Il vicepresidente di Forza Italia ed ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti torna sul Corriere della Sera del 4 gennaio su un tema a lui caro, la difesa dell’industria nazionale ed europea dall’assalto delle esportazioni cinesi.
Difesa di un mercato perfetto, dove cioè un’autorità antitrust faccia rispettare le regole della concorrenza, o difesa della produzione e del lavoro europei?
Per Tremonti l’interrogativo è retorico, ma per un economista (soggetto poco simpatico all’ex ministro) il dilemma verte sul “come” si difendono meglio la produzione e il lavoro europei, con una strategia aggressiva di liberalizzazione ulteriore dei mercati o piuttosto con una strategia difensiva che si limiti ad applicare (più efficacemente) gli accordi commerciali esistenti? Insomma si tratta di decidere se giocare la partita all’attacco o in difesa. La partita però bisogna giocarla.
Tremonti, viceversa, vorrebbe che non si giocasse.
La colpa è dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), rea di aver permesso “una apertura dei mercati istantanea e totale”. Il Wto non è certo un’istituzione perfetta, ma a proposito di apertura “istantanea” dei mercati internazionali sembra che si trascurino alcune puntate del prolungato processo di liberalizzazione dei mercati.
E per quanto riguarda la “completezza” dell’apertura commerciale, ci piacerebbe sapere come deve essere considerata la protezione della agricoltura europea che il Wto continua a tollerare.
Ma quale è la “visione” che ispira la critica della globalizzazione e del libero commercio? Essa è quella di chi considera un mercato in cui vengano imposte le regole della concorrenza come un mondo per anime belle che tuttavia intralcia la capacità delle imprese che vi operano a competere con imprese inserite in contesti più orientati alla protezione, all’aiuto pubblico e alla tolleranza dei fenomeni di dominazione del mercato.
In altri termini, la concorrenza non viene vista come il mezzo, a volte brutale, per rafforzare le economie attraverso una allocazione più efficiente delle risorse produttive, ma come un vincolo alla libera intrapresa.
A voler fare dell’ironia, ciò spiega molte cose.
Ad esempio, spiega come l’impresa manifatturiera italiana abbia potuto evitare il suo declino, usufruendo dei vantaggi della scarsa concorrenza che affligge molti settori dei servizi a cominciare dai settori delle public utilities, che regala un bell’aggravio di costi all’industria italiana.
Spiega perché i consumatori europei paghino più del dovuto i prodotti agricoli e quindi chiedano salari nominali adeguati, avvantaggiandosi della protezione dei redditi agricoli.
Spiega perché, come denuncia l’ultimo rapporto della Confindustria, l’economia italiana è quella che meno ha cambiato la sua specializzazione produttiva per adeguarla al mutare delle condizioni dei mercati internazionali.
Spiega come l’industria automobilistica italiana sia così competitiva dopo la “graduale e progressiva” esposizione alla concorrenza internazionale.
Spiega meno perché la riduzione della pressione fiscale sulle imprese e sulle famiglie sia un poco in ritardo.
Ma forse spiega perché la riforma delle pensioni è ancora in cerca di autore e con essa la difficoltà a reperire risorse per la ricerca e l’istruzione, che qualcosa hanno a che vedere con la competitività internazionale.

La scommessa di Pechino
Si fa tuttavia notare che in Cina non si guarda tanto per il sottile e si stanno “sviluppando, non limitati ma all’opposto aiutati dallo Stato, vertiginosi processi di integrazione industriale verticale ed orizzontale”.
Forse, però, sfugge ai neo-protezionisti che la Cina sta compiendo una trasformazione della sua economia il cui principale problema è quello di togliere la protezione e i sussidi a una industria di Stato incapace di competere.
E che la conseguenza di ciò è la creazione di alcune decine di milioni di disoccupati, con il rischio di una esplosione sociale in un paese in cui per oltre un miliardo di persone la povertà non è ancora un concetto relativo.
E tuttavia la Cina sa che la sua sopravvivenza e il suo benessere futuro si basano sulla capacità di vincere questa sfida.
L’Antitrust ovviamente non esisteva e non esiste in Cina, un’economia fallimentare basata sull’industria monopolistica di Stato.
Più grave è che sia una scoperta recente, come ha notato Mario Monti, e ancora poco digerita, in un paese a economia di mercato come l’Italia.
Robert J. Gordon (Nber Working Paper n° 10661, Agosto 2004) fa notare che secondo studi disaggregati, la principale differenza tra l’Europa e gli Stati Uniti è in certi settori industriali che assorbono tecnologie avanzate (ICT), come il commercio di beni e di prodotti finanziari.
Questo contrasto chiama in causa le barriere alla concorrenza e le regolazioni nell’uso della terra che in Europa ostacolano, ad esempio, la creazione delle grosse catene di distribuzione al dettaglio, che viceversa sono una delle fonti dei guadagni di produttività che si sono ottenuti negli Stati Uniti negli ultimi quindici anni.
Il dinamismo economico, che è alla base del benessere e della crescita, è favorito da politiche che promuovono la concorrenza e la flessibilità del finanziamento delle imprese. Le istituzioni corporative e le “visioni” protezionistiche svolgono una funzione contraria: servono a proteggere le imprese esistenti inefficienti e a impedire l’entrata di quelle nuove.

Ernesto Felli e Giovanni Tria su Il Foglio

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