questo quadro non ha senso balbettare che oggi il “vero fascismo” non è più quello di Mussolini, ma quello di Bush, ecc. Sono sciocchezze. Ogni riproposizione simbolica dell’antifascismo (ripetiamolo ancora per i maliziosi in mala fede, antifascismo sacrosanto dal 1919 al 1945) porta acqua al re di Prussia, e cioè a Bush, che attaccherà sempre più nuovi paesi in nome dell’eterna lotta al Fascismo.
    Non c’è nulla di più ridicolo di servi zelanti che portano trafelati acqua al vincitore. A volte anche la stupidità è un delitto.

    8. La questione ebraica oggi. Un altro tabù da discutere senza paura
    Oggi parlare di questione ebraica, anche se si cerca di farlo in modo umanistico e razionale, significa automaticamente essere accusati di antisemitismo. Accusa simbolicamente terribile, perché la mente corre necessariamente ad Auschwitz, che è sempre oggi (ed è bene che lo resti anche in futuro) il modello storico (non metastorico) dell’assolutamente ingiustificabile e del totalmente intollerabile. E’ dunque evidente che tutti coloro che sul mercato della rispettabilità mediatica ritengono di “avere qualcosa da perdere” scappino dalla questione ebraica come dalla peste.
    Eppure il parlare pacatamente della questione ebraica è stata una componente fisiologica della modernità, e Hitler avrebbe una sua ultima ripugnante vittoria postuma se la sua politica genocida finisse con l’impedire ciò che era ancora possibile per Karl Marx e Sigmund Freud. Karl Marx parlò apertamente di questione ebraica, e parlò addirittura di rapporto fra ebrei e denaro, senza che Fiamma Nirenstein e Gad Lerner potessero balzargli addosso. Sigmund Freud si inventò addirittura un Mosè egiziano (che tutti gli esperti storici del periodo tendono ad escludere) per sostenere che gli ebrei dovevano piantarla con la tesi pretestuosa di essere gli inventori e gli scopritori del monoteismo. Eppure Marx e Freud non erano ovviamente antisemiti. Come non ritiene assolutamente di esserlo (e lo scriverò qui una volta sola, anche se sarebbe del tutto superfluo ribadirlo se fossimo in un ambiente meno avvelenato, corrotto e ricattabile) chi scrive queste righe.
    Da circa dieci anni un’asfissiante campagna ideologica ha imposto l’equazione fra antisionismo ed antisemitismo. Il sionismo in sè non può più essere criticato, al massimo si può dire che Sharon esagera. Il sionismo, indipendentemente dalla coscienza soggettiva dei primi coloni, fu un fatto integralmente coloniale, eppure dire questa assoluta ovvietà, fattuale come sono fattuali i ghiacci della Groenlandia, significa essere sporcati con l’accusa di antisemitismo. C’è voluto un libro di un onesto ebreo americano, Finkelstein, per dire ciò che è sotto gli occhi di tutti, e cioè che ci fu uno sfruttamento lobbistico dell’Olocausto. Quando un noto saggista italiano, Alberto Asor Rosa, scrisse che è stata una grande tragedia storica il fatto che non tanto gli ebrei quanto le comunità ebraiche organizzate siano passate oggi dalla parte del potere (chiudendo quella feconda ambivalenza che aveva prodotto Bloch e Benjamin, Buber e Lukács, ecc.), gli sono subito saltati alla gola accusandolo di antisemitismo.
    In questo clima ad un tempo avvelenato e drogato ogni riflessione pacata sulla questione ebraica oggi è di fatto impossibile. Sostiene Giuliano Amato (cfr. “La Repubblica”, 9-4-2003): ”E’ utile l’idea di un Medio Oriente in cui non abbiamo il coraggio di riconoscere, con tutta la simpatia per i palestinesi, che Israele è una parte di noi?”. Ed Amato (non Tarchi, non de Benoist) dice ovviamente di no. I palaestinesi possono essere simpatici, anche perché se ne prendono talmente tante che fanno pena, ma non sono parte di noi (cioè Locke, la democrazia, ecc.), mentre invece Israele è parte di noi.
    Bisogna raccogliere senza paura la sfida di questi presunti occidentalisti cialtroni, che in nome dell’Occidente giustificano la violazione della Carta dell’ONU e della legalità internazionale. Ho sessanta anni, sono “occidentale” né più né meno di Amato, ed ho certamente una base linguistica e culturale più ricca ed articolata della sua. Il suo snobismo furbacchione da intrallazzatore craxiano può stupire un trinariciuto mugellano, ma non certo chi scrive. Ebbene, Israele non è assolutamente parte di me. Israele, per usare i termini della filosofa americana occidentalissima Judith Butler, provoca soltanto in me i due sentimenti di vergogna e di umiliazione. Ho vergogna e sono umiliato per il fatto di appartenere, almeno anagraficamente, ad una “civiltà” che in nome della Bibbia e dell’Olocausto (due cose cui gli arabi palestinesi sono completamente estranei) ha prima tollerato e poi apertamente appoggiato il massacro e l’espulsione di un popolo autoctono (fino al 1917 composto pacificamente da musulmani, cristiani ed ebrei, tutti quanti sudditi ottomani), per cui un ebreo benestante di New York e Milano può cacciare un bracciante di Hebron da casa sua, e chiamarlo ancora “terrorista” se per caso resiste.
    Non capisco perché il viso da presuntuoso furetto di Amato debba essere “occidentale” ed il mio no. Non capisco perché chi non si arruola simbolicamente nel sionismo debba essere sporcato con l’intollerabile parolaccia di “antisemita”, e non possa accedere ad una tutela giudiziaria contro questa diffamazione. In fondo, se qualcuno mi accusa di essere un pedofilo o uno spacciatore di droga posso ancora (forse, ma il sistema giudiziario è già di fatto impazzito, come testimonia la scarcerazione delle due giovani assassine pugliesi di una loro coetanea durante una cerimonia diabolica) lamentarmi in giudizio, mentre qualunque cialtrone può accusarmi ingiustamente di antisemitismo senza alcuna tutela giuridica.
    Questa vergogna deve finire, ma non finirà presto. Da un punto di vista generale, non nego che astrattamente una radicalizzazione dell’antisionismo possa anche portare alcuni a forme di antisemitismo, magari non razziale, ma etnico, storico e culturale. L’ipocrisia dei sionisti è infatti talmente ripugnante da rendere possibile questo scivolamento, come è già avvenuto in molti intellettuali prevalentemente musulmani o ortodossi. Ma io ritengo seriamente che ci siano antidoti contro possibili scivolamenti di questo tipo, e molti di questi antidoti sono presenti anche nella migliore tradizione marxista.
    Questi antidoti vengono dagli antichi greci (gli unici “fratelli maggiori” di cui riconosco la parentela), e vengono sopratutto dal razionalismo e dall’umanesimo. Chi critica l’umanesimo epistemologico ha ragione sul piano teorico, ma chi non capisce che l’umanesimo è il solo antidoto contro la barbarie è uno scemo che non dovrebbe occuparsi mai di filosofia. Se si è impregnati di razionalismo e di umanesimo (che a differenza di come pensa il presuntuoso furetto Amato non sono affatto monopoli della tradizione occidentale) allora ogni scivolamento antisemita diventa impossibile. Non sempre i vaccini funzionano, ma questo vaccino funziona. L’antisemitismo, anche quando non è razzista o quando non straparla oscenamente di “popolo deicida”, è sempre in ultima analisi una concezione complottiva e paranoica della storia, che non resiste all’analisi razionalistica. Oggi l’unico antisemitismo vero, il più spregevole, è quello contro gli arabi ed i musulmani. Sono stato colpito da un cartello issato su di un carro armato a Bassora dai mercenari inglesi assassini, su cui era scritto: “se potete leggere questo cartello, significa che siete più vicini ad Allah di quanto pensiate”. Ma chi mi ha colpito di più è il mezzobusto televisivo sorridente che commentava questa sozzura antisemita dicendo: “Tipico umorismo inglese”.
    Dalla merda barbarica di questo commento dello strapagato mezzobusto usciremo soltanto con molto coraggio. Non vedo questo coraggio nel corrottissimo ceto intellettuale “politicamente corretto”, che si piscia addosso dalla paura davanti a Fiamma Nirenstein ed a Gad Lerner.

    9. Il bilancio storico del comunismo ed il bilancio teorico del marxismo
    A questo punto, di fronte alle macerie ed al sangue, ho quasi vergogna di parlare di argomenti tutto sommato secondari come il bilancio teorico del marxismo ed il bilancio storico del comunismo. Tuttavia, dal momento che prima o poi deve “passare la nottata” (per citare Edoardo De Filippo) propongo al lettore alcune sommarie riflessioni proprio alla luce degli ultimi avvenimenti.
    Senza uscire dal modello economicista di Kautsky, modello che sostanzialmente non è mai stato abbandonato in 120 anni, non c’è uscita dalla crisi del marxismo. Bisogna essere cortesi con tutti, e dunque anche con i sostenitori della trasformazione dei valori in prezzi di produzione, della caduta tendenziale del saggio del profitto, dell’aumento della composizione organica del capitale, eccetera. Il divino si manifesta anche nelle pietre. Ma deve essere chiaro che non si procede pestando sempre il suolo con le scarpe sullo stesso quadratino di terra. Le tendenze economiche della riproduzione capitalistica sono essenziali, e devono essere accuratamente studiate, ma solo una superstizione economicista riduce ad esse i “rapporti sociali di produzione” capitalistici. Chi continua a salmodiare con supponenza questi mantra Kautskiano-buddisti deve essere salutato con cortesia, e lasciato stare alle sue tabelle.
    Dai bordighisti allucinati non possiamo aspettarci nulla. Tutto è capitalismo, aumenta statisticamente il lavoro salariato nel mondo, aumentano le fusioni fra i grandi monopoli, eccetera. Il Sole 24 Ore, che già per conto suo è rosa, viene ulteriormente colorato di rosso. Un giorno dalle tabelle salterà fuori lo Spirito Santo, cioè l’eterno proletariato per ora dormiente. Quando si sveglierà, tutto sarà risolto.
    Dai trotzkisti maneggioni non possiamo aspettarci nulla. Il trotzkismo mondiale si è oggi spaccato in due tronconi, il che non è sintomo di debolezza, ma anzi di relativa forza. Il trotzkismo di sinistra continua a perseguire il miracoloso partito proletario mondiale della Quarta Internazionale armato della teoria non solo giusta ma anche giustissima. Il trotzkismo di destra si è dipinto la faccia a vivaci colori pacifisti, femministi ed ecologisti, ha adottato il neokeynesianesimo di Le Monde Diplomatique, e balla danze collettive da oratorio con Vittorio Agnoletto e Rosy Bindi. E’ soprattutto la gestualità estetica pienamente omologata con il circo contestativo no-global che mi fa pensare che l’integrazione mediatica nel capitalismo politicamente corretto sia ormai definitiva.
    Dagli operaisti passati dall’operaio-massa fordista alle moltitudini disobbedienti mondiali non possiamo aspettarci più nulla. Essi sono indubbiamente più “originali”, e dunque più sfiziosi per i maniaci della teoria teorica, di quanto lo siano i dinosauri bordighisti ed i brontosauri trotzkisti. Ma tutto si riduce lì. Ma mentre trotzkisti e bordighisti sono completamente a lato dei fenomeni, e possono solo fare “danni collaterali” a chi cerca di uscire dalla crisi del marxismo, gli operaisti sono invece dei veri bombardatori strategici dell’obbiettivo. Essi confluiscono, e comunque in futuro sicuramente confluiranno, nell’americanismo, o più esattamente nella apologetica indiretta dell’americanismo come male minore. A questo li spinge irresistibilmente il loro futurismo, il loro odio per la questione dell’indipendenza nazionale, la loro antropologia virtuale che identifica in un solo general intellect uomini, animali ed organismi cibernetici, eccetera. Mi voglio qui sbilanciare in un’affermazione forse un pò azzardata: bordighisti e trotzkisti sono avversari teorici, ma gli operaisti diventeranno nemici storici e politici. Aspettare per credere.
    Lo stalinismo è un fenomeno (legittimo ed addirittura non del tutto negativo) di rivalutazione storiografica e di rivendicazione orgogliosa di aver tentato l’assalto al cielo, ma il contesto storico impedisce qualsiasi vero neostalinismo politico. Il modo sacrosanto con cui Cuba, la Corea e la Cina si difendono, e speriamo che Dio le aiuti (perché certamente il materialismo dialettico non potrà farlo), non ha nulla a che fare con lo stalinismo come fenomeno storico. Ultimamente, dopo decenni di idiozie della corporazione degli storici, cominciano a spuntare interpretazioni minimamente convincenti dello stalinismo come fenomeno globale (cfr. Moshe Lewin, Le Siècle Sovietique, Fayard, Paris 2003). Lewin si avvicina vagamente al centro del problema: lo stalinismo fu una gigantesca rivoluzione plebea, necessariamente carismatica come tutte le grandi rivoluzioni plebee che concentrano nell’indispensabile culto del Capo Mummificato una gigantesca mobilità collettiva ascendente, e fu infine vittima del suo stesso successo, perché le rivoluzioni plebee non possono esercitare le funzioni previste da Marx. Lo stalinismo è stato dunque insieme grande e nello stesso tempo irriproponibile.
    Del maoismo resta a mio avviso qualcosa di più, e cioè il modello della rivoluzione contadina anti-imperialista nei paesi poveri (vedi le sacrosante guerriglie della Colombia e del Nepal). Ma questo modello è del tutto improponibile nei nostri paesi metropolitani ed imperialisti. Lasciamo le fughe esotiche a Salvatores ed all’Inserto Viaggi della “Repubblica”. Piena, completa e convinta solidarietà anti-imperialista (nella quale sono personalmente e notoriamente impegnato da anni), ma non crediamo che i nostri problemi di prospettiva storica e di orientamento teorico siano risolti dalle traduzioni di documenti marxisti-leninisti in lingua turca.
    In ogni caso, il vero problema non sta nelle cose dette in questa nona tesi. Il vero problema sta a mio avviso nelle cose con cui concluderò il discorso nella prossima decima ed ultima tesi.

    10. La questione comunista nel XXI Secolo
    Sul futuro del comunismo in questo Terzo Millennio non è possibile dire nulla di veramente sensato. Ogni sproloquio millenaristico sarebbe fuori luogo. In proposito, un sobrio minimalismo è un atteggiamento migliore di quanto lo sia un ottimismo della volontà (accompagnato o meno da un complementare pessimismo della ragione).
    Io sono al 100% comunista nel senso di Marx, e lo sono molto più oggi che ho sessant’anni di quanto lo fossi quando ne avevo venti ed avevo semplicemente meno esperienza storica e più illusioni ideologiche, come è d’altra parte normale che sia. In quanto al comunismo come fenomeno di invidia sociale e di volontà di livellamento ideologicamente mascherata da un 50% di economicismo e da un 50% di storicismo (e cioè da un 100% di nichilismo), si tratta di una patologia sociale che non mi ha mai interessato, anche se manda cattivo odore come lo spurgo di una fogna. Ho sempre trovato fisiologici e normali i fenomeni culturali di tipo anticomunista, da quelli “nobili” (alla Hannah Arendt ed alla François Furet) a quelli bassi e “volgari” (alla Giuliano Ferrara ed alla Adriano Sofri). I rifiuti nobili del comunismo sono simili al sudore di un cavallo, e quelli volgari al peto di un asino. Sono grotteschi, ma non sono veramente interessanti sul piano teorico.
    Il comunismo storico novecentesco (1917-1991), da non confondere con il comunismo di Marx, che è sempre stato storicamente inesistente, è un fenomeno integralmente conchiuso. Consiglio a chi non ci crede ancora, ed è dunque come il famoso “eremita” di Nietzsche, la proiezione delle seguenti immagini: Gorbaciov che pubblicizza la pizza Hut; Eltsin che barcolla ubriaco dopo aver svenduto ad alcuni privatizzatori sionisti mafiosi settant’anni di lavoro dei popoli sovietici; i despoti turcofoni dell’Azerbaigian, Kirghisistan e Turkmenistan, ex-dirigenti comunisti sovietici, che vendono agli americani basi militari per poter ricattare meglio Cina e Russia; il mafioso georgiano Shevarnadze, ultimo ministro degli esteri sovietico, che riempie il suo infelice paese di agenti della CIA e di banditi ceceni; gli ex-comunisti polacchi, ungheresi e romeni che concedono basi agli americani per bombardare illegalmente l’Irak; il ghigno di sufficienza del pulcino togliattiano corrotto Massimo D’Alema che si pavoneggia insieme con l’assassino bombardatore americano Clark, e che ancora nel 2003 ha rivendicato la guerra del 1999 dicendo che non fu una guerra, ma una “operazione di polizia NATO che non aveva bisogno di un avallo dell’ONU” (sic! e strasic!), furberia semantica da aderente pugliese alla Sacra Corona Unita che potrebbe definire l’assassinio di un anziano come “interruzione anticipata della respirazione di un relitto che tanto sarebbe comunque durato poco”.
    Questo comunismo storico novecentesco si è dissolto nella vergogna materiale e morale. Prima di una sua rifondazione politica e teorica, ci vuole una rifondazione morale. E’ questo che molti neo-comunisti non riescono neppure a capire. Pensano di poter riproporre le vecchie porcherie storicistiche ed economicistiche tali e quali, solo con “uomini nuovi” (e cioè loro ed i loro portaborse e sicofanti). Questa gentaglia non rifonderà mai nulla, ma continuerà a girotondare in circolo proponendo alleanze elettorali, desistenze, eccetera, e chiamerà questo “far politica”.
    Io non ho una ricetta per la riproposizione seria della questione comunista nel XXI secolo. Io sono ovviamente favorevole alla sua riproposizione, per il fatto che il termine di “comunismo”, sia pure sporcato da politicanti e pagliacci, allude per sempre a Karl Marx, che per me resta non tanto un grande “economista”, quanto l’erede dei filosofi greci, di Spinoza, degli illuministi e sopratutto di Hegel. Questo comunismo mi interessa, ovviamente ridefinito e migliorato.
    Ma una cosa deve essere chiara, e qui chiudo. La questione comunista, a mio avviso, non può essere riproposta direttamente, dopo la vergognosa batosta dissolutiva del comunismo storico novecentesco. Essa deve essere riproposta attraverso una mediazione indispensabile. Questa mediazione indispensabile è la formazione di un movimento mondiale di resistenza all’impero americano ed ai suoi satelliti. Un simile movimento comprenderà al suo interno forze nazionali, necessariamente (ed anzi per fortuna) interclassiste, forze religiose (speriamo non solo musulmane, ma anche cristiane ed ebraiche), ed infine forze sociali di vario tipo. I “comunisti”, ammesso che non diventino come gli “anarchici” (e cioè simpatici ma irrilevanti reperti di archeologia ideologica), cosa peraltro del tutto possibile, saranno solo una parte, e neppure la più importante, di questo possibile ed auspicabile movimento di resistenza all’impero americano. Ogni richiesta di “direzione” di questo movimento è oggi del tutto presuntuosa e prematura. Troppo grande è stata la bancarotta storica, politica, teorica e morale. Ci vuole più modestia.
    Ecco, questo è in sintesi il nucleo della questione comunista nel XXI secolo.






    Comunitarismo e Comunismo.

    Una riflessione storica e filosofica sui due termini

    di Costanzo Preve

    1. Cerchiamo di affrontare il problema senza perifrasi, giri di parole, lunghe circonvallazioni, eccetera. Nel lessico politico italiano la parola "comunismo" è percepita come parola legittima, in quanto parola di "sinistra", mentre la parola "comunitarismo" è percepita come parola assolutamente illegittima, in quanto parola non solo di destra, ma di estrema destra. In questo modo si attivano reazioni di tipo pavloviano, cioè riflessi condizionati, ed i riflessi condizionati sono nemici di qualunque riflessione razionale. Chi scrive ritiene che il dibattito teorico e filosofico sia sempre la reazione dello strumento razionale contro i riflessi condizionati. Tuttavia, anche i riflessi condizionati devono essere spiegati, perché hanno anch'essi un'origine storica. Non è allora sufficiente lamentarsi semplicemente per la loro esistenza. Bisogna "prendere il toro per le corna", cioè affrontare il problema. Ogni presunta scorciatoia è un vicolo cieco ed una falsa illusione.
    2. Lo scopo di questo intervento è dunque chiaro. Io intendo sostenere che oggi il termine "comunitarismo" è legittimo, come del resto il termine "nazionalitario" (così come è difeso dalla rivista romana "Indipendenza"). Ma tutto ciò non può solo essere "proclamato". Deve essere discusso.
    3. In un contributo che ho pubblicato recentemente (cfr. "Socialismo e Liberazione", n°0, giugno 2002) ho sostenuto con una certa ricchezza di argomenti che oggi, almeno in Europa Occidentale, e certamente in Italia, la dicotomia Sinistra /Destra non è più un classificatore adeguato per orientarsi sui più grandi problemi interni e internazionali. Questa dicotomia non è certamente illusoria, ha avuto una robusta e materiale origine storica, ma oggi si è esaurita quasi completamente a causa di profonde trasformazioni della stessa società capitalistica. Questa tesi è però considerata "scandalosa", perché tocca alle radici quel "politicamente corretto" che ha sostituito le vecchie analisi razionali (anche se spesso sbagliate) della fase storica con cui un tempo il pensiero comunista si nutriva. Il "politicamente corretto" è un insieme di postulati identitari di appartenenza, non un campo razionale di dialogo e di dibattito. Il suo motto non è più quello di Marx "proletari di tutto il mondo unitevi", ma quello di Nanni Moretti "D'Alema, dì qualcosa di sinistra". Il confronto dialogico alla Socrate è stato sostituito dal girotondo, che è ovviamente una regressione infantile travestita da impegno politico degli intellettuali. Questo terreno non può essere accettato. Bisogna tornare al ragionamento.
    4. Intellettuali che hanno avuto un'origine indiscutibilmente di destra come l'italiano Marco Tarchi ed il francese Alain de Benoist, hanno iniziato il loro percorso intellettuali con il progetto dichiarato di edificare una Nuova Sintesi Filosofica di supporto ad una Nuova Destra Politica, e sono poi faticosamente giunti entrambi dopo un trentennio di attività culturale ad una presa d'atto dell'esaurimento di fatto della dicotomia Sinistra/Destra. Personalmente, credo alla loro buona fede. Ma a sinistra la loro buona fede è esclusa, ed il loro nuovo approdo è interpretato come una astuta manovra d'infiltrazione. Li si vuole in ogni caso inchiodare a destra, perché ovviamente fa molto più comodo avere un nemico sicuro e identificabile piuttosto che affrontare nel merito certe argomentazioni. Paranoia identitaria? Non credo. E' forse utile allora esaminare le principali ragioni per cui, a sinistra, si tende comunque a rifiutare l'esaurimento della dicotomia Sinistra/Destra, ed a considerare anzi una bestemmia infamante la stessa proposta che la sostiene.
    5. Questo ovviamente porta a paradossi incredibili. La stessa identica manovra finanziaria se è fatta da Amato è "di sinistra", se è fatta da Berlusconi è "di destra". Io non conosco nessuna scelta storica tanto di "destra" come quella di attaccare la Jugoslavia nel 1999 con una serie di bombardamenti devastanti. Questa scelta fu fatta contro la Costituzione Italiana, che la escludeva esplicitamente, contro la Carta dell'ONU, perché il Consiglio di Sicurezza non l'aveva consentita, e persino contro la stessa Carta della NATO, che era esplicitamente difensiva. Per questa aggressione, motivata da ragioni geopolitiche ed ipocritamente ammantata da motivi umanitari, si inventò una cosa palesemente inesistente e non fattuale, cioè il genocidio e l'espulsione etnica del popolo albanese kossovaro. Ebbene, mentre uomini con origini di "destra", come de Benoist e Tarchi, si opposero apertamente, uomini con origini di "sinistra" gridarono al bombardamento etnico e lo organizzarono. I lottacontinuisti pentiti Adriano Sofri ed Enrico Deaglio spinsero al bombardamento con articoli sanguinari. Massimo D'Alema e Walter Veltroni, polli d'allevamento cresciuti nel vecchio PCI, resero possibile questa aggressione devastante, e l'amico degli americani (e uomo di Gladio) Francesco Cossiga si vantò addirittura, non smentito, di aver favorito l'avvento al potere di D'Alema per rendere più facile questa guerra. Il cosiddetto "popolo di sinistra" l'avrebbe accettata meglio, se gli avessero detto dell'alto che questa guerra era fatta per ragioni di "sinistra". Ed infatti così avvenne. Eppure, Marco Tarchi continua ad essere un "fascista" che vuole infiltrarsi subdolamente nella fortezza del buon popolo di sinistra, mentre Massimo D'Alema continua al massimo ad essere un "compagno che sbaglia". Bisogna allora porsi domande radicali, e non solo congiunturali, sulle ragioni profonde di questa cecità voluta e rivendicata. Esaminiamone alcune.
    6. In primo luogo, da lungo tempo il pensiero di sinistra parte dall'indiscusso presupposto di quella che potremo chiamare l'Autosufficienza della Sinistra. La Sinistra, in altre parole, si indentifica simbolicamente colla Totalità di tutte le buone cause possibili, dall'eguaglianza alla giustizia, dalla libertà alla tolleranza. Questo è dovuto storicamente al fatto che nell'Ottocento la sinistra si è filosoficamente identificata con la doppia causa dell'Umanità e del Progresso, e cioè con l'unica causa del Progresso dell'Umanità. L'adozione di questa religione di tipo positivistico e storicistico non era ovviamente del tutto sprovvista di motivi razionali, perché effettivamente a lungo la sinistra impersonò le cause di liberazione nazionale dei popoli, dell'allargamento del suffragio elettorale, della lotta contro ogni forma di razzismo e di antisemitismo, eccetera. Ma questo Presupposto di Autosufficienza, cioè di universalità potenziale, può anche diventare una trappola psicologica e conoscitiva, e dare luogo ad un narcisismo autoreferenziale. In questo modo, agli occhi di questa sinistra autosufficiente e potenzialmente totale, il centro e la destra diventano soltanto residui storici dovuti a conservatorismo, egoismo, superstizione, eccetera.
    7. In secondo luogo, la sinistra si oppone a tutti i discorsi sulla irrilevanza o sul superamento della dicotomia Sinistra/Destra per il fatto che questi discorsi furono fatti in origine per contestarne e negarne il ruolo storico e le ragioni. E' infatti il discorso tecnocratico che sostiene che non esistono mai soluzioni politiche diverse di sinistra e di destra, ma esiste sempre una sola soluzione ottimale scientificamente "neutrale" di tipo non ideologico. La politica è così assimilata al modo in cui vengono prese le decisioni in medicina ed in ingegneria, in cui effettivamente le diagnosi mediche ed i calcoli di resistenza dei materiali non sono mai né di destra, né di sinistra, ma semplicemente giusti o sbagliati. Il primo ad aver dato un fondamento filosofico a questa posizione è stato il positivista francese Auguste Comte nel 1830, per cui bisognava mirare alla costruzione di una scienza sociale oggettiva (da lui denominata "sociologia", non un significato diverso da quello odierno), strutturata come l'astronomia, la fisica, la chimica, la fisiologia umana.
    Questa posizione è ovviamente sbagliata. Le decisioni politiche, infatti, non possono essere prese con il metodo della fisica e della medicina, dal momento che gli interessi sociali umani sono distinti ed in conflitto. L'antagonismo oggettivo fra ricchi e poveri, sfruttatori e sfruttati, oppressori ed oppressi, non "rispecchia" nessuna presunta realtà oggettiva esterna, come le leggi fisiche e chimiche (che peraltro sono anch'esse socialmente costruite, sia pure in modo diverso). In questo senso la sinistra ha avuto storicamente ottime ragioni per opporsi a questi discorsi tecnocratici falsamente neutrali. Ma oggi quella che viene chiamata in Europa la Sinistra, in senso governativo ed elettorale, ha pienamente sposato il punto di vista delle "compatibilità" economiche e la dittatura dei mercati, ed ha perciò lei stessa distrutto il punto di vista critico sostenuto per più di un secolo.
    8. In terzo luogo, la sinistra ha storicamente alcune ragioni per il "sospetto" con cui guarda alcune adozioni delle sue parole d'ordine di tipo politico o ideologico. La sinistra ha inventato il partito politico moderno basato su una triplice indentità politica, sindacale e culturale, ed ha poi sempre visto la "destra" (anche una destra radicalmente diversa da quella tradizionale di tipo liberale e conservatore), ma originariamente il termine "fasci" (i fasci siciliani del 1893) nacque a sinistra. Hitler battezzò il suo partito NSDAP (partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi) con due parole tratte dal patrimonio simbolico della sinistra, socialista e lavoratori. Nel 1943 Mussolini fondò il suo stato collaborazionista dei tedeschi con il termine di Repubblica Sociale Italiana, in cui il termine "sociale" avrebbe dovuto recuperare molte motivazioni ideologiche tipiche della sinistra tradizionale. E gli esempi potrebbero ovviamente essere moltiplicati, ma non ha senso farlo per ragioni di spazio.
    Una breve riflessione. Bisogna ammettere che questo è veramente avvenuto in passato. Ma il panorama storico di oggi è diverso. Il panorama storico di oggi è caratterizzato dal doppio fenomeno della dissoluzione del comunismo storico novecentesco e dello svuotamento dello spazio politico di intervento keynesiano in economia, a causa del decadimento della sovranità monetaria statuale. Questa dissoluzione e questo svuotamento sono fenomeni oggettivi, non sono invenzioni pretestuose e malevole. Mille polemiche contro il cosiddetto "populismo" non possono abolire questa realtà.
    9. Ho ricordato tre importanti motivazioni per cui il pensiero di sinistra tende a riflettere senza neppure discuterla la tesi dell'indebolimento della dicotomia Sinistra/Destra. Sono motivazioni che ho preso sul serio, e di cui non mi sono affatto disfatto con alcune battute sprezzanti, che lasciano sempre il tempo che trovano. Ma ora possiamo entrare nel vivo di questo mio intervento, che cercherò di sviluppare in tre parti. In primo luogo, farò alcune riflessioni sul concetto di questione nazionale oggi, che si può anche legittimamente definire "nazionalitaria". In secondo luogo, farò alcune riflessioni sui concetti di comunità e di comunitarismo, esaminando prima le due tradizionali obiezioni al comunitarismo del pensiero di sinistra (comunità organica e comunità interclassista), e poi ricordando il significato anglosassone del termine, che è oggi sul piano mondiale quello universalmente compreso ed approvato. In terzo luogo, per finire, mi soffermerò proprio sulla crisi "comunitaria" del comunismo storico novecentesco, che è entrato in crisi a mio avviso proprio per non aver saputo correttamente conciliare comunità ed individuo, comunitarismo ed individualismo, eguaglianza e libertà. In teoria, avrei dovuto discutere questo punto all'inizio del discorso, non alla fine. Ma l'ho messo alla fine apposta perché il lettore se ne ricordi bene, e gli dia l'importanza necessaria.
    10. Uno degli slogan politici più "gridati" dei cortei post-1968 è certamente stato "Il Proletariato/Non ha Nazione/Internazionalismo/Rivoluzione". Chi vi ha partecipato, certamente se ne ricorderà. Ebbene, chinon conosce o è estraneo alla storia del marxismo potrà pensare che questo slogan fosse l'espressione del marxismo più puro ed evidente. Non è affatto così. Là dove le rivoluzioni che si ispiravano a Marx hanno vinto, sia pure temporaneamente, la questione nazionale, e più esattamente la questione della liberazione, dell'indipendenza e della sovranità nazionale, è stata assolutamente determinante. Fidel Castro tiene oggi a Cuba sulla base della questione nazionale. Il Vietnam socialista si è liberato prima dai francesi poi dagli americani sulla base della questione nazionale. Il popolo basco combatte per la giusta causa della sua liberazione nazionale. L'intreccio fra questione sociale e questione nazionale è addirittura l'ABC delle rivoluzioni del Novecento. Allora, come è possibile tanta stupidità, o almeno tanta ignoranza?
    11. Nel caso concreto dello slogan riportato nel precedente paragrafo, si può dire per brevità che esso non riflette assolutamente la complessità del dibattito marxista, socialista e comunista, ma solo l'intreccio di due particolari e limitate posizioni ideologiche, l'operaismo e il trotzkismo. Entrambe, questo è vero, negano integralmente la questione nazionale. Con questo, sia ben chiaro, non intendo affatto negarne la legittimità storica. Per l'operaismo non ho nessuna simpatia, se penso soprattutto ai suoi attuali esiti alla Antonio Negri (l'impero senza l'imperialismo), ma oltre alla stima per il suo fondatore Raniero Panzieri ammetto che quando nacque all'inizio degli anni Sessanta esso esercitò una funzione storica precisa. Per quanto riguarda il trotzkismo so che Trotzky fu ucciso a colpi di piccozza sulla testa da un sicario di Stalin, e sia chiaro che sto con lui contro il suo sicario. Ma qui si parla di posizioni teoriche, ed allora devo ribadire che la negazione totale della questione nazionale, tipica dell'operaismo e del trotzkismo, non porta ad un vero internazionalismo, ma ad un internazionalismo astratto e del tutto inconcludente. Dal momento che anche l'etimologia è illuminante per impostare correttamente le questioni teoriche, bisogna dire che etimologicamente inter-nazionalismo significa "tra le nazioni", non "non-nazione", e quindi soluzione democratica e pacifica dei loro problemi di coesistenza e di cooperazione, non loro abolizione ed annientamento. Il fatto che il proletariato marxiano sia inter-nazionalista, cioè tenda ad una solidarietà che supera i confini del suo stato nazionale, non è affatto in conflitto con questa concezione. Il socialismo non è l'abolizione delle identità nazionali, ma solo la loro cooperazione fraterna, democratica ed egualitaria, con il superamento di ogni colonialismo, razzismo ed imperialismo.
    12. Cercare di far capire questo ad un operaista o ad un trotzkista è però tempo sprecato, appunto per la loro concezione puramente sociologica di "comunità". Soltanto i proletari, per loro, formano una reale comunità. Ma la concezione salariale o militante della comunità è debolissima, e questo spiega infatti la sua debolezza ed il suo sistematico tramonto. Nel suo recente libro "Impero" Antonio Negri spara a zero contro la questione nazionale, e ne parla soltanto in termini di Prima Guerra Mondiale, macello nazionalistico nelle trincee, eccetera. Ma il nazionalismo imperialistico è la negazione, non l'affermazione della questione nazionale. Il nazionalismo imperialistico progetta e realizza l'assoggettamento di interi popoli e di intere nazioni (come fu il caso dopo il 1918 per la nazione araba da parte di Francia e Inghilterra). Il nazionalismo imperialistico è in realtà solo imperialismo, ed è incompatibile con l'autodeterminazione nazionale dei popoli.
    13. A portare ulteriore confusione ci sono stati recentemente anche storici come Eric Hobsbawm, che hanno parlato di "invenzioni delle nazioni", sostenendo che le nazioni non sono mai un semplice dato etnico e linguistico "naturale", ma sono sempre state storicamente costruite, al punto che le loro stesse "tradizioni" sono state costrite da gruppi intellettuali di poeti, scrittori e filosofi. Su questo bisogna intendersi. Hobsbawm ha ragione, ma dimentica di dire che tutta la civiltà umana, e non solo le nazioni, è stata storicamente e artificialmente costruita. L'intera civiltà è ontologicamente un prodotto del lavoro e del linguaggio. La "costruzione" delle nazioni è allora solo un primo tentativo di perseguimento di sovranità e di autodeterminazione, ovviamente ancora limitate ed imperfette, dal momento che il perseguimento immediato di una sovranità mondiale unificata è soltanto virtuale e non effettualmente possibile.
    L'insistere sul carattere artificiale e storicamente costruito delle nazioni è oggi l'esercizio preferito degli intellettuali progressisti ed ex-comunisti, da Hobsbawm a Balibar. Finito l'internazionalismo comunista, si passa direttamente all'internazionalismo del capitale globale unificato. Questi intellettuali, di cui non voglio qui contestare la buona fede soggettiva, non si rendono assolutamente conte che oggi la sovranità nazionale, anche e soprattutto culturale, non è assolutamente un residuo conservatore, reazionario e "fascista", ma è un elemento di resistenza allo strapotere dell'impero mondiale americano. Basta aprire un giornale per capirlo. Ma la deformazione ideologica può far diventare completamente ciechi, ed impedire di vedere ciò che è sotto gli occhi di tutti.
    14. Facciamo qui l'esempio del Paese Basco. Non voglio entrare qui nel merito della tattica dell'ETA o di Herri Batasuna. Ma mi sembra evidente che in base a tutti i principi liberali (liberali, non comunisti) classici di autodeterminazione nazionale il popolo basco ha il pieno diritto a costituire uno stato sovrano nazionale indipendente. Chi lo nega dovrebbe poi riuscire a spiegare perché gli italiani, i tedeschi, gli ungheresi ed i greci hanno avuto ed hanno questo diritto, ma i baschi no. Esiste il popolo basco, su basi territoriali e linguistiche, ed esiste la nazione basca, sulla base di una coscienza nazionale indipendente. Non si capisce perché Giuseppe Mazzini sia stato un patriota, che Ciampi ha sempre sulla bocca, mentre invece i baschi sono un popolo di terroristi. Ed infatti non lo sono. Il dire che le "nazioni" si potevano fare nell'Ottocento, ma oggi non più, perché c'è ormai la globalizzazione, è ovviamente una frase tautologica e vuota. A molti il nazionalismo basco non piace, perché i baschi giustificano la loro richiesta di stato nazionale indipendente su basi comunitarie, ed anzi "comunitaristiche". Ed allora mille distinguo, mille prese di distanza, mille richiami ad un ovvio cosmopolitismo liberaldemocratico. Si dimentica così che ai baschi è negato l'elementare principio di autodeterminazione nazionale. Conosco gente di "sinistra", di cui potrei fare nomi e cognomi, che mi hanno detto seriamente che i baschi sono pazzi a voler difendere la loro lingua incomprensibile, quando ormai andiamo verso un villaggio globale in cui tutti parleremo inglese e ci manderemo semplici messaggini SMS monolingui. La negazione della questione nazionale porta inevitabilmente a pittoresche stupidità boriose e seriose.
    15. Un altro interessante esempio che si può fare è quello del cosiddetto "multiculturalismo". Il multiculturalismo è oggi spesso virtuosamente contrapposto al nazionalismo o al cosiddetto "etnocentrismo", visti come vere e proprie anticamere del fascismo populista. Ma si tratta di una contrapposizione artificialmente creata e manipolata. Multiculturalismo buono, etnocentrismo cattivo, ed il problema è risolto. In realtà, multiculturalismo significa etimologicamente multi-culturalismo, cioè pluralità delle culture. In questo senso, io ho vissuto i miei primi sessant'anni all'insegna del più completo multiculturalismo, cioè della pratica di diverse lingue e della conoscenza di diverse culture. Le culture ovviamente non escono intatte dal dialogo e dallo scambio, ma si modificano e non restano mai eguali, come del resto avviene in tutti i rapporti umani. Ma appunto perché vi sia multi-culturalismo bisogna che le culture siano molte, perché se non sono molte non possono neppure dialogare fra loro. Ma per molti falsi multiculturalisti, in realtà, ci deve essere una unica cultura multiculturale globale, che ovviamente diventerebbe una cultura unica, e non più multi-culturale, con unica lingua inglese, unica cucina cinese, unico shopping italiano, eccetera. Questo multiculturalismo, ovviamente, sarebbe solo l'involucro pittoresco della totale americanizzazione del mondo. Il fatto che la stragrande maggioranza della cultura di sinistra non se ne accorga neppure, e se ne faccia anzi promotrice, continuando a gridare contro l'etnocentrismo persino quando si fanno cose elementari come la difesa dell'uso corretto della propria lingua nazionale, segnala una tragedia storica e culturale devastante, di cui non si vedono purtroppo ancora segnali confortanti di superamento.
    16. Per queste ragioni, e per molte altre di questo tipo, ho personalmente deciso fin dal 1997 di collaborare con la rivista romana "Indipendenza", che sostiene una versione democratica della questione nazionale cui ha dato il nome di "nazionalitaria". Sul termine si può discutere a lungo, ma il concetto mi sembra chiaro. La questione nazionale di difende, quando essa è veicolo di indipendenza, autogoverno, autodeterminazione, solidarietà e liberazione. Il nazionalismo imperialistico non è questione nazionale, ma esattamente la sua negazione. Si potrebbe pensare che la cultura di sinistra dovrebbe aver accolto posizioni di questo tipo. Tutto al contrario. Boicottaggio, silenzio, diffamazione. Andare contro corrente è difficile, ma per potersi guardare allo specchio senza vergognarsi bisogna farlo.
    17. Se il termine nazionalità, questione nazionale, nazionalitario, eccetera provoca reazioni epidermiche immediate, il termine "comunitario" e "comunitarismo" provoca reazioni ancora peggiori. Qui sembra che vi sia soltanto astuto fascismo travestito. Per questa ragione è necessaria una analisi ancora più approfondita e spregiudicata.
    18. Apriamo il Dizionario Italiano-Greco Moderno della Zanichelli. Il greco moderno è una lingua poco nota, ma è anche la lingua europea modera più simile al greco antico, con cui partecipa di una tradizione di ininterrotta continuità, al punto che i greci moderni la considerano una sola lingua a diversi gradi di evoluzione storica (ed io condivido questa opinione). Ebbene, in greco moderno "società" si dice koinonia, e "comunità" si dice koinotita. Si tratta in realtà dello stesso termine con lo stesso contenuto semantico, e koinotita è soltanto una società specificata e territorialmente determinata, come da noi le "comunità montane". La vita in comune si dice koinovion, e come si vede si ha la stessa radice semantica di società.
    Come si vede, in greco non è possibile differenziare semanticamente società da comunità. Questo non deve stupire, perché la vita sociale dei greci era la vita comunitaria della polis, e lo stesso termine di Aristotele per definire l'uomo, politikon zoon (animale politico), potrebbe essere tradotto senza forzature animale sociale o animale comunitario. Socrate, fondatore della filosofia occidentale, si concepiva come il moscone che dava fastidio alla sua città di Atene per tenerla sveglia, ed accettò la condanna a morte (pur ingiusta) come animale politico, animale sociale ed animale comunitario. E' bene aver ben chiara questa origine semantica, e non pensare che il dibattito cominci con la distinzione di Tonnies fra società (Gesellschaft) e comunità (Gemeinschaft). Ma di questa distinzione parleremo dopo.
    19. Il motto di Tomas Munzer, teologo della rivoluzione dei contadini tedeschi del 1525, era "omnia sunt communia". Il comunismo occidentale nasce dunque comunitario, con il motto che tutto è in comune. I primi "comunisti" dell'Ottocento, detti a volte impropriamente "utopisti", identificavano il comunismo con la vita comunitaria. Marx preferisce questo termine al termine "socialista", perché ai tempi della sua giovinezza i socialisti erano quelli che avevano progetti di correzione riformistica del sistema capitalistico, cui egli non credeva. Si tratta di un dato filologico accertato, difficilmente negabile in buona fede.
    20. Per poterci orientare correttamente sul problema che ci interessa, bisogna distinguere bene due possibili dicotomie. La prima distingue tra Società e Comunità, e dà origine al giustificato sospetto verso l'uso politico del termine comunità, comunitario e comunitarismo. La seconda distingue tra Comunità e Individuo, o più esattamente fra Comunitarismo ed Individualismo, ed è quella che ci interessa per legittimare integralmente l'uso del termine.
    21. E' universalmente nota la distinzione del sociologo tedesco Tonnies fra Società (Gesellschaft) e Comunità (Gemeinschaft). Le società sarebbero tenute insieme da un legame puramente formale e giuridico, senza vera coesione organica interna. Le comunità sarebbero invece tenute insieme da qualcosa di più organico e profondo, di cui gli individui non sarebbero che specificazioni secondarie e comunque non originarie e fondative.
    In questo modo le "società" e le "comunità" sono opposte polarmente, dando luogo ad uno spazio simbolico in cui il dissenso sociale può andare a "sinistra" mentre la coesione gerarchica può andare a "destra". Qui nasce storicamente la contestazione di sinistra al termine comunità usato politicamente. E vi sono ragioni ben precise per giustificarlo. La destra di fine Ottocento ed inizio Novecento usa il termine (ripreso da Hitler) di comunità popolare (Volksgemeinschaft), e la stessa comunità viene fondata in senso razziale e territoriale sul sangue e sul suolo (Blut und Boden).
    Ma la dicotomia inaugurata da Tonnies è in realtà lo specchio di una mistificazione ideologica, che vuole contrapporre la Germania del Kaiser (1871-1918) alla Francia ed all'Inghilterra. Francia ed Inghilterra sarebbero società individualistiche, mentre la Germania sarebbe una società comunitaria, e dunque qualcosa di più di una semplice società. Filosoficamente parlando, si tratta di una prosecuzione positivistica della vecchia polemica romantica contro il contrattualismo e le società nate "artificialmente". In realtà, Germania, Francia ed Inghilterra sono società capitalistiche relativamente simili, e la comunità funziona solo come ideologia tedesca di identità illusoria in funzione antisocialista. La comunità si pone dunque falsamente come ad un tempo organica e interclassista. E' del tutto normale che la cultura di sinistra reagisca.
    22. La polemica filosofica contro la teoria della "comunità organica" avviene all'interno di una grande confusione terminologica. Ad esempio, il grande sociologo francese Durkheim inverte il significato tedesco dei termini, e parla di solidarietà organica proprio per le società evolute moderne, mentre le società primitive sarebbero state fondate solo da una solidarietà "meccanica". Il tentativo di dare la colpa a Hegel, cioè di far diventare Hegel il teorico delle società organiche, è filologicamente e filosoficamente infondato, perché il concetto di "società civile" di Hegel (burgerliche Gesellschaft) non è affatto destinato a sparire ed a essere succhiato dentro uno stato presunto organico, me è permanente e costitutivo della modernità, basandosi sull'etica professionale e sugli interessi collettivi legittimi. Un concetto liberale, come giustamente segnala Domenico Losurdo, e non totalitario ed autoritario, come erroneamente sostenne Norberto Bobbio. Tuttavia, la polemica contro la teoria tedesca e reazionaria della comunità "organica" unifica il pensiero liberaldemocratico e quello socialista. Si tratta di una sorta di primo "fronte popolare" filosofico di fine Ottocento. Esso è ampiamente giustificato. In realtà le sole comunità veramente organiche non sono mai comunità umane, ma solo comunità di api, formiche e termiti. L'interesse ossessivo per le società di insetti (Maeterlinck, eccetera) è tipico di fine Ottocento, ed accomuna ovviamente l'inizio della visibilità della nuova società di massa. Questa utopia negativa è oggi ripresa dalle teorie che vogliono fondare il comunismo su una Grande Macchina Desiderante (cfr. Hardt-Negri, Impero, p.98), e che sostengono apertamente (e senza vergogna) il carattere ontologicamente omogeneo di uomini, animali e macchine cibernetiche. Coloro che vedono nel termine "comunitarismo" un cavallo di Troia del fascismo eterno (secondo Umberto Eco, dello Urfaschismus, il fascismo originario alla Jung) dovrebbero piuttosto rivolgersi alla versione contemporanea più radicale del modello di comunitarismo organico, quello delle Moltitudini Desideranti di Negri, composte da enti ontologicamente uniti dall'essere insieme umani, animali e macchine cibernetiche. Ma poiché non voglio mettermi al loro livello, non dirò mai che sono "fascisti". Sono soltanto ignoranti, e non conoscono gli elementi minimi della tradizione filosofica occidentale.
    23. Un secondo concetto di comunità che non poteva piacere alla cultura socialista, oltre a quello di comunità organica, era quello di comunità interclassista. I due concetti di realtà si sovrappongono in quello unificato di "gerarchia organica" (Julius Evola, eccetera), ed è tipico di chi sogna e si inventa un archetipo di società veramente "tradizionalista", che rispetta e mantiene le cosiddette gerarchie naturali. Si tratta ovviamente di una costruzione ideologica inesistente. Non esistono gerarchie naturali delle società umane. Tutte le gerarchie sono sempre e soltanto storiche, ed in quanto storiche mutano fisiologicamente nel tempo. Chi si inventa inesistenti Gerarchie Naturali deve per forza costruire un Mito dell'Origine, e nessun mito dell'origine può resistere alla critica dialogica e razionale di tipo filosofico. Il teorico dell'inesistente modello di Società Tradizionale deve dunque legittimare la sua fede con una Filosofia Antifilosofica, cioè con un fondamento mitico originario sottratto al dialogo razionale che ne smentirebbe inevitabilmente l'esistenza.
    Le comunità interclassiste, invece, esistono veramente. Ma esse sono appunto le società capitalistiche, in cui il legame sociale è il denaro. L'accesso differenziato e diseguale al denaro visto come veri legame sociale è di per sé "democratico", se la democrazia non viene concepita come autogestione economica ed autogoverno politico delle comunità, ma come accesso potenzialmente aperto a tutti (senza limitazione di razza, sesso, lingua, religione e provenienza etnica) all'arricchimento. E' il Sogno Americano (american dream). O meglio, una sua variante di "destra". Dalla critica al Sogno Americano nasce il Comunitarismo anglosassone propriamente detto. E' questo che ci interessa, ed è questo che deve legittimare il termine anche in Italia.
    24. Prestiamo dunque la dovuta attenzione a questo punto fondamentale, che è infatti il fondamento della legittimità del comunitarismo né organico né interclassistico. Il comunitarismo riprende l'idea greca di comunità politica, e quindi di etica comunitaria (l'Aristotele di Mac Intyre), proprio in quanto la sua genesi critica e sociale è l'opposizione al legame sociale del denaro, cioè di individui tenuti insieme alla comune partecipazione al gioco della "realizzazione" individuale in termini di successo economico. Vederci in questo un cavallo di Troia della destra archetipica è allora solo una forma (scusabile, ma irritante) di paranoia identitaria.
    25. E' peraltro normale che nei principali autori del comunitarismo anglosassone (Etzioni, Taylor, Mac Intyre) vi sia una insistita polemica contro il cosiddetto "individualismo". Nessuno di questi comunitaristi è lontanamente nostalgico di una inesistente comunità gerarchica naturale alla Evola, in quanto tutti accettano giustamente come irreversibile e storicamente positiva la costituzione dell'individuo moderno come titolare di scelte etiche, estetiche e politiche. Essi non vogliono nessun moralismo di stato, nessuna arte di stato e nessun partito unico interprete dei cosiddetti segreti della storia. Il loro è un comunitarismo democratico, e dunque un comunitarismo libertario ed egualitario, in quanto essi recuperano dagli antichi greci l'idea della democrazia come sovranità politica sull'economia, e non della democrazia come legittimazione elettorale plebiscitaria della sovranità assoluta dei mercati finanziari e delle oligarchie nazionali, multinazionali e transnazionali (e cioè la democrazia di Bush).
    Il termine "individualismo", come peraltro quello di comunità, si presta comunque a diversi significati. La sua origine filosofica sta nella critica di Max Stirner all'idealismo tedesco, ed è dunque una forma di anarchismo radicale, che nasce nel confuso ma fecondo contesto della cosidetta "sinistra hegeliana" (lo stesso contesto storico, peraltro, in cui nascerà anche il pensiero di Marx). Negli USA ed in tutto l'Occidente capitalistico, l'individualismo non è una categoria filosofica, ma una categoria pratica di comportamento quotidiano, in cui ognuno fa come se non appartenesse ad una società. Siccome così non è nei fatti, l'individualismo, che si presenta come il portatore del più cinico realismo comportamentale di successo, è in realtà una forma di vita anomica ed illusoria, che tutti i filosofi-psicologi alla Umberto Galimberti hanno criticato e smascherato come fattore di dissoluzione del legame sociale. Di qualsiasi legame sociale.
    26. Esiste un comunitarismo potenzialmente universalistico ed un comunitarismo dichiaratamente relativistico. Il comunitarismo potenzialmente universalistico non nega l'esistenza di una comunità umana mondiale, unificata da un pensiero sempre potenzialmente traducibile e da esigenze ecologiche, sanitarie ed economiche chiaramente transnazionali. A rigore, questo comunitarismo, che poi è anche il mio, dovrebbe essere meglio definito inter-comunitarismo. Questo intercomunitarismo coincide per me con l'idea regolativa di comunismo di Marx. Vi è anche però un secondo tipo di comunitarismo, che personalmente rifiuto, che è in realtà una forma di occidentalismo. Il principale esponente filosofico è a mio avviso l'americano Richard Rorty. Per lui i valori universali sono quelli accettati e praticati dalla comunità occidentale capitalistico democratica, e solo all'interno di questa comunità hanno valore. L'universalizzazione filosofica di questi valori è così identificata di fatto con l'esportazione di questi valori nel mondo intero. Un solo passo separa una simile impostazione dalla legittimazione dell'interventismo militare americano nel mondo, passo peraltro già compiuto da Michel Walzer e da altri pseudo-comunitaristi, che per comunità intendono di fatto il capitalismo globale a dominanza politico-ideologica americana. E' questa l'ideologia degli estremisti italiani della globalizzazione alla Gianni Riotta, che hanno dietro le catene dei grandi giornali e le potenze finanziarie del mondo occidentale.
    27. Come si vede, il comunitarismo non è uno stagno quieto, ma un mare agitato ed in tempesta. Una ragione in più per respingerne la paranoica lettura di cavallo di Troia di un nuovo fascismo populista. Il cosiddetto "populismo", infatti, non è di per sé né comunitarista né individualista. E' una protesta politica fisiologica, e quindi da non demonizzare a priori, contro l'autonomizzazione oligarchica delle èlites politiche che si relazionano ormai soltanto con centri finanziari sottratti ad ogni sovranità politica nazionale. Il "populismo" è una categoria politologica, non filosofica.
    28. Terminiamo ora con alcune riflessioni sul comunismo. Evitando i luoghi comuni del politicamente corretto di sinistra, cercherò di rivolgermi esclusivamente a Marx, la fonte originaria, e all'esperienza fallita del comunismo storico novecentesco (1917-1991), che si autopercepiva come un nuovo comunitarismo proletario emancipatore e non classista. Ne risulteranno alcune scoperte interessanti.
    29. Il comunismo secondo Marx è una comunità di libere individualità. Dal momento che la vera fonte filosofica di Marx è la saggezza filosofica greca, non ci può essere in lui opposizione di principio fra società e comunità (koinonia e koinotita, cioè eguale contenuto semantico). Il comunismo è una società libertaria, e quindi una comunità realizzata. Chi desidera anche un riferimento filologico sicuro ai testi di Marx, potrà ricorrere ai "Lineamenti" del 1858, in cui Marx distingue fra "indipendenza personale", il profilo antropologico che caratterizza la società borghese-capitalistica, e "libera individualità", il profilo antropologico che caratterizza la società comunista che Marx auspica. Indipendenza per Marx è infatti un termine filosoficamente insufficiente, perché è solo l'affermazione in negativo di una non-dipendenza (dipendenza che caratterizza secondo Marx le società precapitalistiche di tipo asiatico, schiavistico e feudale). Invece il termine di libera individualità è migliore perché è un termine in positivo, che allude all'espansione di capacità di realizzazione umana e di emancipazione sociale. Marx è dunque a rigore al di là dell'opposizione polare fra comunitarismo e individualismo. Ma lo è appunto perché recupera l'idea greca di identità fra società e comunità.
    30. Naturalmente anche nel capitalismo l'uomo è "dipendente", nel senso che dipende per vivere dal mercato capitalistico, che ne permette la vita solo se la sua forza-lavoro gli serve e può essere valorizzata. Ed è per questo infatti che Marx è contro il capitalismo. Ma Marx non è neppure nostalgico delle cosiddette comunità precapitalistiche, idealizzate e viste con nostalgia dai pensatori di destra, perché le connota come organizzazioni sociali a "dipendenza personale". E' dunque ovvio che Marx non ha nulla a che fare con la tradizione di destra.
    31. E con la tradizione di sinistra? E con la realtà del comunismo storico novecentesco di stato e di partito? Su questo è giunto il momento di fare delle osservazioni scandalose, ma certamente utili per orientarci meglio nel mondo contemporaneo.
    32. Come ho chiarito in un paragrafo precedente, la società comunista secondo Marx può essere definita una comunità di libere individualità. Marx non si sofferma volutamente sul comunismo, affermando "di non voler scrivere ricette per le osterie del futuro". Dichiarazione apertamente anti-utopica. Ma egli non può fare a meno di accennare egualmente al comunismo. Qui ricorderò due accenni diretti ed uno indiretto, che però resta in più importante. Nel 1844 Marx definisce il comunismo "non come un ideale da realizzare, ma come il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti". E' evidente che questa definizione è incomprensibile senza il contesto della polemica contro gli utopisti e la sinistra hegeliana. Da più di un secolo tutti i confusionari la ripetono come un mantra buddista, ed in questo modo si evitano quella che Hegel chiamava la "fatica del concetto". Nel 1875 Marx definisce il comunismo come quella società in cui ognuno darà secondo le sue capacità e riceverà secondo i suoi bisogni. Si potrebbe sostenere che il Marx del 1875 smentisce quello del 1844, perché questo è esattamente un "ideale da realizzare". Ed infatti io penso proprio questo. Ma Marx avrebbe risposto che non si trattava di un ideale astratto da realizzare, ma del coronamento concreto e materiale di un processo sociale prevedibile, quello della progressiva formazione di un lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all'ultimo manovale, alleato con le potenze mentali e scientifiche della produzione capitalistica, definite da Marx con il termine inglese di general intellect. Nessun ideale da realizzare, dunque, ma il coronamento di un processo sociale scientificamente descrivibile e prevedibile.
    33. Come è noto, questo soggetto sociale risolutivo capace di transizione comunista (mentre Marx esclude esplicitamente lo stato, socialista fin che si vuole) in più di un secolo non si è formato, e non accenna a formarsi. Fra le molte ipotesi possibili di questa non-formazione ritengo particolarmente plausibile (anche se non certo pienamente soddisfacente) quella del grande marxista italiano Gianfranco La Grassa, per cui Marx avrebbe ragionato in termini di socializzazione della produzione di fabbrica, in cui effettivamente avviene una socializzazione cooperativa, ma non a livello di impresa, in livello decisivo in cui non solo non si ha una socializzazione, ma una vera desocializzazione antagonistica. Per il momento, questo è il massimo che passa il convento "marxista" per coloro che non vogliono continuare a raccontar(si) delle storie, secondo la definizione insuperabile dell'ultimo Luis Althusser.
    Coloro invece che vogliono continuare a raccontar(si) delle storie, ed a fare come i bambini che non avendo un'automobile fanno broon-broon con la bocca, consiglio per la sua demenziale coerenza interna la teoria delle "moltitudini desideranti" di Antonio Negri, che furoreggia oggi presso tutti i confusionari (no)-globalizzati.
    34. Rimuovendo la tematica comunitaria, che pure era stata il presupposto delle sue origini, il pensiero comunista ha finito con il riprodurre involontariamente proprio le sue due versioni meno soddisfacenti, quelle della comunità organica e della comunità interclassista. Il partito è diventato una vera comunità organica, mentre lo stato socialista è diventato una comunità interclassista. Scandaloso, ma anche purtroppo realistico, se appena ci si vuole riflettere.
    35. Il partito concepito nel 1903 da Lenin non voleva essere una comunità organica in cui un falso Universale avrebbe schiacciato le individualità particolari. Nell'intenzione di Lenin, avrebbe dovuto essere una libera comunità elettiva di rivoluzionari consapevoli. Ma le cose andarono diversamente, ed a poco a poco si cominciò a dire che il Partito aveva sempre ragione, anche quando tatticamente era chiaro che aveva avuto torto, perché al di fuori del Partito c'era solo l'inferno piccolo-borghese della "mancata organicità" alla classe. Ed infatti lo stesso onesto Antonio Gramsci dovette usare la paroletta "organico" per indicare il rapporto fra gli intellettuali, la classe e il partito. Meglio sbagliare dentro il Partito che avere ragione fuori e contro. Ma questo è proprio il motto delle comunità organiche. Personalmente, l'unica organicità che auspico è l'organicità al Vero e non al Falso. Il Falso è sempre disorganico al mondo. Nel 1991 tutto questo baraccone sarebbe crollato. Per un giovane, oggi, è addirittura difficile credere che sia mai esistito.
    36. Lo stato socialista che Stalin cominciò a costruire nel 1929 non voleva essere una comunità interclassista, ma una società senza classi, o con le classi in via di disparizione. Ma le cose andarono diversamente, e cominciò a formarsi una inedita nuova classe di sfruttatori, reclutati e cooptati attraverso gli apparati del partito e dello stato. Non si creda che sia solo una mia malevola opinione. Si tratta della conclusione tratta da uno dei più grandi marxisti del Novecento, il cinese Mao Tse Tung, che infatti affermò che la burocrazia comunista non era neppure solo un ceto parassitario, ma addirittura una vera e propria classe di sfruttatori. Chi vuole conoscere una versione occidentale del maoismo, con tutte le citazioni a posto, può leggere le opere del grande marxista francese Charles Bettelheim. Leggere per credere.
    37. A questo punto, posso anche chiudere. Come è chiaro, non mi rivolgo e non mi sono rivolto a fanatici in mala fede, impermeabili al ragionamento razionale, per cui la militanza è rissa continua e continua ricerca di pericolosi e subdoli nemici. Costoro hanno sempre bisogno di nemici immaginari per nutrire la propria paranoia, e non sono mai destinatari di un possibile convincimento. L'arte è lunga, la vita è breve, ed a mio avviso non bisogna perdere tempo con loro. Bisogna lasciarli stare, farli cuocere nel loro brodo e permettergli ogni tanto di ululare per esercitare le proprie corde vocali.
    38. Mi sono invece rivolto a tutti coloro che, in buona fede, considerano le parole "nazionalitario" e "comunitario" come subdoli cavalli di Troia del fascismo archetipico che come la fenice risorge sempre dalle proprie ceneri. A queste persone in buona fede, che però purtroppo considerano spesso l'identità e l'appartenenza preferibili al ragionamento ed al convincimento, ricordo che oggi, in particolare dopo il 1991, assistiamo a spostamenti fisiologici da sinistra a destra e da destra a sinistra. Questi spostamenti, lo ripeto, sono fisiologici, e dureranno ancora a lungo, fino quando almeno il superamento della dicotomia Sinistra/Destra non sarà solo l'auspicio di alcuni studiosi del tutto isolati, ma un evento storico culturale e sociale di massa.
    Io lo auspico, ma ne siamo ancora lontani. Fino a quel momento, non vedo come si possa negare a priori, senza neppure esaminarla e verificarla, la buona fede politica e filosofica di chi si sposta da sinistra a destra (come ad esempio Adriano Sofri) o di chi si sposta da destra a sinistra. Un po' di studio della dialettica di Hegel non farebbe male. A suo tempo, Marx e Lenin l'hanno studiata. Oggi si studia poco, perché studiare è fatica, e porta poca visibilità. Il modello filosofico cui molti si uniformano è un signore chiamato Paolini, un individuo che sta passando la sua vita ad appostarsi dietro i giornalisti televisivi dei telegiornali, in modo che comunque milioni di persone lo vedano. Questo stadio supremo del narcisismo è rarissimo, ma è in realtà il modello segreto di comportamento per coloro che hanno sostituito la visibilità mediatica allo sforzo del pensiero. Mi auguro che il lettore di questo saggio rifugga da questa coglionaggine post-moderna. Permettetemi un moderato ottimismo.

 

 

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