I piccoli schiavi dell’oro bianco
In Uzbekistan tutti i bambini sono costretti dal governo a raccogliere il cotone
Uzbekistan - Namangan - 12.1.2005
“Io mi perdo spesso nel campo perché queste piante sono molto più alte di me e così non vedo dove sono gli altri. Infatti è un buon posto per giocare a nascondino, senza farsi vedere dai guardiani”, dice sorridendo con aria birbante Azamat Buronov, otto anni, prima di riprendere il suo lavoro tra i batuffoli di cotone.
Otto anni anche la piccola Muazzam Israilova, che torna a scuola con il raccolto della giornata: un chilo di cotone. “Veramente questo non l’ho raccolto io – confessa a bassa voce – me lo ha dato mio fratello di dodici anni”.
“Se torniamo senza il cotone – interviene Dilshoda Valijnova, di un anno più grande – la maestra si mette a urlare e ci punisce facendoci lavare i pavimenti, o dandoci brutti voti; o addirittura con l’espulsione dalla scuola”.
“Di solito ci troviamo davanti alla nostra scuola alle 8 del mattino – spiega Rukiya Mamajanova, undici anni – e poi andiamo nei campi a raccogliere cotone fino alle 3 del pomeriggio. Così portiamo a casa un po’ di cibo, quello che compriamo con le nostre paghe: io in due mesi di lavoro ho guadagnato 200 som (15 centesimi di euro, ndr)”.
Morire per due centesimi al giorno. In media ogni bambino riesce a raccogliere un chilo e mezzo, due chili di cotone al giorno, ricevendo in cambio 25 som al chilo (due centesimi di euro). Se va bene. Perché spesso i bambini, per non pungersi con i bozzoli del cotone e data la loro bassa statura, raccolgono soprattutto il cotone caduto, mischiato a terra e foglie, per il quale ricevono ancora meno soldi.
Ma per le autorità locali, ossessionate dall’obbligo di raggiungere le quote di produzione regionale imposte dal governo centrale, va bene lo stesso: basta che ci sia il peso. I responsabili locali che raccolgono meno del dovuto vengono puniti con il licenziamento.
I bambini spesso si ammalano per il freddo, per la fatica e per l’assenza d’igiene. Ma le autorità non li mandano all’ospedale per non perdere forza lavoro. Così, capita che alcuni bimbi, dopo la stagione del raccolto, non tornino più a scuola perché sono morti di polmonite o di bronchite o per infezioni intestinali causate dall’acqua che sono costretti a ber: acqua delle pozzanghere o quella sporca di terra e piena di vermi delle cisterne portate dall’amministrazione, come racconta Saidmurad Kuchkarov, attivista di una locale associazione di difesa dei diritti umani.
Trattati come schiavi. “Da quando è iniziato il raccolto, tre mesi fa - racconta Khafiza Kudratova, dieci anni – non mi sono mai potuta lavare. E anche il cibo non è un granché: pane e tè per colazione e zuppa per pranzo. Mai carne. Spesso c’è della pasta, ma quella dobbiamo pagarla con i nostri soldi.
L’organizzazione del lavoro è affidata dalle autorità locali direttamente alle scuole, che chiudono durante la stagione del raccolto, trasformandosi in dormitori per i bambini-lavoratori, con i piccoli che dormono ammassati sul freddo pavimento. O, peggio, nei magazzini delle aziende agricole, solitamente senza finestre né porte.
Ovviamente non tutti i bambini uzbechi sono costretti a lavorare nei campi: i figli dei ricchi rimangono a casa perché i genitori possono permettersi di comprare per 120 mila som (90 euro) un certificato medico falso che attesti la precaria salute dei loro bambini.
[B]Quando la patria chiama. Per l’Uzbekistan, quinto produttore di cotone del mondo, l’ ‘oro bianco’ costituisce la prima voce d’esportazione (45 per cento del totale) e frutta in media un miliardo di dollari all’anno, che finisce in gran parte nelle casse del regime di Islam Karimov dato che lo Stato detiene il monopolio della produzione cotoniera.
Il ricorso al lavoro minorile per la raccolta del cotone è una tradizione che risale all’epoca sovietica. La legge uzbeca vieta il lavoro ai minori di quindici anni, ma in realtà lo Stato impone il lavoro nei campi ai bambini perché senza la loro mano d’opera a basso costo il raccolto non sarebbe possibile.
In questi ultimi anni l’età dei bambini reclutati si è notevolmente abbassata. “Una volta venivano mandati nei campi bambini dai dodici anni in su. Invece da un po’ – dice Mahfuza, una signora che abita vicino a una scuola – vedo andare alla raccolta anche bimbi di dieci, otto, addirittura sette anni”.
Le autorità negano categoricamente il ricorso al lavoro minorile, dicendo che si tratta di lavoro puramente volontario animato da spirito patriottico. “I nostri bambini sono animati da un profondo senso del dovere verso la loro patria, e sono sempre pronti a dare il loro contributo per il bene del paese”, spiega Ismat Achilov, vicesindaco della città di Karshi. Ma il governo uzbeco continua a rifiutarsi di firmare la convenzione internazionale contro il lavoro minorile.
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