"E' molto facile dire che è stata tutta colpa dei bianchi. Ma la responsabilità è anche nostra. A nome del presidente Mattieu Ke’re’Kou, del popolo del Benin e dell’Africa, io sono venuto qui a chiedervi scusa per quello che noi sappiamo essere successo: i nostri avi erano coinvolti in questo orrido, terribile commercio". Così parlò Cyrille Oguin, ambasciatore negli Stati Uniti di una stretta striscia di terra che affaccia sul Golfo di Guinea, fra il Togo e la Nigeria, davanti a un pubblico composto da discendenti di schiavi, la settimana scorsa, nell’aula magna della Louisiana Southern University, a Baton Rouge. Le sue parole sono state uno schiaffo per gli apologeti del politicamente corretto e i fautori di quella "cultura del piagnisteo" così intelligentemente sbeffeggiata da Robert Hughes in un saggio pubblicato in Italia da Adelphi. Nella tratta dei neri, i bianchi, erano "solo" quelli che compravano la merce nei porti lungo la costa atlantica. Arabi erano (quasi sempre) i grossisti che vendevano e "fratelli neri" erano quelli che procuravano la materia prima, attraverso guerre tribali il cui scopo non era conquistare terre ma fare il più grande numero possibile di prigionieri. è un argomento ancora tabù per chi affronta il problema dei tragici rapporti fra Europa e Africa al riparo di comodi (e logori) luoghi comuni. Ed è significativo che sia proprio uno fra i maggiori centri di smistamento di schiavi, poi diventato stato con il nome di Benin, a farsi carico di una tanto poco ortodossa quanto benvenuta rilettura della storia. Nel 1999, convinto che la comunità afro-americana sia ancora oggi dominata dal risentimento o quantomeno dall’indifferenza verso l’Africa, Ke’re’kou lanciò l’idea della "riconciliazione" fra le nazioni che preparavano il carico delle navi negriere e i discendenti di coloro che le riempivano.
Usò per primo la figura biblica di Giuseppe, venduto come schiavo dai suoi fratelli per poi diventare un personaggio potente in Egitto, al quale loro stessi si rivolsero per chiedere aiuto. Adesso, quello è diventato il parallelo che l’ambasciatore Oguin cerca di "vendere" alle platee di afro-americani: "Voi siete i Giuseppe contemporanei e c’è molto che potete fare per noi, molto che noi possiamo imparare da voi". L’iniziativa ha una dirompente portata simbolica (oltre a un più prosaico obiettivo: mobilitare in qualsiasi modo l’afflusso di capitali necessari allo sviluppo". Forse è anche il primo passo verso un atteggiamento meno pietistico e, insieme, paternalistico nella formazione del giudizio sulle vicende africane. Ma soprattutto non è accademica: lo schiavismo non è relegato nei libri di storia, non è un capitolo chiuso, esiste ancora nella stessa africa occidentale. In Mauritania i neri sono cittadini di seconda classe dal IX secolo, quando i nomadi arabi scesero sotto il Sahara e sottomisero le popolazioni indigene. Vent’anni fa la schiavitù venne ufficialmente abolita ma, secondo Amnesty International, è a tutt’oggi una pratica corrente [...] Noi, i caucasici, abbiamo molte colpe. Ma non tutte.
(L.Vaccari, Sette-Corriere della Sera, n. 28)