Il pericolo della Repubblica maggioritaria
di Luciano Violante



Il governo chiede la fiducia per la diciassettesima volta negli ultimi dodici mesi, nonostante i circa novanta voti di maggioranza alla Camera e i circa 50 voti di maggioranza al Senato. Questa apposizione esasperata del voto di fiducia, insieme ad altri fattori degenerativi, sta cambiando la natura del Parlamento. Prende piede una regola materiale in base alla quale il Parlamento nella sua unità costituzionale e politica appare sostituito da una maggioranza sempre più spesso trattata come puro braccio esecutivo del presidente del Consiglio dei ministri e da un’opposizione priva del diritto di interlocuzione con il governo e con la maggioranza.

Più volte in quest’Aula abbiamo fatto riferimento ai diritti dell’opposizione. Ma qui oggi dobbiamo parlare di qualcosa d’altro e più grave: dobbiamo parlare dei diritti del Parlamento in quanto tale e quindi dei diritti dei cittadini elettori a vedere rappresentati i propri interessi indipendentemente dal voto espresso nell’urna.
Stiamo scivolando silenziosamente verso una Repubblica maggioritaria. Per Repubblica maggioritaria intendo un sistema politico che non si cura della rappresentanza degli interessi generali del Paese, che confonde questi interessi con quelli della maggioranza politica o di chi tiene le redini della maggioranza politica, che mantiene un rapporto con il Paese non attraverso la mediazione parlamentare, che è faticosa e problematica, ma attraverso i mezzi di comunicazione che permettono un messaggio semplificato e senza l'onere del contraddittorio.

Se nella prossima legislatura dovesse governare il centrodestra questa prassi diventerebbe regola formale. Se invece governasse il centrosinistra, sarebbe difficile ai nuovi governanti resistere alla tentazione di replicare questa prassi, i cui vantaggi immediati rischiano di far aggio sulle degenerazioni successive.

La domanda è la seguente: esiste il rischio che il sistema elettorale maggioritario dia vita ad una Repubblica maggioritaria? O meglio: come possiamo impedire che il sistema elettorale maggioritario, da difendere perché garantisce stabilità ai governi, diventi il presupposto per una Repubblica maggioritaria che costituisce invece un grave rischio per i valori della democrazia? Poiché la Repubblica maggioritaria tende a fare a meno del Parlamento, solo una forte riaffermazione, nelle regole e nelle prassi, dei diritti, delle responsabilità e del ruolo del Parlamento, in particolare quando si esaminano i documenti di bilancio, può impedire che quel modello si affermi. Il richiamo ai diritti e alle responsabilità del Parlamento ed ai rischi di una Repubblica maggioritaria è determinato non da una preoccupazione accademica, ma dalla specifica situazione nella quale si trova il Paese. Gli indici di sviluppo significativi sono tutti negativi. C’è una crisi di fiducia delle famiglie e degli imprenditori nella forza del Paese. Manca la sfida per il futuro. In questo momento, e mi rincresce dirlo, appariamo un Paese che ha perso le sue ambizioni.

Un commentatore americano su un quotidiano di quel Paese segnalava nei giorni scorsi quella che a lui appariva una stranezza delle nostre Tv, quotidianamente piene tanto di signorine scollacciate quanto di attempati sacerdoti. Temo che quell’apparente contraddizione riveli una crisi profonda dell’identità nazionale pencolante tra l’assopimento proprio di una sessualità ridotta a voyeurismo e la ricerca di un ethos capace di dare un senso alla vita e permettere che la vita abbia un senso. Noi crediamo nella forza dell’Italia e sono certo che anche molti di voi abbiano lo stesso sentimento. Ma chiedo: oggi questa forza chi la rappresenta, chi la indirizza, chi la rassicura? E inoltre: come la si rappresenta, come la si indirizza, come la si consolida?

La domanda non è rivolta soltanto a voi, colleghi della maggioranza. È rivolta anche al centrosinistra. Chi ha responsabilità politiche, di maggioranza come di opposizione, ha il dovere di indicare al Paese una meta e di impegnarsi a perseguirla.

La legge finanziaria dovrebbe costituire la carta fondamentale per decidere anno per anno il tipo di meta che si indica alle famiglie, ai singoli e alle imprese, i tempi e i costi, i vantaggi e i sacrifici. La legge finanziaria dovrebbe segnare le linee strategiche per il futuro del Paese; dovrebbe contenere un quadro di certezze per le famiglie e per le imprese; dovrebbe costituire un esercizio di autorevolezza e di credibilità anche nei confronti delle altre nazioni.

Il testo che abbiamo davanti non risponde a questi criteri. Il punto qualificante avrebbe dovuto essere la riduzione del carico fiscale. Siamo tutt'altro che contrari ad una riduzione della pressione fiscale. Infatti nel 2000 riducemmo l’Irpef per circa 10mila miliardi di lire e nel 2001 per circa 20mila miliardi di lire.

La critica è un’altra. Noi riteniamo che non ci sia stata una riduzione della pressione fiscale complessiva e quindi che questa legge finanziaria sia priva di un’idea di futuro. Mi avvalgo delle cifre esposte in documenti del governo e della maggioranza. Nel testo uscito dalla Camera, che era privo delle misure fiscali, la pressione era indicata al 41,2%. Nel testo uscito dal Senato, che contiene le misure di riduzione fiscale, la pressione resta al 41,2%. È questa la dimostrazione più indiscutibile che quelle misure non hanno portato ad alcuna riduzione. Infatti, a fronte di circa 6 miliardi di euro di sgravi sulle imposte dirette gli italiani dovranno pagare (sulla base del dl del luglio scorso e di questa legge finanziaria) oltre 9 miliardi di aumenti di imposte, tasse e tariffe. Inoltre, l’aumento dal 18 al 23% della tassazione sul Trattamento di Fine Rapporto e la mancata restituzione del ]fiscal drag sottraggono alle famiglie, secondo i nostri calcoli, oltre 2 miliardi e 600mila euro. Complessivamente si prelevano dalle tasche degli italiani oltre 12 miliardi di euro. Sottratti da questa cifra i 6 miliardi di sgravi, resta un aumento complessivo di oltre 6 maliardi di euro. Si è dato con una mano, ma si è tolto con due.

D’altra parte il mancato conseguimento dell’obbiettivo della riduzione della pressione fiscale risulta dalla comparazione dei dati del Dpef con quelli della legge finanziaria (anche qui uso dati del governo e della maggioranza). Nel Dpef presentato quest’anno si sosteneva che la pressione fiscale si sarebbe attestata al 40,8%, mentre questa legge finanziaria la indica al 41,2%. Dovremmo correggere le iniquità sociali. Invece questa legge ne produce di nuove: il 30% delle famiglie con redditi più bassi godrà del 6% delle risorse destinate alla riduzione dell’Irpef ed il 30% delle famiglie più ricche disporrà del 66% di quelle risorse. Nulla è previsto per i cosiddetti incapienti che però pagheranno di più il riscaldamento della casa (per l’aumento dei prezzi del gasolio), i trasporti, i servizi.

Dovremmo lottare contro l’evasione fiscale. L’on. Tremonti ha recentemente ricordato come in Italia risultino solo 1181 persone che dichiarano un reddito pari o superiore a un milione di euro e solo 15.953 dichiarano un reddito di 300.000 euro. Una cifra non corrispondente alla realtà, se si considera che soltanto nell’anno scorso sono state immatricolate 220.000 grandi imbarcazioni da diporto e fuoristrada di grossa cilindrata. Secondo l’Agenzia delle Entrate sfuggono al fisco almeno 100 miliardi di euro. È chiaro che non si può fare una politica basata sui condoni e, contemporaneamente, lottare contro l’evasione fiscale.
È nella tradizione della grande destra italiana ed europea il controllo della spesa pubblica: ma la spesa pubblica è salita dal 37,1% del Pil del 2001 al 40% di oggi. Gli errori di previsione hanno fatto spendere un punto e mezzo di Pil in più, pari a 18 miliardi di euro ed hanno fatto incassare un punto di Pil in meno, pari a 12 miliardi di euro. La macchina pubblica non si è snellita: ci sono 116.000 dipendenti pubblici in più.

Alla radice di questa situazione, a nostro avviso, c’è un’arroganza politica che considera il passaggio in Parlamento un puro onere procedimentale invece che il confronto di merito con chi rappresenta, per effetto del voto l’interezza della nazione. Confrontarsi in Parlamento, accettare la mediazione delle idee e degli interessi che è propria della sede parlamentare, avrebbe consentito di evitare alcuni errori, di tener conto meglio delle aspirazioni delle diverse classi sociali, dei diversi ceti professionali, avrebbe consentito di tener conto della ricchezza di posizioni e di prospettive propria del nostro Paese. Avrebbe consentito, in un clima di civile confronto, di aiutare la costruzione di speranze e di fiducie.

È in corso, sotto i nostri occhi, un processo di dissipazione delle risorse materiali e intellettuali della nazione: la mortificazione dei talenti, la disincentivazione dell’impegno, la fuga delle intelligenze imprenditoriali, la dispersione, in breve, di quanto ci è più prezioso per la rinascita. Non intendiamo sfuggire alle nostre responsabilità e le linee strategiche che presenteremo per tornare al governo dovranno fondarsi su una grande opera di coesione civile, sullo slancio per tornare a competere, sul rispetto delle regole come garanzia della correttezza dei comportamenti politici, su un’idea di nuova modernità fondata su passioni civili forti e valori politici duraturi.

Noi ci impegneremo per questi obbiettivi e crediamo di avere la capacità di conseguirli. Ma adesso siete voi che governate; lo fate chiudendovi nel palazzo, sfuggendo sistematicamente al confronto con l’opposizione ed anche al confronto con il Paese, come risulta dalle analisi comuni sulla crisi che fanno gli imprenditori e i sindacati dei lavoratori.

Avete agito come se foste figli di un dio maggiore; per questo la responsabilità delle condizioni gravi delle famiglie, delle imprese, dei giovani ricade interamente sulle vostre spalle.

E per questo vi neghiamo la fiducia.