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    Predefinito Il mesotelioma? In prescrizione....

    Amianto, processo Breda: tutti assolti i 12 imputati.


    Tutti assolti i 12 imputati al processo Breda in corso a Milano. Erano accusati di omicidio colposo per la morte di Giancarlo Mangione, ex dipendente della Breda, morto in seguito ad un mesotelioma pleurico, il tipico tumore da amianto. Per nove di loro i giudici hanno riconosciuto le attenuanti generiche decretando così la prescrizione del reato. Altri tre hanno ricevuto una sentenza di assoluzione piena "per non aver commesso il fatto".

    Tra i nove dirigenti, per i quali la procura di Milano aveva chiesto 18 mesi di reclusione, spicca il nome di Vito Schirone, l'ex manager della Breda già assolto in un primo processo per la morte di altri sei operai perché "il fatto non sussiste".

    L'espresso

  2. #2
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    Predefinito

    La vertenza FIBRONIT:
    ha quasi 70 anni la fabbrica della morte.



    Un mostro che dorme, custodendo gelosamente le sue temibili tonnellate di manufatti di cemento-amianto. E’ la ex FIBRONIT, lo stabilimento che occupa un’area di circa 100 metri quadri in via Caldarola, a ridosso del centro di Bari, che nei suoi 50 anni di attività ha dato lavoro ad una media di 400 persone, ma che a molte di loro ha anche garantito una malattia letale – asbestosi, mesotelioma pleurico ed altri tumori polmonari e dell’apparato digerente.

    La storia di quella che la stampa ha definito la fabbrica della morte comincia nel 1935: è l’anno di nascita della SAPIC (Società Adriatica Prodotti in Cemento Amianto), futura FIBRONIT, che avvia la lavorazione del minerale senza fornire agli operai alcuna prevenzione: l’amianto o asbesto viene, infatti, trasportato nei sacchi di juta, sottoposto a sminuzzatura per separarne le fibre, miscelato con cemento ed acqua, infine stagionato e segato a secco. L’elenco delle applicazioni del minerale è lunghissimo e a fare la parte del leone è l’edilizia, dove viene impiegato molto come spray da accostare ad elementi metallici o con funzioni isolanti, oppure impastandolo con altri materiali – la cosiddetta “matrice” – a cominciare dal cemento.

    L’asbesto, a basso costo ed oggetto di gran vanto per le eccezionali caratteristiche fisiche – la prima delle quali è la refrattarietà al fuoco – è la chiave di lettura per ricostruire un certo tipo di attività industriale, tanto in voga nei decenni passati, ciecamente orientata a inseguire le ragioni economiche a discapito della minima tutela della persona umana. La dispersione delle polveri è, quindi, massiccia ed incontrollata: le fibre, sottili ed invisibili, si rendono facilmente respirabili dentro e fuori i cantieri industriali, e solo più tardi si potranno conoscere i danni sulla salute dei lavoratori di questa irresponsabile ed incauta condotta produttiva.

    Si dovrà attendere, infatti, il 1967 perché il trattamento dell’amianto, che in Italia è divenuto tristemente celebre anche come eternit, subisca una parziale trasformazione, grazie all’utilizzo di mezzi meccanici, proprio per diminuire lo spargimento delle polveri, ma non si tratta di un provvedimento risolutivo.

    Le patologie causate dall’inalazione dei residui volatili dell’asbesto sono tutte caratterizzate da lunghi tempi di latenza, il che significa che - com’è avvenuto per gli operai della FIBRONIT - dall’esposizione al manifestarsi della malattia possono trascorrere alcune decine di anni.

    I piccolissimi elementi, resistenti e friabili, hanno meno di mezzo millimetro per diametro per 2-5 millesimi di millimetro di lunghezza, pertanto con estrema semplicità riescono a penetrare nell’organismo, senza essere fermati dalle ciglia che ricoprono l’epitelio delle vie aeree. In seguito, le minuscole fibre si depositano nei bronchi e negli alveoli dei polmoni, migrano verso la pleura – la membrana di rivestimento polmonare – danneggiando i tessuti e facendo perdere loro elasticità: è così che l’uomo contrae patologie aggressive e spietate ed è clinicamente accertato che alcuni tumori di forma maligna, nella stragrande maggioranza, sono provocati dall’esposizione all’amianto.

    Gli anni ’70 si aprono con i primi decessi e le prime rivelazioni delle malattie dei dipendenti della fabbrica barese ed è un amaro e consistente bollettino: al giugno 1976 si contano 300 impiegati nello stabilimento e al dicembre 1979 l’INAIL ha già riconosciuto oltre 200 casi di asbestosi.
    A queste cifre, fornite dalla Sezione ANMIL di Bari, si devono aggiungere i 130 ex dipendenti affetti da asbestosi deceduti e con rendita di reversibilità INAIL riconosciuta ai superstiti, i 30 ex dipendenti deceduti per altre patologie, pur affetti da asbestosi, non riconosciuti dall’INAIL, per i quali è stata intentata causa nei confronti dell’Istituto assicuratore ed i 15 decessi per mesotelioma pleurico in attesa di giudizio penale.

    Gli studi sui lavoratori della FIBRONIT risarciti per asbestosi hanno evidenziato in maniera lampante l’aumento significativo della mortalità per tale malattia e per neoplasie a carico di polmone, pleura, mediastino e peritoneo ma, soprattutto, hanno mostrato il nesso causale fra l’esposizione all’amianto e le tremende patologie elencate.
    La battaglia giudiziaria di operai, rappresentanti sindacali e cittadini contro l’industria cementifera del capoluogo pugliese affonda, dunque, le sue radici negli anni ’70, quando vengono avviate le prime ispezioni negli impianti, durante le ore di lavorazione, per accertare come l’aspirazione dei filamenti di amianto possa aver intossicato il personale.
    Il Pretore incaricato delle indagini, Vincenzo Binetti, nell’aprile del 1974 compie una minuziosa visita allo stabilimento, si sofferma ad osservare lo svolgimento della produzione nei reparti “più a rischio”, s’intrattiene a lungo con i dipendenti, ascolta i loro racconti sull’attività in FIBRONIT ed annota i motivi delle loro legittime preoccupazioni per la salute.
    Per i vertici della fabbrica e poi per gli Ispettori del lavoro e dell’ENPI, dunque, si ravvisa il mancato rispetto dell’articolo 2087 del Codice civile che recita: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

    E’ con la legge 257/1992 che viene ufficialmente proibita, nel nostro Paese, l’estrazione, l’importazione e la lavorazione dell’eternit.
    Non è però la prima volta che si legifera in materia, introducendo limiti all’impiego in alcune applicazioni e limiti alla contaminazione dell’aria. La conseguenza immediata si è vista, nelle nostre case, prima del 1992: i manufatti per uso domestico, come i guanti da forno o i rivestimenti per le assi da stiro, portano obbligatoriamente l’indicazione “A” per segnalare la presenza dell’asbesto.
    La legge è in vigore da 12 anni, eppure – e la vertenza FIBRONIT ne è il sinistro emblema – la minaccia non può affatto considerarsi superata, poiché la presenza dell’amianto è diffusissima in innumerevoli ed insospettabili costruzioni edilizie.
    Con il passare degli anni, i “sopravvissuti” dell’azienda hanno abbracciato l’impegno morale di continuare ad esporre, fuori e dentro i luoghi della giustizia, le proprie ragioni: tutto questo perché il polverone sollevato dalle parole di chi ha visto tanti colleghi ammalarsi e morire riuscisse a sbriciolare l’omertà sulla disinvolta trasformazione dell’amianto.

    Il procedimento penale per omicidio colposo, relativo a 15 morti per mesotelioma pleurico, si apre nel novembre 1999: alla sbarra c’è un’azienda ormai in liquidazione ed i familiari delle vittime hanno dinanzi a sé un banco degli imputati vuoto, giacché i presunti responsabili sono anch’essi, nel frattempo, deceduti.
    Ma i residui della lavorazione non hanno soltanto contaminato i capannoni di via Caldarola: secondo le testimonianze dei dipendenti, infatti, quella che essi stessi definivano “melma” – ciò che avanzava della prima mescolanza del minerale con l’acqua – ogni sabato veniva scaricata nella vicina costa sud barese.
    “Prima degli anni ’60 – ripete ancora oggi Pietro Favia, componente del Comitato Esecutivo ANMIL ed ex operaio FIBRONIT – si facevano sei, sette spedizioni per sgomberare la fabbrica dagli scarti e trasferire il materiale sulle spiagge circostanti. Poi si fece ricorso ad un’autobotte, che caricava più “melma” per ciascun viaggio verso il litorale di Torre Quetta”.
    “Il vero problema dell’affaire FIBRONIT – spiega Favia che, con il Presidente provinciale ANMIL Bari Lorenzo Lorusso ed il componente del collegio Probiviri ANMIL Damiano Scardicchio si adopera per mantenere vivo l’interesse pubblico sulla vicenda – è il sottosuolo. E’ sottoterra, infatti, che si annidano le pericolose sostanze derivanti dal cemento, sia in quel che rimane della FIBRONIT sia in spiaggia: il progressivo deterioramento di quel materiale è una bomba a orologeria per la salute degli esseri umani".

    La soluzione consiste nel sigillare, come con un sarcofago, il carico inquinante: se imprigionate nell’impasto del cemento o rinchiuse in intercapedini non deteriorate le fibre possono non essere nocive.
    Ben diverso è il caso dei tetti in eternit – la principale fonte d’esposizione finora accertata – poiché si erodono, per effetto delle intemperie e, soprattutto delle piogge acide, rendendo così agevole la liberazione delle particelle nell’atmosfera.
    Un sopralluogo, anche superficiale, agli stabilimenti FIBRONIT non può che destare allarme: in una parte della città di Bari a discreta densità abitativa, i capannoni pericolanti traboccano di pezzi cementizi in rovina che si disintegrano inesorabilmente con lo scorrere del tempo.
    Nel 1995 anche un ministro della Sanità, il professor Elio Guzzanti, futuro direttore scientifico dell’Istituto “Regina Elena” di Roma per lo studio e la cura dei tumori, manifestò chiara preoccupazione per lo stato di abbandono di quei luoghi “ad alto rischio” per la presenza di amianto.
    La messa in sicurezza dell’ex FIBRONIT segue un percorso ad ostacoli, sebbene nell’autunno del 2001 l’area sia stata inserita nel Programma nazionale di bonifiche redatto dal ministero dell’Ambiente, che prevede lo stanziamento di circa 1.100 miliardi delle vecchie lire per recuperare 40 siti d’interesse nazionale, considerati inquinati. E il 10 maggio scorso, a Bari, buona parte della comunità locale, con a fianco associazioni, sindacati ed esponenti politici, ha marciato per invitare le autorità a creare un parco lì dove decine di operai hanno sacrificato la vita per l’amianto.

    La battaglia, che ha visto l’ANMIL costituirsi parte civile nel dibattimento, non si ferma: la FIBRONIT, è una discarica a cielo aperto, un ecomostro che sparge ancora veleni invisibili, e rappresenta un’emergenza ambientale la cui soglia d’attenzione deve restare elevata, anche in memoria di chi non può più far valere i propri diritti di cittadino e lavoratore.

    Fonte: ANMIL

 

 

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