Che fine faremo?
E’ stata da poco approvata alla camera una impegnativa riforma della costituzione. Cosa succederà, qualora la riforma superi indenne gli ulteriori tre passaggi parlamentari e l’eventuale referendum confermativo, non è affatto chiaro. Commenti se ne sono sentiti pochi, commenti legati al testo e non agli schieramenti ancora meno. Da parte mia mi permetto di fare qualche annotazione sparsa, nata dall’esigenza di capire un po’ meglio.

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Premierato.
Uno degli aspetti più rilevanti della riforma costituzionale approvata alla camera, accanto alla riforma “federalista”, è il ridisegno dei poteri del Presidente del Consiglio, che, non a caso, d’ora in poi sarà Primo Ministro. Di certo questa figura viene fortemente rafforzata, ma quanto? Quali rischi presenta questo rafforzamento? Quali problemi risolve? E, soprattutto, perché sono state proposte queste modifiche?

Uno sguardo alla forma. In primo luogo credo che sia necessario definire cosa ne sarà del nostro vecchio Presidente del Consiglio. Mi sembra evidente che non siamo destinati a diventare una repubblica presidenziale. Non c’è una vera elezione diretta, non c’è un esecutivo monocratico, persiste il rapporto fiduciario col parlamento, ecc. ecc.
Tuttavia qualcosa cambia: abbandoniamo, dopo 57 anni, il parlamentarismo e ci dirigiamo a lunghi passi verso una qualche forma di premierato. Questo comporterà che le risorse potestative, fino ad oggi prevalentemente in mano parlamentare, passeranno in buon parte al governo, che vedrà fortemente migliorata la sua possibilità di incidere nel processo legislativo e la propria autonomia nei confronti delle interferenze parlamentari. In realtà su questa strada ci eravamo già incamminati allorchè, nel ’98, vennero rivisti i regolamenti parlamentari nel senso di limitare i poteri del parlamento, in questo seguendo una tendenza generale nota come “razionalizzazione” (ossia il tentativo di trasformare in regole giuridiche vincolanti i rapporti politici) delle relazioni esecutivo/legislativo.
Quanto potere? E’ possibile quantificare questo riassetto? E’ possibile avanzare qualche ipotesi, una quantificazione precisa potrà effettuarsi solo analizzando la prassi politica, la nuova legge elettorale e, soprattutto, i nuovi regolamenti parlamentari che necessariamente dovranno essere definiti. Mi sembra evidente che un certo grado di decentramento del processo legislativo permarrà e con esso una buona parte della forza del parlamento. In particolar modo, le commissioni parlamentari resteranno probabilmente uguali, rendendo il controllo governativo sul parlamento difficile e lasciando ampi spazi all’iniziativa delle opposizioni.
Per certi versi le possibilità dell’opposizione saranno addirittura rafforzate, dal momento che le verranno affidate le presidenze di molte commissioni di garanzia e delle commissioni d’inchiesta e considerato che i poteri dell’opposizione saranno con ogni probabilità ridefiniti e meglio garantiti da un nuovo regolamento. Ciò detto è indubbio che l’esecutivo si avvantaggerà molto della riduzione del grado di bicameralismo e delle procedure di protezione delle leggi ritenute urgenti e qualificanti per l’azione di governo.
I presupposti costituzionali fanno pensare che si tratterà di un premierato non troppo forte, in cui l’azione delle opposizioni non sarà bandita.
Comparazioni. Per poter completare meglio la visione d’insieme del nuovo assetto governativo credo sia necessario provvedere a qualche comparazione con i sistemi di altri paesi democratici.
La prima e fondamentale osservazione che si può fare è che, finalmente, rientriamo nella normalità. L’abbandono del parlamentarismo ci porta, infatti, ad avere una struttura paragonabile a quella della stragrande maggioranza delle democrazie europee, dalla Spagna alla Gran Bretagna e la Grecia, dall’Olanda all’Irlanda e alla Danimarca.
Insomma, abbandoniamo quella situazione di assoluta solitudine, se si eccettua il caso anomalo del Belgio, in cui ci trovavamo col nostro instabile e, tutto sommato, obsoleto parlamentarismo. Rispetto ai premierati più forti, comunque, bisogna notare che:
-la fiducia sarà votata al governo (nella forma del voto sul programma) e non sarà ad personam per il solo primo ministro, con il risultato che in fase di formazione del gabinetto il primo ministro godrà di un grado di libertà piuttosto limitato;
-il processo legislativo continuerà a godere di un grado di decentramento piuttosto forte, e di conseguenza l’opposizione probabilmente troverà alcuni spazi di manovra;
-non sembra che la capacità del governo di proteggere i propri disegni di legge verrà particolarmente accentuata, (in particolare vorrei far notare che la legge di bilancio è affidata ad un processo di bicameralismo simmetrico), eccetto i progetti di legge necessari a completare il programma di governo, che godranno di una tutela maggiore.
Insomma il modello inglese sembra, fortunatamente, essere ancora molto lontano, ma, altrettanto fortunatamente, sembra che ci stiamo allontanando nettamente anche dal modello della “Prima Repubblica” italiana.
Apocalissi? Quali rischi ci presenta questa riforma? Si molto parlato del fatto che il Primo Ministro diventerà onnipotente e si è molto vociferato su possibili derive autoritarie della nostra repubblica.
Prima di tutto io credo che non vi sia nella riforma proposta dalla Casa delle Libertà nulla di particolarmente rivoluzionario. Al contrario mi sembra che si sia fatto qualcosa di molto banale ma lo si sia fatto piuttosto male. La riforma, complessivamente, inserisce delle rigidità incredibili al processo politico, priva le arene istituzionali della flessibilità che le ha caratterizzate fino ad oggi e inserisce una minuziona descrizione delle possibilità e dei comportamenti, delle evenienze e delle soluzioni possibili; insomma, sembra sia stata improntata ad una sorta bulimia razionalizzante che, se anche avrà effetti positivi in assenza di crisi istituzionali, crisi di governo e contrasti tra poteri e attori politici, rischierà di paralizzare le istituzioni nel momento in cui il quadro complessivo si presentasse meno che idilliaco.
Per quanto riguarda i rischi di crollo democratico, paventati da più parti, credo che in linea generale si possa affermare che le interconnessioni tra l’Italia e l’Unione Europea -e la comunità internazionale nel suo insieme- ci mettono senz’altro al riparo dalle spinte autoritarie che eventualmente nascessero nel paese, ma la stessa popolazione italiana, mi sembra, non è del tutto sprovvista degli “anticorpi” della coscienza civile. La democrazia italiana è forse meno protetta e sana rispetto, ad esempio, a quella inglese. Ma anche ammettendo che ciò sia vero, non credo che l’esempio italiano sia più prossimo a quello dell’America del Sud di trent’anni fa o alla stessa italia degli anni venti rispetto alla Gran Bretagna.
In sostanza: verranno aumentati i checks, ma non sono di certo stati aboliti i balances, o comunque non in misura preoccupante.
Tuttavia il giudizio non credo possa essere positivo. Ritengo che molti siano i difetti di questa ridefinizione delle funzioni governo/parlamento:
-primo, come già detto, le rigidità del processo politico costituiscono un’incognità non irrilevante: come verranno risolte le crisi politche? Tipizzare ogni singola eventualità politica è un bene o un eccesso? Si è posta la dovuta attenzione ai rischi di un totale stallo decisionale? Non esiste il rischio di un ricorso eccessivo alla questione di fiducia?
-secondo, se non verranno rivisti (non necessariamente riscritte) i regolamenti parlamentari e la legge elettorale, non esiste un rischio forte di deriva plebiscitaria?
-terzo, la governabilità non si ottiene meglio con una maggior “mitezza” e consensualità del processo decisionale? Non è ancora chiaro che il susseguirsi di maggioranze fortemente decisioniste non porta alla governabilità ma alla successione di riforme e controriforme?
-quarto, siamo sicuri che non si passerà per fasi di instabilità degli esecutivi?
In definitiva, comunque, si impone di usare la forma dubitativa: valutare gli effetti di questo genere di riforma solo sulla base della carta (anzi, di una parte della carta) è impossibile. Nasceranno nuove questioni e ne verranno risolte molte dalla prassi politica.
Quello che colpisce di questa riforma è la difficoltà ad individuare un senso, un logica forte che sorregga il tutto. Questa impressione si accentua di molto esaminando la parte relativa al decentramento e, ancora di più, se si passa ad analizzare il testo nella sua completezza.
Una retrospettiva: le proposte di riforma. Ho già detto che la riforma presente sembra inserirsi in un trend comune a quasi tutte le democrazie e, soprattutto, sembra essere lo sbocco più o meno naturale della riforme degli anni novanta: riforma elettorale (’92), riforma dei regolamenti parlamentari (’98).
In effetti la necessità di rivedere direttamente la forma di governo si era già presentata, in particolare con le proposte della commissione bicamerale presieduta dall’on. D’Alema. Come è noto le proposte avanzate in quella sede rimasero lettera morta.
Tuttavia durante tutti gli anni novanta proposte diverse furono avanzate da tutte le forze politiche, dimostrando quindi che a questa riforma si attribuiva una certa urgenza. Le varie porposte andavano da una forma di semipresidenzialismo piuttosto originale (commissione bicamerale), a proposte sull’esempio del cancellierato tedesco, fino ad alcune proposte di tipo strettamente presidenziale. Il fatto che non si sia giunti prima ad un riassetto generale della struttura del governo è da imputare principalmente ai veti incrociati tra le forze politiche, rafforzati dalla consuetudine di modificare la costituzione con ampie maggioranze, ma la necessita di giungere a questo riassetto era, oggettivamente, avvertita da tutti.
Personalmente, ritengo che la scelta del premierato sia quella più logica, in quanto quella maggiormente flessibile, quella che gode di maggiori esempi cui attingere e quella che presenta meno icognite.
Una scelta presidenziale, oltre a risultare completamente estranea alla storia e alla cultura politica europea, non sembra affatto adatta alle caratteristiche del nostro paese, essendo una tipologia che tende ad estremizzare i conflitti e impedire una dialettica politica pacata.
Il semipresidenzialismo presenta sempre dei problemi di conflitti interistituzionali, derivati dalla difficoltà di attribuire con chiarezza le competenze politiche e dal verificarsi piuttosto frequente di forme di coabitazione. Infine, rimanere fermi al modello parlamentare sarebbe stato una scelta ugualmente rischiosa; l’introduzione del maggioritario, ma soprattutto di un sostanziale bipolarismo, unito ad una tipologia parlamentare ha, infatti, prodotto non tanto un rafforzamento benefico delle funzioni governative, quanto uno svilimento del parlamento –reso impotente da un forzato vincolo di coalizione- e una ricorrente situazione di sostanziale stallo decisionale del governo, come dimostra in maniera lampante la prolungata crisi del governo Berlusconi II e la scarsa forza dei governi D’Alema e Amato II.
Ci sarà da riformare ancora molto, purtroppo, perché questa riforma ha clamorosamente mancato l’obbiettivo di dare al nostro Stato un assetto chiaro, condiviso e stabile. Ha trasformato le istituzioni di garanzia in istituzioni notarili, nel caso del Presidente (ma qui il capitolo è in parte ancora aperto), oppure le ha trascinate di forza nell’agone politico, come nel caso dei presidenti delle camere. Infine andranno valutate le difficoltà interpretative e applicative di un iter parlamentare estremamente complesso, gravato dal potere discrezionale dei presidenti delle camere, dall’interferenza del governo, dai vincoli di coalizione, dalla minaccia di scioglimento delle camere, dalla rigidità delle procedure e dalle possibili diverse maggioranze di camera e senato.
Francamente appare una riforma confusa nella forma e nei contenuti, in cui non si riesce ad individuare un modello, una tipologia del sistema politico razionale e ben codificata.

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Federalismo.
E perché mai? Se sul versante governativo non si hanno belle sorprese, sul versante del decentramento le cose riescono ad andare molto peggio. La prima domanda che sorge è molto semplice: perché? Quale ragione perversa ha spinto i nostri parlamentari a trasformare la nostra povera Italia in una federazione? Esisteva una ragione forte che giustificasse un così radicale ricambio dell’assetto istituzionale? E se sì, quale? Quali entità fondamentali si sono unite per dar vita a questa federazione? Le regioni, ossia delle unità fondamentalmente amministrative? Delle nazioni? Padania, Etruria e Sud, come sosteneva anni addietro la Lega? Questa modestissima riforma, va detto, riesce a sovvertire d’un colpo la prassi costituente degli ultimi due secoli. Per quanto mi sforzi, la mia memoria non ricorda esempi simili.
L’istituzione di regimi federali è quasi sempre stato il risultato di un processo costituente e non di riforma costituzionale, con l’unica eccezione del Belgio –ma che si possa in qualche modo paragonare la nostra situazione a quella belga credo non passi in testa a nessuna persona di buon senso. Inoltre rispondeva a precise necessità sintetizzabili in due grandi filoni: la funzionalità amministrativa nei casi di “grandi repubbliche” e la coesistenza pacifica in stati multietnici.
Che l’Italia rientri in una di queste due tipologie mi sembra abbastanza difficile da sostenere, dal momento che le dimensioni dell’Italia non sono eccessive, che non esiste un problema di nazionalità confliggenti –con le due eccezioni marginali e, soprattutto, risolte da lungo tempo, di sardi e tirolesi- e che abbiamo alle nostre spalle un secolo e mezzo di storia unitaria.
Rimettere in discussione a colpi di maggioranza un assetto che è stato accolto nell’ottocento, confermato durante l’esperienza fascista e riproposto, nella variante regionalista, dalla costituzione repubblicana, mi sembra sostanzialmente un atto di totale mancanza di senso delle istituzioni e della storia. Barattare la costituzione per inseguire i desideri di una forza politica del tutto marginale non lo ritengo un atto di grande sagacia politica e di lungimiranza, ma che queste forzature siano da imputare alla casa delle libertà è tesi che mi sento di mettere fortemente in dubbio.
Si potrebbe fare della facile ironia –della molto facile ironia- su chi ora, a sentir parlare di federalismo, sente dentro di sé “una incoercibile inquietudine” ma durante un precedente governo propose una modifica che introducesse un “Ordinamento Federale della Repubblica”, fortunatamente modificata in una più modesta “Riforma del titolo V della Costituzione”. Ben vengano le autocritiche, ovviamente, ma mi sembra che si qualifichino da soli coloro che con tale e tanta leggerezza hanno introdotto per primi e con una violenza istituzionale mai vista prima i tarli che adesso stanno dimostrando tutta la loro destabilizzante forza. Chiedere scusa, francamente, serve a molto poco.
Costi. Uno dei dilemmi attorno al nuovo assetto è quello rappresentato dai costi. Semplicemente, il problema è che non esistono delle stime inequivoche di quanto costerà la riforma. Che si debba temere il peggio è stato confermato da autorevoli studi; si parla di 13, 61 e persino di 93 miliardi di euro. Studi cui fa riscontro una totale impermeabilità del governo che persegue nella tesi dei “costi zero”. Mi permetto di ricordare che, in ogni caso, la storia insegna che riforme come questa tendono a superare di gran lunga i costi preventivati in prima battuta, basti l’esempio delle regioni nel 1970.
A ben guardare esiste un altro costo che andrebbe considerato, ossia il futuro malfunzionamento. Siamo così certi che tutte le regioni italiane saranno in grado di garantire dei servizi pubblici di alto livello, sia dal punto di vista gestionale, sia dal punto di vista finanziario? Siamo così sicuri che nelle varie regioni esistano le competenze e il personale -politico e amministrativo- necessari per assolvere ai nuovi immani compiti? Qualche dubbio credo sia lecito.
Bicameralismo. Inutile sottolineare, credo, che la riforma del bicameralismo italiano era un fatto necessario. Gli stessi partiti del centrosinistra sapevano bene che la riforma del titolo V avrebbe reso necessario trasformare il bicameralismo perfetto in una qualche forma di bicameralismo asimmetrico, coerentemente con le nuove funzioni attribuite alle regioni.
Purtroppo mi sembra che la riforma abbia portato poco lontano. La nuova struttura sembra ideata, come già detto, per complicare il processo legislativo. E i presidenti delle camere saranno sempre meno garanti superpartes e sempre più attori politici.
E’ difficile immaginare a priori quali conflitti potranno sorgere, ma il rischio di cortocircuito mi sembra abbastanza elevato, soprattutto nel momento in cui in senato si formasse una maggioranza differente da quella della camera.

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Riformare.
Leggerezza istituzionale. Ci sarebbe molto altro da dire sulla riforma, sia sulle parti prima ricordate, sia sul resto, dal CSM al Presidente della Repubblica, passando per le Autorità di garanzia e le questioni terminologiche. Tuttavia credo che per arrivare ad un qualche giudizio finale sulla riforma non sia necessario abusare ulteriormente di questo spazio.
Il primo rilievo generale che si può fare è, per usare le parole di Gerardo Bianco, che “che l'articolo 138 della Costituzione non consentiva, dal punto di vista costituzionale, una così larga revisione”. Modificare un così ampio numero di articoli e modificarli così profondamente con un solo atto legislativo è qualcosa che arriva ai limiti estremi del processo democratico ed è qualcosa che sfocia in qualcosa di molto prossimo alla ben nota “tirannia della maggioranza”.
A questo si aggiunge, ovviamente, che tali e tanto vaste modifiche sono avvenute ricorrendo alla sola maggioranza semplice.
Formalmente è probabile che questo processo non risulti contrario alla lettera di nessuna disposizione costituzionale, ma di certo è totalmente opposto allo spirito cui vennero studiate le disposizioni in materia di riforma costituzionale e alle interpretazioni dell’art. 138 Cost. date dalla Corte Costituzionale.
Altro fatto assai rilevante è che la riforma, così come è stata concepita e poi emendata, risulta del tutto priva di un “filo conduttore”, di un progetto coerente che la informi.
Non mi sembra una posizione dettata da ragioni di schieramento effermare che questa riforma è stata disegnata seguendo una logica di scambio interna alla coalizione di governo; di certo non è questo lo spirito costituente che può aspirare a dar vita ad una nuova costituzione.
Il livello del dibattito parlamentare, non a caso, è stato bassissimo e non c’è stata nessuna volontà di ascoltare le ragioni dell’opposizione.
Peraltro è stato un dibattito principalmente giuridico, privo di un qualsivoglia respiro storico e politico, incentrato sui cavilli e non sui principi; nei rari casi in cui si è discusso con un minimo di visione storica le ragioni della maggioranza erano affidate a posizioni ideologiche e, incredibilmente, totalmente slegate dall’approfondimento della carta costituzionale così come la conoscevamo e del processo storico e politico italiano ed europeo, preferendosi discorsi imprecisi e demagogici. Ma d’altra parte è questa la cultura che ci governa.
Aggiungo che non capita spesso di leggere una Costituzione scritta così male, così lunga e ingarbugliata.
Purtoppo andrebbe notato che è stato proprio il centrosinistra ad aprire la strada a questo scempio, apporvare, infatti, la modifica del titolo V a maggioranza e sul finale della legislatura è stato uno dei più gravi errori politici degli ultimi anni ed è stato uno scempio contro il quale qualsiasi repubblicano dovrebbe rivoltarsi.