....limiti di una ricerca mitizzata
In linea di principio, la pluripotenzialità permette alle staminali embrionali di produrre cellule di muscolo, cervello, rene, intestino, pancreas e così via… Da qui l’equazione: staminali embrionali = numero quasi illimitato di cellule di tutti i tipi = candidate ideali per lo sviluppo di terapie che rigenerino i tessuti. Rappresenterebbero, stando ad alcuni colleghi, l’unica e ottimale sorgente di cellule terapeutiche. In realtà, come dicono gli anglosassoni, “there is no free meal in nature”; letteralmente, la natura non offre pasti gratis, la rosa ha le sue brave spine e l’equazione è incompleta.
Come per le staminali adulte, la manipolazione di quelle embrionali al fine di trapiantarle presenta problemi tecnici che richiederanno del tempo per essere risolti e che, al momento, non ne permettono l’utilizzo in ambito clinico, nemmeno per una sperimentazione preliminare… Fermo restando che ad oggi esistono cure salvavita che utilizzano staminali somatiche (adulte), ma nessuna con staminali embrionali. […] In sintesi, non ci siamo ancora, non ne sappiamo abbastanza. Attualmente, non siamo in grado di costringere le staminali embrionali a produrre le cellule che ci servono e soltanto quelle.
Appena ci sembra di esserci riusciti sorgono complicazioni ulteriori. Una volta prodotte in vitro le staminali embrionali sufficienti, una volta trovati i segnali che inducono la genesi di cellule mature utili al fine terapeutico, ci si trova e ci si troverà inevitabilmente in presenza di una miscela di cellule che contiene allo stesso tempo cellule utili e cellule indesiderate.
Come pensare di praticare un trapianto intracerebrale in pazienti che soffrono di morbo di Parkinson se nella sospensione cellulare da trapiantare ci sono, insieme ai neuroni dopaminergici, altri tipi di cellule?
E cosa accadrebbe nel tessuto del paziente se a contaminare le cellule mature che gli vengono trapiantate fosse rimasta qualche staminale embrionale indomita, pluripotente o tornata tale a dispetto di tutti gli sforzi fatti per domarla? Quale rischio di tumore comporterebbe?
Come se non bastasse, ci sono problemi etici. Per raccogliere staminali embrionali bisogna creare embrioni e distruggerli. Che problema c’è? sento dire. A questo stadio, è soltanto un grumo di cellule, non può essere considerato una vita, perché non comunica, non elabora informazioni, non è in grado di sopravvivere autonomamente.
Questa è la nemesi della faciloneria, della superficialità. L’embrione comunica eccome, in modo complesso e articolato, scambiando milioni di segnali con la madre e l’ambiente che lo circonda.
Nemmeno un neonato è autonomo, ma nessuno dubita che sia vivo.
Non è questo a discriminare tra vita e non vita, in nessun animale. Credo che a distinguerci dagli altri animali sia la capacità di usare la logica, la ragione. Se la pratica della scienza ci ha insegnato qualcosa, è proprio di usare anche gli occhi della mente, di non fermarci all’apparenza. L’apparenza suggerisce che l’embrione sia un grumo di cellule qualsiasi, infatti assomiglia a quello di qualunque mammifero. Ma già dopo solo 4 divisioni cellulari che seguono la fecondazione si riesce a capire se è di topo o di uomo.
Se io l’ho fatto con gameti umani, so che è umano dal primo giorno, è quello che ero io alla sua età. Capisco che si clonino pecore e persino pachidermi estinti, nel caso della mia specie però provo qualcosa di diverso. Avverto che “non è giusto”, un sentimento condiviso anche da parecchi colleghi. Un tabù, per dirlo in termini laici.
Dal momento della fecondazione la cellula originaria evolve, oggettivamente, in un continuum, senza soste né interruzioni, attraverso le fasi diverse della vita: quella embrionale, fetale, neonatale, adolescenziale, adulta, fino alla morte.
Tra il primo atto e l’ultimo c’è un essere umano in tutte le sue forme. I biologi dello sviluppo, per mestiere, hanno bisogno di segnare le tappe di ogni minima differenza, ma non hanno bisogno di discontinuità arbitrarie. Voler indicare stadi in cui la vita non c’è ancora e lo stadio in cui compare all’improvviso è fare ideologia o affidarsi a forti dogmatismi.
Per la religione ebraica, cristiana (fino a poco tempo fa) o musulmana, la vita corrispondeva all’arrivo dell’anima, da 40 a 120 giorni dal concepimento quando il feto iniziava a muoversi (ma se era femmina, non arrivava mai).
Soltanto da quel momento era considerata degna di essere protetta.
Per certi versi, aveva un senso perché prima dei 40 giorni una donna può perdere l’embrione che porta senza nemmeno sapere di essere rimasta incinta.
Adesso si sono aggiunte varianti culturali, il concetto forte di individuo e di identità per cui la vita inizierebbe due settimane dopo il concepimento, quando è già certo che l’ovulo ha dato luogo a uno o due o più embrioni e futuri individui. Troppo arbitrari questi parametri. Con la biologia e la ragione c’entrano poco. La conclusione che l’embrione è solo un grumo di cellule si basa sull’osservazione dell’apparenza e non della sostanza. E’ una conclusione che ci si potrebbe aspettare da un qualunque animale (se potesse parlare) ma non dall’uomo, che non valuta in base all’apparenza ma per scienza e conoscenza, usando il proprio raziocinio. Scienza e conoscenza ci dimostrano senza dubbio che quello che sembra un grumo di cellule altro non è che vita umana in uno dei suoi tanti stadi, tutti unici. A proposito di donne, l’altro problema etico è che gli ovuli con i quali creare embrioni in vitro non crescono sugli alberi, e nemmeno in laboratorio (almeno per ora). Per ogni embrione, occorre prelevarne centinaia da decine di donne che si devono sottoporre a una procedura penosa, non priva di pericoli sul momento, e che può mettere a rischio maternità future. A volte la donna lo fa per soldi, il che fa intravedere un mercato osceno. I ricercatori intenzionati a clonare embrioni umani ne tengono conto? Dovrebbero. Anche se non li condividiamo, i problemi etici sono come ogni altra obiezione, non necessariamente morale, suscitata dal nostro lavoro: ci fanno un gran bene, a noi ricercatori. Ci spronano a esplorare alternative che altrimenti non ci sarebbero venute in mente o che avevamo scartato a priori.
Angelo Vescovi da “La cura che viene da dentro”, © 2005 Mondadori editore
su il Foglio del 31 marzo
saluti