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Discussione: Insediamenti Ebraici

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    Storia degli insediamentti Ebraici dall'aggressione Arabo Comunista del 1967, in questo Thread viene fatta un reipilogo della storia, sui tipi di insediamento e sulle diffocoltà del processo di decolonizzazione per una risoluzione definitiva del conflitto Israelo-palestinese; in fondo postiamo l'url a cui è possibile scaricare in formato pdf tale documentazione.
    Saluti

    Israele: gli insediamenti ebraici nei Territori Occupati

    Le colonie israeliane rappresentano il principale motivo di critiche che la comunità internazionale rivolge a Israele. Molti atti ufficiali, primo fra questi la Road Map fanno esplicita richiesta della rimozione degli insediamenti come condizione essenziale per la ripresa dei colloqui di pace.
    (Rudy Caparrini)

    Cronistoria della colonizzazione israeliana (dal 1967)

    Il problema degli insediamenti israeliani nei Territori Occupati ha origine con la Guerra dei Sei Giorni. Il conflitto del giugno 1967, che ha sconvolto gli equilibri dell’intero Medio Oriente, consegnò a Israele un territorio enorme. Lo stato ebraico occupò un’area tre volte più grande dei confini stabiliti nel 1949, con l’armistizio di Rodi. Dal momento dell’occupazione molti eventi sono susseguiti. I governi israeliani che si sono succeduti hanno adottato politiche differenti riguardo ai Territori. Il primo atto di colonizzazione nella West Bank (Cisgiordania) si verificò nel 1968 a Hebron. Ne fu protagonista un rabbino ultraortodosso, Moshe Levinger, che diede vita alla colonia di Kiryat Arba, presso la Tomba dei Patriarchi. Levinger era un personaggio molto particolare, dotato di gran carisma e animato da una volontà ferrea. La sua azione destò notevole impressione in Israele e con gli anni trovò numerosi seguaci. Nel marzo 1974 Levinger, insieme a un gruppo di ultraortodossi fuoriusciti dal Partito Nazionale Religioso (NRP), fondò Gush Emunim, traducibile come “Comunità dei Credenti” oppure “Blocco dei Fedeli”. Erano gli anni del primo governo Rabin (1974-77) e da quel momento tutto sarebbe cambiato. La politica israeliana nei confronti dei Territori Occupati non sarebbe più stata la stessa poiché, da quel momento, occorreva considerare l’esistenza di un gruppo nazionalista religioso capace di porre sotto pressione ogni esecutivo d’Israele. L’organizzazione ortodossa creò seri problemi a Rabin, agendo con tenacia e determinazione. Gush Emunim poneva al primo punto del suo programma la costruzione di insediamenti nei luoghi santi di Giudea e Samaria, come essi chiamavano la Cisgiordania occupata. Il gruppo ultraortodosso sosteneva che lo stato ebraico dovesse essere identificato con l’antico territorio di biblica memoria, il Regno di Israele di David e Salomone, estendendosi perciò dal Mediterraneo al fiume Giordano. È questo il concetto di “Eretz Israel” (“Grande Israele”) che reclamava per gli ebrei l’intera Palestina. Le loro radici storiche ed ideologiche possono essere ricercate nel movimento revisionista fondato, all’inizio degli anni ’20 del XX secolo, dall’ideologo Vladimir Jabotinsky. È naturale sostenere ciò in quanto i militanti di Gush Emunim agivano con la convinzione che a essi spettava svolgere una missione: rivitalizzare il sionismo. In base a tale convincimento essi puntavano a colonizzare i territori che, a loro modo di vedere, appartenevano agli Ebrei in virtù di ragioni storiche. Nel dicembre 1975 si ebbe una nuova manifestazione clamorosa degli estremisti, coronata da successo. Gush Emunim occupò la zona di Sebastia, densamente popolata da arabi, al fine di costruirvi un insediamento. Il gruppo ortodosso ingaggiò un braccio di ferro con l’esecutivo, che si divise profondamente al suo interno. I moderati, capeggiati dal ministro degli esteri Ygal Allon, ne chiedevano l’evacuazione immediata temendo che ciò potesse pregiudicare la posizione del paese a livello internazionale (in quegli anni Israele era pressoché isolato in sede ONU). Gli estremisti trovarono appoggio nel Partito Nazionale Religioso e in alcuni ministri laburisti, fra cui l’allora titolare della difesa Shimon Peres il quale, prima di divenire quello che conosciamo oggi, ha tenuto posizioni di forte sostegno nei confronti di Gush Emunim. Nonostante i ripetuti inviti di Rabin a evacuare la zona gli oltranzisti tennero duro e ottennero di potersi trasferire a Kadum, come soluzione ad interim. Rabin aveva promesso di far evacuare la zona ma il tempo passò e la situazione rimase immutata. L’atto di forza della “Comunità dei Credenti” aveva avuto successo.
    La nascita di Gush Emunim ha significato il punto di svolta sulla questione degli insediamenti. Quel precedente ha influenzato ogni successiva controversia in materia. La questione degli insediamenti assunse proporzioni più ampie a partire dal 1978. A quel tempo la situazione sarebbe stata ancora risolvibile con facilità, in quanto il numero di coloni residenti in tali aree era minimo. Tra West Bank e Gaza vivevano non più di 5.000 israeliani, in appena 30 insediamenti. A Gerusalemme Est i coloni erano invece 50.000. In seguito agli accordi di Camp David, del 1978, Begin si accordò con l’amministrazione Carter per una moratoria, durata tre mesi, delle costruzioni in territori occupati. La sospensione venne però interpretata nel senso di un diritto, tacitamente espresso, di poter estendere gli insediamenti già esistenti. L’ampliamento delle colonie già esistenti diverrà una prassi per ogni governo israeliano. Negli anni’80 il problema degli insediamenti assunse dimensioni ampie e quindi divennero sempre più difficili da gestire. All’inizio degli anni ’90, col governo di Ythzak Shamir, si ebbe un’ulteriore espansione delle colonie. In linea con l’ideologia dominante nel Likud, anche Shamir, come del resto Begin, conferiva carattere di sacralità a Giudea e Samaria. Essendo tali zone intese come parte integrante della Grande Israele, lo stato ebraico non volle sentire parlare di colonizzazione di un territorio che, a suo modo di vedere, gli apparteneva di diritto. L’esecutivo Shamir, quindi, portò avanti importanti piani di sviluppo degli insediamenti nel West Bank. Solo un intervento esterno autorevole avrebbe potuto imporre a Israele di impostare un nuovo approccio che potesse condurre, se non allo smantellamento, quantomeno a una nuova moratoria. In parole povere, solo un richiamo deciso da parte degli USA avrebbe sortito l’effetto di arrestare la proliferazione degli insediamenti. In tal senso provò ad agire l’amministrazione americana guidata da George Bush senior che esercitò forti pressioni sull’allora primo ministro israeliano Shamir. Quest’ultimo dovette fronteggiare le minacce del segretario di stato James Baker. L’allora capo della diplomazia statunitense giunse a minacciare una riduzione degli stanziamenti allo stato ebraico se non si fosse arrestata la proliferazione degli insediamenti nei territori occupati. L’azione energica di Baker pose Israele in serio imbarazzo. Si ebbero forti tensioni tra lo stato ebraico e gli USA.


    La sconfitta di Shamir e la costituzione del secondo governo Rabin (1992) contribuirono a creare un clima diverso. Il nuovo esecutivo parve più propenso ad accogliere le pressioni esercitate dagli USA e dal resto della comunità internazionale. È tuttavia doveroso segnalare anche in quel periodo, che da tutti è ricordato come l’apogeo del processo di pace, si ebbe una sostanziale continuità della politica dei governi precedenti riguardo a Gerusalemme. Rabin la considerava parte integrante e capitale di Israele. Il leader laburista era più aperto a concessioni riguardo a Cisgiordania e Gaza, come dimostrò siglando lo storico accordo con Arafat, sottoscritto alla Casa Bianca il 13 settembre 1993. Rabin, anche dopo gli Accordi di Oslo, era intenzionato a proseguire nella sua politica di controllo attento sugli insediamenti con riguardo a Cisgiordania e Gaza. Colui che aveva conquistato tali territori nel 1967 (era Capo di Stato Maggiore) si proponeva di evacuarli, in modo progressivo. Ne sarebbe seguito un disimpegno delle colonie nelle terre di Giudea e Samaria, di valore sacro per i nazionalisti religiosi. Proprio per questo motivo Rabin fu ucciso, il 4 novembre 1995, per mano di un ebreo ultraortodosso.


    La morte del premier che, più di altri, si era battuto per bloccare l’espansione delle colonie segnò l’inizio di un nuovo capitolo nella storia degli insediamenti. Il conservatore Benjamin Nethanyahu, eletto dalla destra nazionalista, revocò alcuni provvedimenti fatti all’epoca di Rabin, favorendo la ripresa delle costruzioni in Giudea e Samaria, nonché l’espansione dei quartieri ebraici a Gerusalemme. Il laburista Ehud Barak, che successe a Nethanyau, cercò di recuperare una linea politica simile a quella di Rabin. Il predecessore di Sharon è ancora oggi ricordato come il premier più orientato a ricercare un accordo di pace, al punto che gli ortodossi lo accusarono di voler svendere il suo paese. Neppure lui, tuttavia, riuscì ad arrestare la crescita del numero di alloggi costruiti nei Territori Occupati. Gerusalemme vide aumentare senza freni la presenza di ebrei, con conseguente alterazione dell’equilibrio demografico. I lavori per costruire infrastrutture, necessarie per stabilire un collegamento fra i vari insediamenti, non subirono soste. Pur se Barak verrà ricordato per avere proposto la divisione di Gerusalemme, primo capo di governo israeliano ad osare tanto, durante il suo mandato la città santa divenne sempre più ebraica. È il caso di chiarire ancora una volta che, a proposito di Gerusalemme, le distinzioni tra destra e sinistra tendono a scomparire. La città del Muro del Pianto non è negoziabile per nessuno, poiché è la capitale di Israele. La differenza tra laburisti e Likud concerne solo le regioni di Giudea e Samaria. Per la destra nazionalista, è da considerare parte integrante di “Eretz Israel” mentre per i socialisti non riveste un’importanza fondamentale e quindi può essere oggetto di trattative.


    Sharon è un puro esponente dell’ala nazionalista, erede di Begin e Shamir. Per essere più precisi, è stato proprio l’attuale premier il fondatore e ideatore del Likud (sorto nel 1973 dall’unione di più componenti della destra avversaria dei laburisti). Sharon, tenendo fede alle sue idee, ha trasformato la politica degli insediamenti in pura colonizzazione. Il suo governo ha registrato un aumento costante sia del numero di coloni sia della quantità di alloggi costruiti. Il trasferimento di ebrei nelle zone di cui ancora si deve decidere il destino, giacché non assegnate né a Israele né all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), sta divenendo un’arma per creare la situazione del “fatto compiuto”. Tale intenzione è stata confermata con il progetto di “Barriera Difensiva”, più nota all’opinione pubblica mondiale come “Muro”, che è in costruzione in Cisgiordania. Tale opera ha spostato la sua linea più avanti possibile proprio per inglobare gli avamposti collocati più a occidente. Gli insediamenti, quindi, sono stati indicati come punto di riferimento per estendere la costruzione del Muro (e di conseguenza il territorio sotto sovranità israeliana). Il problema delle colonie è oggi più difficile soluzione che in passato. È comunque doveroso affermare che, seppure col governo Sharon il problema si sia accentuato, la politica del premier in tale materia non è molto diversa da quella adottata dai predecessori.

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    Aree e tipologie degli insediamenti

    Per un’analisi approfondita di quel che sono le colonie israeliane, si rendono necessarie alcune precisazioni, che permettano di comprendere quali zone ne siano più coinvolte. È d’uopo affermare che non tutte le zone occupate sono state soggette alle medesime decisioni. Il Sinai, anche per le sue caratteristiche di scarsa abitabilità, fu poco sfruttato in materia di colonizzazione. La penisola non è stata molto coinvolta nella politica degli insediamenti anche perché fu restituita all’Egitto in seguito al trattato di pace, siglato da Begin e Sadat nel 1979. Lo sviluppo delle colonie israeliane prese l’avvio proprio in quegli anni, interessando i territori ancora in possesso dello stato ebraico: Gerusalemme Est, West Bank e Gaza. Una contabilità esatta degli ebrei che abitano negli insediamenti è francamente impossibile. Fonti piuttosto affidabili, parliamo dell’Ufficio Centrale di Statistica di Israele, stimano il numero dei coloni nelle aree citate in 400.000. La cifra, da considerare “cum grano salis”, pone in evidenza le dimensioni che il problema ha assunto negli ultimi 25 anni. Dai tempi in cui Begin negoziò con Carter la moratoria, il numero dei colonizzatori si è moltiplicato per otto volte.
    Come abbiamo visto, quasi tutti i governi israeliani degli ultimi 25 anni si sono mostrati decisamente contrari a ogni concessione su Gerusalemme. La città santa, assurta al rango di capitale dello stato, ha subito stravolgimenti anche dal punto di vista urbanistico. Dal 1967 a oggi i governi israeliani hanno fatto tutto il possibile per cambiarne la struttura e alterare la composizione demografica. La politica degli insediamenti perseguita negli ultimi decenni ha portato a Gerusalemme oltre 200.000 ebrei residenti in undici colonie. Oggi vivono nella città, considerata capitale dello stato di Israele, un numero di ebrei ben maggiore rispetto ad anni fa. La città santa (per le tre religioni monoteistiche) è stata oggetto di particolari attenzioni per lo stato ebraico. Perfino sotto il governo Rabin, ritenuto il più conciliante nella storia di Israele, l’espansione della città continuò senza sosta. I dintorni di Gerusalemme non dovevano essere considerati insediamenti, quindi da escludere da ogni tipo di negoziato. Ugualmente esclusa da ogni trattativa, specie ora che governa un esecutivo del Likud, è da considerarsi anche il West Bank. Un po’ più di flessibilità si può riscontrare solo per la striscia di Gaza. In Giudea e Samaria ci sono 230.000 coloni che abitano in 120 insediamenti. A Gaza 7.500 israeliani vivono in 20 insediamenti, in mezzo a 1,4 milioni di palestinesi. Entrambe le aree hanno conosciuto notevole sviluppo negli ultimi anni, favorite da una politica governativa che ha aiutato la proliferazione degli insediamenti.


    Oltre che per la sua collocazione geografica, gli insediamenti si dividono poi in base alla loro natura. Una forma particolare di colonia, molto contestata, è quella degli avamposti. Questi consistono inizialmente in caravan eretti da un gruppo di coloni, usualmente sistemati a poche centinaia di metri da insediamenti già esistenti. Questo è di solito il primo passo per cominciare l’attivazione delle infrastrutture necessarie, quali strade e servizi di pubblica utilità (acqua, luce, gas). Gli avamposti sono sovente stati utilizzati come pretesto, una pezza di appoggio per estendere l’ampiezza di colonie già formate.


    Tecnicamente gli insediamenti si dividono in tre categorie. La prima di queste consiste nelle aree che hanno già avuto un certo grado di sviluppo. Queste sono oggi una porzione ridotta delle colonie, rappresentando non più del 2% della superficie totale del West Bank. La seconda categoria è indicata come soggetta a giurisdizione diretta da parte dell’insediamento. In queste aree, circa il 10% del West Bank, un consiglio (o un comitato locale) esercita poteri amministrativi in modo autonomo. La terza categoria, la più importante poiché interessa il 41% del territorio della Cisgiordania, concerne le aree soggette ai dieci consigli regionali degli insediamenti. La distinzione in queste categorie è rilevante dal punto di vista tecnico giacché la richiesta di congelare la costruzione di insediamenti, come richiesto da vari atti a livello internazionale, faceva salve alcune eccezioni. Israele si è sempre riservato il diritto di estendere colonie esistenti, adducendo la necessità di dotarle di servizi di pubblica utilità. È quindi essenziale giocare sui cavilli al fine di presentare un’interpretazione più favorevole possibile alle proprie finalità. Al momento non è chiaro in quale di queste tre categorie possano essere inseriti certi insediamenti. Il governo israeliano ritiene che certe aree non siano da considerare colonie, bensì territorio sotto sovranità dello stato ebraico. È la giustificazione avanzata per Gerusalemme e per le Alture del Golan, i soli territori occupati nel 1967 che sono stati ufficialmente annessi allo stato di Israele. Il colono ebreo residente nella capitale o sugli altopiani conquistati nel giugno 1967, strappati alla Siria, sono cittadini israeliani a tutti gli effetti. Il governo attuale, ma anche quelli precedenti, hanno sempre cercato di porre obiezioni alle richieste, provenienti dalla comunità internazionale, di smantellare colonie illegali. Il problema principale consiste nella definizione stessa di insediamento in territorio occupato poiché, come molti commentatori hanno sottolineato, è arduo individuare dove inizia e dove finisca Israele. Fino a quali zone si può estendere la giurisdizione civile dello stato ebraico? Una risposta esatta non può adesso essere fornita. Un tempo era tutto molto più facile poiché si identificava come colonie le aree in cui non esisteva alcun referente di tipo civile e burocratico per gli ebrei che vi abitavano. Il coloni trovavano nell’esercito il punto di riferimento, secondo lo stile adottato in ogni forma di occupazione coloniale. Col passaggio di molti poteri alle autorità civili è adesso impossibile distinguere la varie tipologie di insediamento. Anche qui si ha avuto un’azione mirata a creare il fatto compiuto.

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    Il Muro (o “Barriera difensiva”)

    Il governo Sharon ha adottato una linea politica ben precisa che non si limita a una forte tutela degli insediamenti già esistenti. Oltre ad aver cura delle strutture già costruite, l’esecutivo guidato da Sharon, che non a caso fu ministro delle infrastrutture in precedenti esecutivi, ha varato progetti per edificare nuove colonie in Giudea e Samaria (così gli ultra ortodossi chiamano la Cisgiordania). Gli insediamenti sono uno strumento essenziale per applicare la politica del fatto compiuto. Sistemando delle colonie in determinati territori, il governo del Likud intende usare queste costruzioni come motivo per giustificare l’espansione territoriale dello stato di Israele. In tal modo si pensa che le colonie siano un elemento da considerare nei negoziati che dovranno stabilire il confine definitivo tra Israele e ANP.
    La presenza di colonie e insediamenti è stata portata come pretesto per tracciare la linea della “barriera difensiva” che il governo Sharon, dopo averlo approvato nel giugno 2002, ha già iniziato a costruire. Prima di analizzarne gli effetti si deve spiegare cos’è tecnicamente la “Barriera difensiva” o Muro che dir si voglia. Si tratta di una grossa opera che si estenderà per 687 chilometri. Comporterà un costo totale di oltre tre miliardi di dollari, ovvero 4,7 milioni per ogni chilometro. Limiti estremi della barriera saranno Jenin e Hebron. In virtù del percorso non lineare il Muro consisterà in una lunghezza totale doppia rispetto alla “Linea Verde”, quella dell’armistizio del 1949 seguita alla prima guerra di Palestina (il confine che oggi molti stati arabi sarebbero disposti ad accettare). Secondo il percorso previsto, la barriera comporterebbe di porre in territorio israeliano quasi il 50% del West Bank. Molti palestinesi si troverebbero così isolati dal resto della popolazione araba palestinese. In particolare, circa 300.000 palestinesi residenti tra Cisgiordania e Gerusalemme Est si troverebbero all’interno del Muro. Ciò porrebbe i palestinesi in una situazione precaria, facendoli vivere in territorio “straniero”.
    L’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari ha studiato a fondo la questione e i dati che emergono sono inquietanti. Se il Muro sarà realizzato secondo il piano più recente, che prevede un’estensione in profondità nel West Bank, ci saranno pesanti conseguenze, sotto il profilo umanitario, per almeno 640.000 palestinesi. Circa 274.000 arabi residenti in 122 villaggi della Cisgiordania si troveranno a vivere tra la barriera e la “Linea Verde”. Altri 400.000 palestinesi saranno costretti, quotidianamente, ad attraversare il Muro per recarsi al loro luogo di lavoro. Ciò significa che oltre 674.000 arabi, 30% della colazione totale del West Bank, sarà duramente danneggiata dalla costruzione della barriera difensiva. L’Ufficio ONU critica inoltre il governo israeliano perché la costruzione ignora quasi completamente la linea dell’armistizio del 1949. Solo una percentuale ridotta, appena 11%, corre lungo tali delimitazioni. La rimanente parte, secondo l’ultimo progetto presentato, penetra in profondità nel West Bank, fino a 22 chilometri oltre il confine preesistente la guerra del 1967. Scopo di tale tracciato, sostengono gli arabi, è il desiderio del governo del Likud di inglobare il grande insediamento di Ariel, uno dei più importanti di tutta la Cisgiordania. La barriera prevede di includere in totale 54 insediamenti ebraici situati oltre la “Linea Verde”, abitati da 142.000 cittadini israeliani.


    L’Ufficio ONU per gli Affari Umanitari esprime inoltre la piena condanna per come lo stato ebraico pensa di gestire il problema degli arabi che resteranno all’interno del Muro. Secondo quanto dichiarato dall’esecutivo di Sharon, i cittadini palestinesi dovranno dotarsi di un permesso di soggiorno, rilasciato dalle autorità di Gerusalemme e valido al massimo per sei mesi. È facile comprendere all’anomalia della disposizione poiché migliaia di persone dovranno farsi concedere un’autorizzazione per restare nelle case dove abitano da lungo tempo. Di identico permesso dovranno essere dotati gli uomini che lavorano per le organizzazioni umanitarie internazionali. La misura è ancor meno accettabile se si pensa che i cittadini israeliani, al contrario, saranno liberi di oltrepassare il Muro senza necessità di disporre di alcuna autorizzazione. I limiti alla mobilità degli arabi inducono a parlare di pura discriminazione e fanno intravedere secondi fini per lo stato ebraico. Una parte cospicua della comunità internazionale accusa l’attuale esecutivo di Gerusalemme di perseguire una politica che ponga i palestinesi di fronte a scelte comunque dolorose. Ponendo le comunità arabe in isolamento, obbligandole perfino a richiedere il permesso di soggiorno, si teme che i palestinesi si sentano sempre più stranieri ed esclusi a causa del fatto di trovarsi all’interno del Muro. Da qui, è sostenuto, essi potrebbero essere indotti, quasi costretti, a lasciare le loro case per andare a vivere al di fuori della barriera, per unirsi ai “fratelli” arabi. Sarebbe in ogni caso un atto di forza che creerebbe nuovi profughi. Per tale ragioni le organizzazioni umanitarie stanno esercitando pressioni per convincere il governo Sharon a modificare il tracciato della barriera.

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    Le pressioni a livello internazionale: le disposizioni della Road Map

    Fin dal momento della sua nascita lo stato di Israele ha sempre attirato un’attenzione del tutto particolare a livello di opinione pubblica mondiale. A parte l’ormai decennale ostilità provata dal mondo arabo e musulmano in generale, lo stato ebraico ha trovato ora critiche ora sostegno di fronte a tutti i grandi eventi che lo hanno visto protagonista. Riguardo al Muro, tuttavia, si è formato un blocco unico che ha espresso la più ferma condanna per come il governo Sharon sta gestendo la situazione. In sede ONU il progetto di Muro ha trovato una condanna pressoché unanime. Solo gli USA hanno preso le difese dello stato ebraico, usando perfino il veto in Consiglio di Sicurezza. In Assemblea Generale Israele si è visto davvero isolato e adesso le Nazioni Unite pretendono che il governo Sharon tenga presente l’opinione pubblica.
    La questione del Muro è prossima a essere discussa di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia. Il 23 febbraio il massimo organo giudiziario a livello mondiale dovrebbe essere sede di dibattito sulla legittimità della barriera. Al riguardo è in corso un contenzioso in quanto Israele, sostenuto anche da alcuni stati europei, sostiene che la Corte non deve essere chiamata a tale responso, in quanto rischia di emettere un giudizio di tipo politico più che basato sul mero aspetto giuridico. Nonostante le obiezioni, tuttavia, il dibattito dovrebbe tenersi e lo stato ebraico si troverà sul banco degli imputati, dovendo rispondere ad accuse che giungono da ogni parte del mondo.Quel che più si contesta a Israele non è il valore morale della costruzione, che pure è giudicata riprovevole in quanto evoca ricordi del triste periodo che fu la Guerra Fredda. Le organizzazioni internazionali ammettono che si possa edificare un Muro, purché questo venga costruito in territorio israeliano. Secondo una logica semplice e grossolana: in casa sua Israele può fare ciò che vuole ma non può costruire su un territorio che non gli appartiene.
    La comunità internazionale ha redarguito Israele poiché, a giudizio di molti osservatori e non tutti di parte, lo stato ebraico ha perseguito una politica di segno opposto a quanto raccomandato da molti documenti. Piuttosto che cercare di smantellare le colonie, o quantomeno di arrestarne il sorgere, il governo Sharon ha spesso fornito incentivi ai coloni. Alla politica degli insediamenti israeliani nei Territori era sta prestata molta attenzione in due rilevanti documenti internazionali: il rapporto Mitchell e la Road Map. Il primo di questi atti fu redatto da uno speciale comitato incaricata di indagare sullo svolgimento dei fatti che, nel settembre 2000, degenerarono poi in quella che è una guerra tuttora in corso. Già in quel documento si parlava di “congelamento” di ogni attività legata a gli insediamenti. Il blocco delle costruzioni era giudicato con un valido strumento per favorire la cessazione delle violenze. Non era forse un richiamo molto forte ma sarebbe errato svalutarne l’importanza. Era comunque significativo che un documento ufficiale, redatto da un organo neutrale, si fosse fatto promotore di una richiesta tanto impegnativa per il governo israeliano. La Road Map, che su molte materie fa riferimento proprio al rapporto Mitchell, estese le sue raccomandazioni giungendo a formulare precise obbligazioni. Si chiedeva lo smantellamento di tutti gli insediamenti abusivi, identificati in ogni costruzione edificata dopo l’avvento al potere del governo Sharon (marzo 2001). Il congelamento di ogni attività circa le colonie, riprendendo il concetto espresso nel rapporto Mitchell, è ritenuto come un mezzo per dimostrare fiducia reciproca alla controparte. Una politica conciliante in tema di insediamenti è da intendersi come corrispettivo della richiesta, avanzata all’ANP, di impegnarsi contro le organizzazioni terroristiche. Il Quartetto promotore statuisce quindi un impegno immediato per Israele a porre termine alla proliferazione delle colonie. Dal momento che la Road Map è divenuta un documento ufficiale ONU, approvata in Consiglio di Sicurezza, una violazione in tema di politica degli insediamenti costituirà una violazione del diritto internazionale.

 

 

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