Umanità Nova, numero 41 del 19 dicembre 2004, Anno 84

Darfur. Un intreccio mortale




Il recente anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (10 dicembre 1948) è stato dedicato da Amnesty International alla questione del Darfur, la martoriata regione occidentale del Sudan confinante con il Ciad. In appena sedici mesi di sconvolgimenti politici, in un'area già colpita da siccità, dall'avanzata del deserto, da un latente conflitto tra contadini e allevatori per un uso opposto della scarsa risorsa naturale della terra (gli uni per la coltivazione agricola, gli altri per il pascolo, da cui entrambi ricavano a stento di che sopravvivere), si sono registrati dai 30mila ai 50 mila morti negli scontri armati (la maggior parte popolazione inerme, bambini, donne, anziani, il cliché triste e orribile di ogni guerra, qualunque sia l'arma con cui viene praticata, con il consueto e altrettanto terrificante corredo di razzie, stupri e devastazione), che hanno comportato la fuga dai propri luoghi di una massa di gente stimata all'incirca in un milione e 400mila, buona parte sfollati sempre all'interno dei confini sudanesi, qualche centinaio di migliaia rifugiatisi nel vicino Ciad, con i contraccolpi economici e sociali di un impatto devastante sulle forme di vite tipica di frontiera (incursioni incluse).

Il desolante spettacolo dei campi profughi, dell'assistenza umanitaria affidata alla carità locale, alla compassione di operatori umanitari, alla professionalità di agenzie d'emergenza, si è riproposto ancora una volta, anche qui con il corollario del controllo politico, da parte delle varie fazioni in lotta, degli aiuti trasportati lungo le piste del deserto, saccheggiate ora dagli uni, ora dagli altri, quando non è stato proprio il governo sudanese a impedirne il trasporto verso i campi. Anche in questo caso, abbiamo assistito al dispositivo umanitario ormai in atto da una quindicina d'anni, ossia il micidiale connubio tra generosità civile e tutela militare, tra slancio civico e militarizzazione del soccorso, tra aiuto (più o meno) disinteressato e manovre diplomatiche degli attori internazionali. Perché allestire un campo profughi è oggi la metafora della biopolitica umanitaria che gestisce e controlla vite umane, risorse naturali, tecnologie di aiuto, infrastrutture quali condutture idriche, apparati sanitari, ecc.

Tutto sembra essere iniziato nel dicembre 2002, in sordina, mentre il mondo ha cominciato a percepire qualche cosa il 25 aprile del 2003, quando i ribelli antigovernativi hanno attaccato con successo l'aeroporto di El Fasher, capoluogo del Darfur settentrionale; ma è solo dopo un anno, grazie all'escalation dei cadaveri disseminati sotto gli obiettivi dei primi giornalisti accorsi, che la macchina umanitaria e la diplomazia politica si sono sincronizzate per disquisire se era in corso un genocidio o meno, se era opportuno investire le Nazioni Unite o meno, se era necessario inviare una forza di interposizione a guida dell'Unione Africana o menoŠ

Anche se nominalmente non si può parlare di genocidio, chi è morto dilaniato dai colpi di kalashnikov o dai bombardamenti dell'aviazione militare del legittimo governo sudanese, chi ha dovuto lasciare tutto in fretta e in furia non ha il tempo per appassionarsi a tali dibattiti condotti in stanze ventilate o riscaldate, secondo il clima là fuoriŠ

Il Sudan è stato teatro di una sanguinaria guerra civile per quasi vent'anni, dal 1983 al 2002, tra il regime militare del generale golpista Beshir, alleato sin dal 1990 a tempi alterni con il leader politico e spirituale musulmano Hassan Turabi, da una parte, e il SPLA guidato da John Garang che nel sud ricco del Sudan, ma proprio per questo discriminato dall'esproprio di ricchezze verso la capitale (l'Alto Nilo è una fonte inesauribile di acqua e petrolio, miscela esplosiva per eccellenza ormai dappertutto), ha raccolto la popolazione animista e cristiana come carne da macello da contrapporre alle truppe governative, con il beneplacito di potenze confinanti che hanno tutto l'interesse a un indebolimento perenne del Sudan.

Il 20 luglio del 2002 (occhio alle date), a Machakos si raggiunge finalmente, dopo anni di mediazioni di ogni genere, un protocollo di armistizio tra le fazioni - il va e vieni dalle patrie galere del potente Turabi dal 1999 ad oggi, dopo i Cruise di Clinton su una presunta base terroristica di Al Qaeda che fabbricava ordigni chimici (in realtà era una piccola impresa farmaceutica) sembra aver indebolito Beshir a vantaggio del suo vicepresidente Taha che si intesta le trattative come nuovo uomo forte del regime. Congelato il conflitto tra nord e sud, senza tuttavia aver raggiunto un accordo minimo sia su un periodo di transizione, sia su una prospettiva di risoluzione dei fattori in gioco nella discriminazione clanica (prima che religiosa) tra nord e sud, il gioco di posizionarsi meglio al tavolo finale delle trattative si sposta altrove, mischiando le carte di una rivalità etnica ("africani" contro "arabi", come è stato etichettato quanto è avvenuto nel Darfur, "agricoltori sedentari" contro "allevatori nomadi", come è stato confuso l'effetto per la causa. In realtà, sostiene ragionevolmente e con cognizione Mahmud Mamdani, le parti in lotta "sono entrambe indigene e nere, e tutti sono musulmani e autoctoni").

Da un lato, la prosecuzione del tavolo negoziale sfociava il 25 settembre 2003 in un "Agreement on Security Arrangements During the Interim Period" siglato a Naivasha, in Kenya, sul modello degli Accordi di Oslo in Medio oriente che esaltano una transizione infinita e inconcludente (nel senso che non arriva a concludersi mai perché non affronta le reali poste in gioco). Dall'altro, gli scontri in Darfur vedono il plauso di Garang che mira all'estensione della guerra civile; l'organizzazione della parte musulmana, dichiaratamente non fondamentalista, legata ai leader spirituali, sia locali che nazionali, in due fazioni armate (l'SLA, che confina la shari'h alla dimensione esclusivamente religiosa, e il JEM, Justice and Equality Movement, che addirittura non prende posizione in merito), mobilitando i vari clan (i Zarghawa in testa); e la mossa governativa di armare e foraggiare altri clan locali per attuare tramite la guerriglia "indipendente" (i famigerati Janjaweed sostenuti dagli aerei governativi) quel che ogni esercito statuale fa per e con professione: assassinare, terrorizzare, depredare, scacciare.

I quattro cessate il fuoco che avrebbero dovuto disarmare le fazioni in lotta, a partire da quelle filo-Khartum, firmati l'8 e il 25 aprile, il 3 luglio e il 5 agosto di quest'anno, con mediazioni diplomatiche di un po' tutti (inclusa l'Italia, guarda un po', che fa parte insieme a Usa, Gran Bretagna e Norvegia del quartetto di osservatori e garanti degli accordi di Naivasha) lasciano il tempo che trovano, prevalendo le logiche di autonomia locali pure dai rispettivi "mandanti" in base al rafforzamento della propria tribù contro quella vicina, magari un tempo amica (il modello balcanico non conosce frontiere e si globalizza per via di una forza interna legata alla governance delle risorse umanitarie ed alla nuova penetrazione di controllo dell'Africa da parte degli Stati Uniti attraverso gli aiuti umanitari e la diplomazia dei diritti umani, come insegna il modello Kosovo). A ciò si aggiunge la confusione di armistizi in differenti versioni, nel senso che quanto previsto dai mediatori in lingua inglese, non viene riportato se non sommariamente in arabo, ad esempio, creando sfasature nella loro implementazione, quando non veri e propri tranelli o persino la compravendita dei delegati alle trattative.

Gli attori internazionali - la Lega Araba, gli Usa, l'Onu, l'Unione Africana, la Banca mondiale - non stanno intanto a guardare, orientando non neutralmente il flusso di risorse umanitarie per la popolazione sfollata. I paesi confinanti, che pure praticano politiche simili - l'infinita guerra in Congo e nel Kivu confinante con il Ruanda che colpisce i genocidari hutu oltre frontiera, l'Uganda alle prese con i signori della guerra ispirati nientepopodimeno che al Signore Gesù Cristo in persona - si chiedono perché mai dover rinunciare proprio loro alle risorse attivate in casi analoghi, e quindi passano ad attuare forme di escalation per scalzare il Darfur dal primo posto nell'agenda umanitaria mondiale.

Il conflitto civile sudanese subisce sopra tutto la pressione americana per essere risucchiato nella War on Terror dichiarata da Bush, secondo la quale la non-crociata contro i musulmani in ogni angolo della terra, anche dove non sono né integralisti, né al potere, non configura affatto uno scontro di civiltà, sempre evocato per essere negato a parole e perseguito nei fatti, secondo la percezione pubblica ormai globalizzata anch'essa, bensì un controllo di territori, risorse e popoli in uno scacchiere militare e politico indistinto che coincide con il mondo intero. Se a ciò si aggiunge che la principale compagnia petrolifera che fa affari con il Sudan è la CNPC (China National Petroleum Corporation) che ha scalzato gli inglesi dal mercato, si comprende come il tentativo dell'occidente di arrestare la crescita e lo sviluppo cinese, sia pure nell'ottica occidentale di una industrializzazione autarchica dalla forte apertura di mercato ma fortemente controllato politicamente dall'elite nazionale, si persegua in ogni luogo, tanto con le buone del Presidente Ciampi, quel commercio che apre le porte agli scambi in nome di Marco Polo, quanto con le cattive di Bush che mira a strozzare sul nascere l'economia cinese controllandone le risorse energetiche, necessarie per ogni crescita industriale.

E così, conflitti clanici locali, guerra civile nazionale e guerra permanente globale convergono maledettamente sui corpi martoriati della gente del Darfur, alla quale non resta nemmeno la fuga e la sopravvivenza, poiché anche queste estreme mosse sono integrate biopoliticamente nelle strategie di dominio dei padroni della terra.

Salvo Vaccaro

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