Storia degli insediamentti Ebraici dall'aggressione Arabo Comunista del 1967, in questo Thread viene fatta un reipilogo della storia, sui tipi di insediamento e sulle diffocoltà del processo di decolonizzazione per una risoluzione definitiva del conflitto Israelo-palestinese; in fondo postiamo l'url a cui è possibile scaricare in formato pdf tale documentazione.
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Israele: gli insediamenti ebraici nei Territori Occupati
Le colonie israeliane rappresentano il principale motivo di critiche che la comunità internazionale rivolge a Israele. Molti atti ufficiali, primo fra questi la Road Map fanno esplicita richiesta della rimozione degli insediamenti come condizione essenziale per la ripresa dei colloqui di pace.
(Rudy Caparrini)
Cronistoria della colonizzazione israeliana (dal 1967)
Il problema degli insediamenti israeliani nei Territori Occupati ha origine con la Guerra dei Sei Giorni. Il conflitto del giugno 1967, che ha sconvolto gli equilibri dell’intero Medio Oriente, consegnò a Israele un territorio enorme. Lo stato ebraico occupò un’area tre volte più grande dei confini stabiliti nel 1949, con l’armistizio di Rodi. Dal momento dell’occupazione molti eventi sono susseguiti. I governi israeliani che si sono succeduti hanno adottato politiche differenti riguardo ai Territori. Il primo atto di colonizzazione nella West Bank (Cisgiordania) si verificò nel 1968 a Hebron. Ne fu protagonista un rabbino ultraortodosso, Moshe Levinger, che diede vita alla colonia di Kiryat Arba, presso la Tomba dei Patriarchi. Levinger era un personaggio molto particolare, dotato di gran carisma e animato da una volontà ferrea. La sua azione destò notevole impressione in Israele e con gli anni trovò numerosi seguaci. Nel marzo 1974 Levinger, insieme a un gruppo di ultraortodossi fuoriusciti dal Partito Nazionale Religioso (NRP), fondò Gush Emunim, traducibile come “Comunità dei Credenti” oppure “Blocco dei Fedeli”. Erano gli anni del primo governo Rabin (1974-77) e da quel momento tutto sarebbe cambiato. La politica israeliana nei confronti dei Territori Occupati non sarebbe più stata la stessa poiché, da quel momento, occorreva considerare l’esistenza di un gruppo nazionalista religioso capace di porre sotto pressione ogni esecutivo d’Israele. L’organizzazione ortodossa creò seri problemi a Rabin, agendo con tenacia e determinazione. Gush Emunim poneva al primo punto del suo programma la costruzione di insediamenti nei luoghi santi di Giudea e Samaria, come essi chiamavano la Cisgiordania occupata. Il gruppo ultraortodosso sosteneva che lo stato ebraico dovesse essere identificato con l’antico territorio di biblica memoria, il Regno di Israele di David e Salomone, estendendosi perciò dal Mediterraneo al fiume Giordano. È questo il concetto di “Eretz Israel” (“Grande Israele”) che reclamava per gli ebrei l’intera Palestina. Le loro radici storiche ed ideologiche possono essere ricercate nel movimento revisionista fondato, all’inizio degli anni ’20 del XX secolo, dall’ideologo Vladimir Jabotinsky. È naturale sostenere ciò in quanto i militanti di Gush Emunim agivano con la convinzione che a essi spettava svolgere una missione: rivitalizzare il sionismo. In base a tale convincimento essi puntavano a colonizzare i territori che, a loro modo di vedere, appartenevano agli Ebrei in virtù di ragioni storiche. Nel dicembre 1975 si ebbe una nuova manifestazione clamorosa degli estremisti, coronata da successo. Gush Emunim occupò la zona di Sebastia, densamente popolata da arabi, al fine di costruirvi un insediamento. Il gruppo ortodosso ingaggiò un braccio di ferro con l’esecutivo, che si divise profondamente al suo interno. I moderati, capeggiati dal ministro degli esteri Ygal Allon, ne chiedevano l’evacuazione immediata temendo che ciò potesse pregiudicare la posizione del paese a livello internazionale (in quegli anni Israele era pressoché isolato in sede ONU). Gli estremisti trovarono appoggio nel Partito Nazionale Religioso e in alcuni ministri laburisti, fra cui l’allora titolare della difesa Shimon Peres il quale, prima di divenire quello che conosciamo oggi, ha tenuto posizioni di forte sostegno nei confronti di Gush Emunim. Nonostante i ripetuti inviti di Rabin a evacuare la zona gli oltranzisti tennero duro e ottennero di potersi trasferire a Kadum, come soluzione ad interim. Rabin aveva promesso di far evacuare la zona ma il tempo passò e la situazione rimase immutata. L’atto di forza della “Comunità dei Credenti” aveva avuto successo.
La nascita di Gush Emunim ha significato il punto di svolta sulla questione degli insediamenti. Quel precedente ha influenzato ogni successiva controversia in materia. La questione degli insediamenti assunse proporzioni più ampie a partire dal 1978. A quel tempo la situazione sarebbe stata ancora risolvibile con facilità, in quanto il numero di coloni residenti in tali aree era minimo. Tra West Bank e Gaza vivevano non più di 5.000 israeliani, in appena 30 insediamenti. A Gerusalemme Est i coloni erano invece 50.000. In seguito agli accordi di Camp David, del 1978, Begin si accordò con l’amministrazione Carter per una moratoria, durata tre mesi, delle costruzioni in territori occupati. La sospensione venne però interpretata nel senso di un diritto, tacitamente espresso, di poter estendere gli insediamenti già esistenti. L’ampliamento delle colonie già esistenti diverrà una prassi per ogni governo israeliano. Negli anni’80 il problema degli insediamenti assunse dimensioni ampie e quindi divennero sempre più difficili da gestire. All’inizio degli anni ’90, col governo di Ythzak Shamir, si ebbe un’ulteriore espansione delle colonie. In linea con l’ideologia dominante nel Likud, anche Shamir, come del resto Begin, conferiva carattere di sacralità a Giudea e Samaria. Essendo tali zone intese come parte integrante della Grande Israele, lo stato ebraico non volle sentire parlare di colonizzazione di un territorio che, a suo modo di vedere, gli apparteneva di diritto. L’esecutivo Shamir, quindi, portò avanti importanti piani di sviluppo degli insediamenti nel West Bank. Solo un intervento esterno autorevole avrebbe potuto imporre a Israele di impostare un nuovo approccio che potesse condurre, se non allo smantellamento, quantomeno a una nuova moratoria. In parole povere, solo un richiamo deciso da parte degli USA avrebbe sortito l’effetto di arrestare la proliferazione degli insediamenti. In tal senso provò ad agire l’amministrazione americana guidata da George Bush senior che esercitò forti pressioni sull’allora primo ministro israeliano Shamir. Quest’ultimo dovette fronteggiare le minacce del segretario di stato James Baker. L’allora capo della diplomazia statunitense giunse a minacciare una riduzione degli stanziamenti allo stato ebraico se non si fosse arrestata la proliferazione degli insediamenti nei territori occupati. L’azione energica di Baker pose Israele in serio imbarazzo. Si ebbero forti tensioni tra lo stato ebraico e gli USA.
La sconfitta di Shamir e la costituzione del secondo governo Rabin (1992) contribuirono a creare un clima diverso. Il nuovo esecutivo parve più propenso ad accogliere le pressioni esercitate dagli USA e dal resto della comunità internazionale. È tuttavia doveroso segnalare anche in quel periodo, che da tutti è ricordato come l’apogeo del processo di pace, si ebbe una sostanziale continuità della politica dei governi precedenti riguardo a Gerusalemme. Rabin la considerava parte integrante e capitale di Israele. Il leader laburista era più aperto a concessioni riguardo a Cisgiordania e Gaza, come dimostrò siglando lo storico accordo con Arafat, sottoscritto alla Casa Bianca il 13 settembre 1993. Rabin, anche dopo gli Accordi di Oslo, era intenzionato a proseguire nella sua politica di controllo attento sugli insediamenti con riguardo a Cisgiordania e Gaza. Colui che aveva conquistato tali territori nel 1967 (era Capo di Stato Maggiore) si proponeva di evacuarli, in modo progressivo. Ne sarebbe seguito un disimpegno delle colonie nelle terre di Giudea e Samaria, di valore sacro per i nazionalisti religiosi. Proprio per questo motivo Rabin fu ucciso, il 4 novembre 1995, per mano di un ebreo ultraortodosso.
La morte del premier che, più di altri, si era battuto per bloccare l’espansione delle colonie segnò l’inizio di un nuovo capitolo nella storia degli insediamenti. Il conservatore Benjamin Nethanyahu, eletto dalla destra nazionalista, revocò alcuni provvedimenti fatti all’epoca di Rabin, favorendo la ripresa delle costruzioni in Giudea e Samaria, nonché l’espansione dei quartieri ebraici a Gerusalemme. Il laburista Ehud Barak, che successe a Nethanyau, cercò di recuperare una linea politica simile a quella di Rabin. Il predecessore di Sharon è ancora oggi ricordato come il premier più orientato a ricercare un accordo di pace, al punto che gli ortodossi lo accusarono di voler svendere il suo paese. Neppure lui, tuttavia, riuscì ad arrestare la crescita del numero di alloggi costruiti nei Territori Occupati. Gerusalemme vide aumentare senza freni la presenza di ebrei, con conseguente alterazione dell’equilibrio demografico. I lavori per costruire infrastrutture, necessarie per stabilire un collegamento fra i vari insediamenti, non subirono soste. Pur se Barak verrà ricordato per avere proposto la divisione di Gerusalemme, primo capo di governo israeliano ad osare tanto, durante il suo mandato la città santa divenne sempre più ebraica. È il caso di chiarire ancora una volta che, a proposito di Gerusalemme, le distinzioni tra destra e sinistra tendono a scomparire. La città del Muro del Pianto non è negoziabile per nessuno, poiché è la capitale di Israele. La differenza tra laburisti e Likud concerne solo le regioni di Giudea e Samaria. Per la destra nazionalista, è da considerare parte integrante di “Eretz Israel” mentre per i socialisti non riveste un’importanza fondamentale e quindi può essere oggetto di trattative.
Sharon è un puro esponente dell’ala nazionalista, erede di Begin e Shamir. Per essere più precisi, è stato proprio l’attuale premier il fondatore e ideatore del Likud (sorto nel 1973 dall’unione di più componenti della destra avversaria dei laburisti). Sharon, tenendo fede alle sue idee, ha trasformato la politica degli insediamenti in pura colonizzazione. Il suo governo ha registrato un aumento costante sia del numero di coloni sia della quantità di alloggi costruiti. Il trasferimento di ebrei nelle zone di cui ancora si deve decidere il destino, giacché non assegnate né a Israele né all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), sta divenendo un’arma per creare la situazione del “fatto compiuto”. Tale intenzione è stata confermata con il progetto di “Barriera Difensiva”, più nota all’opinione pubblica mondiale come “Muro”, che è in costruzione in Cisgiordania. Tale opera ha spostato la sua linea più avanti possibile proprio per inglobare gli avamposti collocati più a occidente. Gli insediamenti, quindi, sono stati indicati come punto di riferimento per estendere la costruzione del Muro (e di conseguenza il territorio sotto sovranità israeliana). Il problema delle colonie è oggi più difficile soluzione che in passato. È comunque doveroso affermare che, seppure col governo Sharon il problema si sia accentuato, la politica del premier in tale materia non è molto diversa da quella adottata dai predecessori.