Se il padrone ti nega anche l'acqua da bere

E il sindacato? E' arrivata prima la magistratura che i sindacati nei cantieri dei fratelli Scorza. I lavoratori sottomessi hanno paura, la
sinistra tace o sta con i padroni

La cosa peggiore era il sabato. Dopo una settimana nei cantieri, dieci o dodici ore al giorno a bucare l'asfalto e a sistemare tubi sottoterra, gli operai dovevano rinunciare al sabato di riposo. E faticare almeno la mattina, altre cinque o sei ore. In tutto o in parte gratis. Quasi sempre nella masseria del padrone Sergio Scorza di Nardò (Lecce), titolare con il fratello Pietro delle imprese che hanno portato il metano in due terzi del Salento. «Nella masseria abbiamo fatto di tutto - racconta un operaio che tutti i giorni manovra un'escavatrice - Ci hanno fatto anche spalare letame e caricare pietre. Era un posto abbandonato e si dice che diventerà un agriturismo a cinque stelle». «Lavori forzati», dice un altro operaio. «Lì intorno non c'è niente, anche un panino te lo devi portare da casa. Mi è capitato di finire alla masseria senza preavviso e sono stato tutto il tempo senza sigarette, senza bere e mangiare. Le sigarette vabbè, ma l'acqua!...». Era lavoro fuorilegge, quello del sabato, ma obbligatorio. «Per me, come per altri, i problemi sono cominciati proprio quando mi sono rifiutato di lavorare il sabato, quando a Pietro Scorza gli ho detto «o questi sabati me li paghi oppure non ci vengo più»», ricorda un operaio di quasi 40 anni, da più di dieci dipendente del gruppo. Problemi? «Sì, ti mettono da parte, ti rendono la vita impossibile... Se non ti possono licenziare ti fanno capire che non sei gradito».

Il tragitto da Nardò al cantiere

Nelle tre imprese del gruppo Sforza, secondo le indagini dei carabinieri di Gallipoli e degli ispettori del lavoro di Lecce, gli straordinari venivano conteggiati e retribuiti soltanto in minima parte. Quelli del sabato quasi mai. L'agenzia Inps di Lecce ha riconosciuto a tutti i lavoratori due ore di straordinario per ciascuna giornata lavorata. Sono ormai accertati turni massacranti: dal lunedì al venerdì dalle 5,30 alle 17,30, con mezz'ora di pausa. E il sabato da cinque a sette ore, in genere alla masseria. Solo adesso, nel deposito di via Castellino dove gli operai si presentano ogni mattina, un cartello fissa l'orario: «Dalle 7 alle 15 30». «La regola è sempre stata di essere lì alle 5,30. Da lì raggiungiamo i cantieri, che possono essere vicini o più lontani, anche fuori provincia. E il rientro, per tutti, è alle 17,30». L'orario effettivo, in parte, dipende dal tragitto da Nardò al cantiere: più si è vicini e più si lavora. Ma non sempre: «Bene che ti andava rientravi alle 17,30-18 ma anche più tardi. Nel `92, quando ho iniziato e stavo nella zona di Taranto, si facevano le 8, anche le 9 di sera». E ancora, i lavoratori si vedevano decurtate le buste paga nelle giornate di pioggia (a spese dell'Inps); in caso di «danni» all'azienda, essi venivano detratti dai salari operai. Spesso la sicurezza era un optional: un saldatore una volta riportò gravi ustioni alle braccia per un incidente avvenuto mentre era solo, sottoterra. Sono venute fuori anche lettere di dimissioni fatte firmare in bianco, per «motivi di famiglia»: più che per licenziare, gli Scorza le hanno usate per trasferire i dipendenti da un'impresa all'altra all'interno del gruppo, massimizzando gli incentivi all'occupazione, oppure per trasformare i contratti a tempo indeterminato in rapporti a termine, sei mesi o un anno. «Chi si ribella perde il posto», questa la regola. «Io li capisco - dice un operaio che ha denunciato i padroni, all'indirizzo dei compagni che continuano a chinare il capo e anzi solidarizzano con gli Scorza - Loro dicono: "Chiamo papà chi mi dà il pane", hanno paura di perdere il posto». Soprattutto adesso.

Il cumulo di reati

Il 17 novembre il gip di Lecce Vincenzo Scardia ha ordinato gli arresti domiciliari per Sergio e Pietro Scorza. Estorsione aggravata ai danni di 86 dipendenti, questa l'accusa accolta dal giudice, «per avere - si legge nel capo d'imputazione - procurato a se stessi l'ingiusto profitto conseguente a una minore retribuzione corrisposta ai lavoratori delle imprese Sevar, Grandi e Italgecri srl, con minaccia di perdita del posto di lavoro e altre condotte vessatorie». I pm Carolina Elia e Cataldo Motta, quest'ultimo procuratore aggiunto alla distrettuale antimafia di Lecce, vanno oltre e ipotizzano anche il reato di riduzione in schiavitù (pena massima vent'anni) e la truffa aggravata all'Inps (sulle indennità per le giornate di pioggia), capi d'accusa che il gip ha ritenuto insussistenti. «I vertici aziendali - scrive il giudice Scardia - hanno creato un clima diffuso di intimidazione, tale da costringere i lavoratori dipendenti ad accettare intollerabili condizioni lavorative, illecite imposizioni, indebite decurtazioni della retribuzione. E ciò è avvenuto sotto il ricatto, esplicito o meno, della perdita del posto di lavoro».

Subito dopo gli arresti, a Nardò, una trentina di dipendenti ha manifestato la solidarietà agli Scorza, con un presidio davanti ai cancelli di via Castellino. Tra loro anche lavoratori che hanno confermato, in parte, le accuse: sui turni e sugli straordinari non pagati, l'Inps ha avuto conferme da tutti e 63 i lavoratori ascoltati, pari al 70% dei dipendenti.

Gli Scorza non sono gli ultimi arrivati. Le loro aziende sono veri e propri collettori di appalti pubblici: soprattutto gas e Enel, nel leccese ma anche altrove, fino a Bologna. Sergio, il maggiore, è il volto noto del gruppo: 50 anni, siede nella giunta dell'Assoindustria, dominata dai costruttori. Il fratello Pietro, 38 anni, nella gerarchia aziendale conta meno ma per alcuni operai era il più duro. A livello politico, il loro arresto ha fatto rumore: anche esponenti della sinistra, come il senatore Ds Alberto Maritati, hanno voluto esprimere «perplessità» sull'uso della custodia cautelare, poi è calato il silenzio.

I due arrestati respingono le accuse. «Questi fatti, se dimostrati, possono dar luogo a contenziosi civili o previdenziali, non certo di rilevanza penale», sostiene l'avvocato Giuseppe Bonsegna, noto professionista di sinistra che nel 2001 firmò l'appello per Massimo D'Alema, candidato nel Salento. «Anche su questi sabati vedremo chi ha lavorato, quanto ha lavorato e quanto è stato pagato», aggiunge. Fin qui, però, gli hanno dato torto. Gli arresti domiciliari sono stati confermati, il 1° dicembre, dal tribunale del riesame. Sono stati scarcerati dal gip alla vigilia di Natale per cessate esigenze cautelari ma intanto il procuratore Motta ha insistito in appello per veder riconosciuto il reato di riduzione in schiavitù, ricorso respinto perché il collegio non ravvisa l'«assoggettamento continuativo» richiesto dall'articolo 600 del codice penale. La norma, severissima, dall'agosto 2003 non è più limitata ai fatti commessi in danno di immigrati ma si estende a «chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà», o «la riduce o la mantiene in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all'accattonaggio», o a «prestazioni che ne comportino lo sfruttamento». Se non c'è «violenza, minaccia, inganno» può bastare l'«abuso di autorità» o l'«approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità».

Dietro uno scandalo simile ci si aspetterebbe di trovare una denuncia del sindacato. Invece no. I sindacati sono arrivati per ultimi, dopo i carabinieri e dopo un anno e passa di accertamenti cominciati per caso, «quando è successa una cosa grave - racconta un operaio - che non era mai successa». Il 18 luglio 2003 un operaio si è sentito male sul lavoro, ha chiesto un medico e il medico non arrivava. Si è stancato di aspettare e ha chiamato i carabinieri di Aradeo che hanno fatto venire l'ambulanza. Nulla di grave: il referto dice «crisi lipotimica», uno svenimento dovuto allo stress. Però al pronto soccorso è venuto fuori che l'operaio, qualche giorno prima, aveva preso un sacco di botte: contusioni allo scroto e all'inguine, prognosi di 15 giorni. I militari hanno fatto qualche domanda e il lavoratore, dagli Scorza dal `98, ha presentato una doppia denuncia: contro il compagno che l'aveva aggredito insieme a un caposquadra e contro le condizioni di lavoro che avevano reso possibile l'aggressione. Il 29 luglio l'aggredito e l'aggressore sono stati licenziati, ma altri compagni hanno deciso di parlare. I carabinieri hanno raccolto quattro nuove denunce, citate nell'ordinanza del gip. Poi un'altra ancora. Sono firmate da padri di famiglia, alcuni con dieci anni e passa di anzianità aziendale, difesi dall'avvocato leccese Marcello Petrelli. Quasi tutti hanno confermato le accuse, se non altro sugli orari.

La dinamica dell'aggressione la chiarirà la magistratura, se potrà. L'interessato non parla: «Scusatemi, ho paura». Ha cambiato lavoro e provincia, lasciando la famiglia a Nardò. Un altro operaio, che è rimasto in azienda e oggi vive l'ostilità dei compagni fedeli al padrone, racconta: «L'hanno picchiato perché cercava una bottiglia d'acqua. Era luglio, c'era un caldo terribile e dovevamo buttare l'asfalto a duecento gradi. Ha detto: "Devo bere, cerco l'acqua" e ci ha messo del tempo. Quello però se l'è presa, si sono bestemmiati i morti e a un certo punto il caposquadra lo teneva e l'altro lo menava...». Un compagno aggiunge: «La verità è che lui si lamentava - aggiunge un compagno - perché in un giorno dovevamo fare il lavoro di tre. E comunque lo filavano da un pezzo, come succede a tutti noi che non ci siamo sottomessi». Ma c'è anche chi parla di un litigio casuale.

Un modello per tutti

A sentire alcuni lavoratori «le aziende degli Scorza, nella zona, sono considerate un modello, in altri cantieri gli operai si sentono dire: "Se lì fanno dodici ore le potete fare anche voi"». La Cgil smentisce: «Nei grandi cantieri no, non siamo a questo punto», dice Biagio Malorgio, segretario della camera del lavoro di Lecce. Ma è anche vero che il sindacato non si era accorto delle condizioni di lavoro imposte ai dipendenti degli Scorza, nemmeno quando il lavoratore pestato e licenziato si è presentato all'ufficio legale della Cgil per il ricorso contro la giusta causa. «Non sempre riusciamo a essere presenti nei cantieri - riconosce Raffaele Romano, segretario provinciale della Fillea, gli edili Cgil - perché abbiamo pochi iscritti, nelle aziende degli Scorza una decina e prima ancora meno. E' chiaro: i lavoratori erano intimoriti, avevano paura e questo lo capivamo. Ma io, se il lavoratore non mi parla, posso fare poco». La situazione non era nota neanche alla Cisl, che di iscritti ne ha di più. Ai sindacati non resta che dire «ben venga il lavoro della magistratura» e proteggere i lavoratori dal ricatto occupazionale, che con i padroni agli arresti si fa più forte.

Il lavoro nero e irregolare non è una novità nell'edilizia salentina: «E' un fenomeno in espansione, le aziende giocano sugli straordinari e sulla doppia busta paga», spiega Romano. Per il 2003, la Fillea ha calcolato l'evasione contributiva al 34,2%, 15 milioni di euro all'anno. Su legalità e sicurezza si firmano accordi e protocolli che spesso restano fuori dai cantieri. Dopo l'arresto degli Scorza, finito in prima pagina sulla stampa provinciale, confederazioni ed enti locali si sono rimpallati le responsabilità: «Cosa faceva il sindacato?», ha polemizzato il sindaco di Lecce, Adriana Poli Bortone di An. «Sono gli enti appaltanti a dover vigilare sul rispetto dei contratti», replica Malorgio per la Cgil. Il prefetto ha convocato le parti sociali proprio per parlare di sicurezza e legalità nei cantieri. E i sindacati hanno finalmente messo piede nelle aziende degli Scorza, prima con un'assemblea in vista dello sciopero generale del 30 novembre e poi per un incontro sulla situazione interna. «Dovevano venire prima», taglia corto uno dei denuncianti. Gli operai hanno ancora più paura.

ALESSANDRO MANTOVANI