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    Predefinito Il liberal-protezionismo di Cavour

    Il liberal-protezionismo di Cavour


    6.1 In ogni testo che si rispetti Cavour viene presentato come un appassionato e ardito sostenitore del libero commercio. La libertà di scambiare beni e servizi sia all’interno sia all’esterno del proprio Stato è oggi un principio organizzativo sbandierato dai governi occidentali. Siccome, però, gli Stati non hanno cessato di essere aziende collettive, il principio viene aggirato da eccezioni che fanno la regola. Ciò all’interno, per proteggere gli interessi di determinate classi sociali, e all’esterno per proteggere interessi reputati nazionali. A metà ottocento il liberismo era una bandiera rivoluzionaria. Essa veniva agitata con intenti completamente divergenti: in Gran Bretagna – dove era maturata una nuova forma di produzione affinché il nuovo sistema trionfasse contro le resistenze protezionistiche degli altri governi; altrove, perché la nuova filosofia fosse adottata, o introdotta con la forza, in assetti sociali che si volevano cambiare, nel nostro caso il Piemonte sabaudo.

    Le idee liberali e liberiste di Cavour sono enunciate in quelli che i posteri hanno chiamato gli Scritti economici. Si tratta di lunghi articoli, in effetti di saggi di notevole pregio in materia di politica economica, i quali vennero pubblicati, prima che egli diventasse ministro, sul giornale di sua proprietà e su altre testate. Cavour enuncia con fermezza tre concetti: uno, il libero commercio favorirà, se adottato, le esportazioni agricole di tutta la penisola italiana; due, un’organica rete ferroviaria favorirà gli scambi fra le varie sue parti e con l’estero; tre, l’ostacolo da superare è la divisione in più formazioni politiche ed economiche.

    Per Cavour l’idea di sviluppo coincide con l’opportunità, che il libero commercio offre, di valorizzare i prodotti agricoli; un bisogno diffuso in tutta Italia fra i possidenti, e tuttavia contraddetto dalla miriade di barriere doganali, non solo confinarie ma anche interne.

    Niente da ridire. Si tratta di idee rispettabili, teoricamente coerenti e perfettamente intonate con il credo liberista, secondo il quale il miglior modo d’operare a favore della collettività sta (starebbe) nel dare spazio all’iniziativa privata; nell’eliminazione, diremmo oggi, dei lacci e lacciuoli legislativi e burocratici. Ovviamente si preferisce lasciare in ombra il fatto che l’iniziativa privata non è “uguale per tutti”. L’assioma è soltanto uno slogan: la libertà di cui trattasi è riservata a chi mette a rischio il suo patrimonio e il suo buon nome per comandare il lavoro altrui, cioè del capitalista. Il resto della società beneficerà (o beneficerebbe) delle magiche virtù della sua iniziativa. Il concetto è efficacemente e vibratamente esplicitato da Cavour in suo celebrato discorso in parlamento.

    “Signori, la storia moderna, quella in ispecie dell'ultimo secolo, dimostra evidentemente essere la società spinta fatalmente nella via del progresso. Le leggi che regolano questa meta non hanno potuto finora essere determinate né dai filosofi i piú sapienti, né dagli uomini di Stato i più sagaci. In mezzo a una tanta incertezza questo però v’ha di certo, che l'umanità è diretta verso due scopi, l'uno politico, l'altro economico. Nell'ordine politico essa tende a modificare le proprie istituzioni in modo da chiamare sempre un numero maggiore di cittadini alla partecipazione del potere politico. Nell'ordine economico essa mira evidentemente al miglioramento delle classi inferiori, ad un miglior riparto dei prodotti della terra e dei capitali.
    “Lascio da parte assolutamente la questione politica per considerare soltanto quella economica.
    “Io dicevo dunque che l'umanità nell'ordine economico tende al miglioramento delle classi inferiori. Onde a questo scopo due mezzi si presentano. Tutti i sistemi ideati nei tempi moderni dagli intelletti i piú saggi e più audaci possono ridursi a due. Gli uni hanno fede nel principio di libertà, nel principio della libera concorrenza, del libero svolgimento dell'uomo morale ed intellettuale. Essi credono che colla sempre maggiore attuazione di siffatto principio debba conseguirne un maggior benessere per tutti, ma in ispecie per le classi meno agiate. Questa è la scuola economica, questi sono i principi professati dagli uomini di Stato che reggono la cosa pubblica in Inghilterra. Un'altra scuola professa principi assolutamente diversi. Essa crede che le miserie dell'umanità non possono venir sollevate, che la condizione delle classi operaie non può essere migliorata se non col restringere ognora piú l'azione individuale, se non coll'allargare smisuratamente l'azione centrale del corpo morale complessivo, rappresentato da un Governo da crearsi, nella concentrazione generale delle forze individuali.
    “Questa, o signori, è la scuola socialistica. Non conviene illudersi: quantunque questa scuola sia giunta a deduzioni funeste e talvolta atroci […]
    “Ora, o signori, io dico che il più potente alleato della scuola socialistica, ben inteso nell'ordine intellettuale, sono le dottrine protezioniste. Esse partono assolutamente dallo stesso principio; ridotte ai suoi minimi termini, esse riduconsi al dire essere diritto, quindi dovere del Governo l'intervenire nella distribuzione, nell'impiego dei capitali; al dire che il Governo ha missione, ha facoltà per sostituire la sua volontà, che egli crede più illuminata, alla volontà libera degli individui […].
    (Cavour**, Discorso alla Camera del 15 aprile 1851)

    Volendo riassumere i poetici slanci di Cavour in comune prosa, egli dice: Cari proprietari che sedete in questa camera parlamentare, se non valorizzate i prodotti attraverso lo sviluppo del commercio interno e internazionale, finirete male. Il socialismo l’avrà vinta, voi sarete espropriati delle rendite, mentre il potere di comando passerà nelle mani di chi oggi sta sotto.

    Dopo centocinquat’anni di tendenziosa agiografia cavourrista, i più si ritrovano piegati a credere che il malefico ministro sia stato, invece, oltre che un gran patriota anche un gran profeta. A beneficio del lettore non addentrato in materia di storia economica è opportuno ricordare che la prodigiosa crescita dei consumi e del benessere, verificatasi in Occidente a partire dal 1835 circa, è stata il frutto della scienza, della tecnologia, del colonialismo, dell’imperialismo economico (e nel caso italiano del colonialismo interno). In realtà alcuni paesi non liberisti hanno progredito quanto e più di quelli liberisti, e viceversa parecchi paesi liberisti sono andati indietro nonostante il loro liberismo. Si può aggiungere che, nel periodo secolare, il protezionismo è stato più una regola che un’eccezione proprio in quei paesi che più si sbracciavano a proclamare un illimitato, fecondo liberismo. Paesi dominanti, come gli USA e il Giappone, sono ancorati tuttora a un dissimulato protezionismo; un’osservazione che è facile estendere anche all’Unione Europea.

    Peraltro il liberismo, su cui Cavour mette l’accento nella sua perorazione, è angusto: riguarda essenzialmente la commercializzazione dei prodotti agricoli. Manca l’idea di una politica industriale, un serio riferimento alla crescita della produttività, alla ricerca, all’innovazione. Dall’esaltato modello inglese egli assimila il lato profitto e non il lato fabbrica (mentre lui faceva voli pindarici, Ferdinando II faceva le fabbriche). Questa incapacità a capire i meccanismi della crescita produttiva fu ereditata dai governi italiani e costò alla nazione cento anni di ritardo.

    Cavour badò soltanto a che la parte emergente della borghesia urbana si dilatasse, senza preoccuparsi del conseguente disagio che lo spostamento di risorse andava provocando nel suo paese (di cui per altro non sapeva granché), anzi impiegando la truppa nel caso di irrequietezze popolari. Con i suoi epigoni persino la costruzione dello zoppicante prolungamento nel Napoletano e in Sicilia della rete padana fu un impegno nazionale volto più ad alimentare la speculazione che ad attrezzare veramente il Sud di comunicazioni ferroviarie.

    Nel Regno sabaudo, il liberismo poetico o metafisico (o forse soltanto specioso), si rivelò pesante per le popolazioni contadine, in quanto non creò nuovi sbocchi occupazionali fuori dalle campagne. Permanevano “tecniche e sistemi organizzativi preindustriali (inadatti a sostenere la crescita della domanda, interna ed estera, favorita dalla politica economica del governo…)” (Conte, pag. 135); cioè dall’espansione monetaria. Soltanto l’abolizione del dazio sul grano recò qualche beneficio alle classi del lavoro urbano e fu un’occasione di profitti per gli speculatori genovesi, i quali, come tutti gli speculatori della storia, presero a bloccare in rada le navi in arrivo onde far crescere il libero prezzo della vettovaglia. Crebbe anche il commercio della seta greggia, quella piemontese e quella prodotta nel Lombardo-Veneto e in Emilia, che gli esportatori piemontesi riuscivano ad incettare in quantità.

    Invece il settore dell’industria era troppo debole perché Cavour arrivasse alla follia di esporlo alla concorrenza internazionale. Lo protesse, ma senza proclamarlo. Lo fece sottobanco, e ciò indigné le anime belle. Siamo al punto cruciale della successiva subordinazione e colonizzazione del Sud. Mettiamo, però, l’osservazione nel pro memoria e ripigliamo l’argomento precedente.

    Una cosa sono i principi, cosa diversa è la vicenda storica. Per la classe politica britannica il liberismo era una fede pagante, una specie di pubblicità a favore delle pezze di lana e di cotone, delle caldaie a vapore, delle locomotive, delle rotaie e di tutte le altre merci che il paese produceva e che avevano bisogno di sbocchi esteri. Per i liberisti di altri paesi l’impulso era esattamente l’opposto. La Gran Bretagna, officina del mondo, attirava a sé l’attardato padronato europeo, promuovendo lo scambio tra prodotti meccanici e merci agricole. Era, insomma, la promessa di più mercato, cioè più oro per i proprietari, che non sempre avevano trovato vano clienti per i loro raccolti, e anche più oro per i commercianti, che avrebbero visto un veloce realizzo delle merci messe in magazzino. Superfluo annotare che l’oro attrae chiunque, specialmente chi, come il redditiere fondiario, vi vede incorporata la sua capacità di affrontare spese di tipo vistoso. Meno superfluo è ricordare che il capitale, nella forma naturale (per esempio una botte d’olio), affronta rischi ben maggiori del capitale in forma aurea. L’oro non ammuffisce, non marcisce, non vermina, non corre pericoli accidentali (per esempio che la botte si sfasci); soprattutto figlia interessi. Fu questa la base antropologica su cui affondò le sue radici l’idea liberista, la ragione per cui il padronato fondiario offrì resistenze sempre più blande all’idea di cambiamento. Certamente, a livello di un Cavour era ben noto che il liberismo britannico era la glorificazione di una classe padronale dedita a riorganizzare, su basi più attraenti, il suo dominio sulle popolazioni nazionali e su quelle mondiali, e che i liberal britannici erano tutt’altro che critici verso la ferocia e l’ingordigia con cui venivano gestite le colonie.

    In generale, il modello cavourriano offriva al padronato padano1 una linea suggestiva perché potesse riaffermare la sua egemonia sociale, senza dover cedere (s’immaginava) ad altre classi quote del potere effettivo. Era comunque un modello idoneo ad assorbire il moto patriottico risorgimentale, per rovesciarlo in conservazione sociale.

    Al mio paese si dice: “chi non può permettersi di mangiare carne, si contenta del brodo”. Il Piemonte rischiava poco o niente partecipando alla competizione internazionale dei prodotti agricoli. In effetti la produzione di seta greggia aveva carattere quasi monopolistico. Il gioco, però, non poteva essere sensatamente esteso al settore manifatturiero senza rimetterci. Così il Regno sabaudo passò dal protezionismo visibile a quello invisibile. Sappiamo, per esempio, che la compagnia di navigazione Transatlantica si beccava coram populo più di un milione di aiuti governativi all’anno (Roncagli, pag. 7), e non si quanto danaro e quali favori ottenne celatamente. L’Ansaldo fu allattata segretamente dalla Banca Nazionale. Ma non sono certamente i singoli casi a spiegare un sistema generale, organizzato in base a uno Stato che s'indebitava per cedere il ricavato alla Banca nazionale, la quale foraggiava, lucrandoci, banche fasulle che avevano la funzione di coltivare la nuova classe degli affaristi e dei faccendieri. Fatta l’Italia, sarà questo meccanismo la levatrice del capitalismo padano.

    Non v’è dubbio che il sistema fu inaugurato dal Grande Ministro. Per quanto un liberismo protezionista possa apparire una contraddizione in termini, un concetto ridicolo, esso è cosa assolutamente normale, in quanto nessun paese potrebbe essere completamente liberista senza perdere la propria sovranità. E’ normale che il liberismo venga sbandierato e che sul protezionismo si metta la sordina. Esiste, peraltro, una scorciatoia, una via traversa al protezionismo, un modo d’aggirare la regola che impedirebbero l'avvio di attività reputate strategiche per il sistema-paese. L'aggiramento è comunemente rappresentato dal sostegno all’impresa attraverso il sistema bancario2. Formalmente il potere politico non c’entra. Altrettanto formalmente la banca, come ogni privato, i propri soldi li investe dove più le conviene. Chi dice il contrario bestemmia.

    Cavour, si afferma, temperò il suo liberismo; in effetti adottò un doppio indirizzo, liberista e insieme protezionista. Che fu poi il credo di quella borghesia padana degli intrallazzi, che governé l’Italia in prima persona o la fece governare dai suoi missi dominici. Con l’unità, il modello si tramutò in una forma di cobdenismo per i fessi napoletani e di colbertismo per i furbi toscopadani. Sotto Cavour, il governo sabaudo divenne un potere “assai prodigo, assai costoso. La prodigalità sembrò la via migliore per contribuire al progresso industriale e commerciale del paese [sabaudo], per dare impulso allo spirito di associazione ed accrescere la produzione della ricchezza e il generale benessere (Giuseppe Prato, Annali di economia, citati da Gazzo, pag. 161. Grassetto mio).

    E’ naturale che un paese sostenga lo sviluppo delle imprese nazionali. Non è elegante, ma è capitato (e capita spesso) che i costi vengano addossati ad altre realtà sociali. Ciò viene chiamato colonialismo, per lasciare immacolata la classe padronale. Il termine colonialismo è usato qualche volta anche nel caso italiano3, ma in verità per il Sud la cosa assume una colorazione peggiore. Si tratta, infatti, d'una truffa, di un inganno. O meglio d'una beffa. Beffa può far sembrare meno grave la cosa, ma per il sentimento nazionale il giudizio è più duro. La Toscopadana è uno dei paesi più civili del mondo, ma è anche uno dei più cinici e sleali. Machiavelli e Guicciardini l’insegnano, e ove la letteratura non bastasse, ci sono cento prove.

    Prima d’essere devoluto in trionfale eredità all’Italia una e indivisibile (nei debiti), il protezionismo dall’interno fu tenuto a battesimo nel Regno sardo. L’esempio classico di tale procedura fu l’assegnazione, per decisione del grande liberal Cavour, dell’Ansaldo a Bombrini, in modo che la mandasse avanti con i soldi della Banca Nazionale; un caso clamoroso di pubblico sostegno, e forse anche di malaffare, in quanto è lecito sospettare che Bombrini qualche quattrino se lo mettesse in tasca, mentre è certo che le passività vennero girate (non ai liguri-piemontesi, ma) al popolo italiano unificato. Ovviamente il liberal-protezionismo gratificò altre aziende, sempre con la tecnica delle scatole cinesi bancarie, in modo da nascondere la protezione. Il modello venne collaudato. I privati prendevano soldi in prestito a tre mesi, per investire in azioni ferroviarie. I prestiti a breve si trasformavano in prestiti a lungo termine. Le banche di sconto, dopo aver fatto ricorso alla Banca Nazionale per il risconto, vi ricorrevanp ancora per ottenere altra liquidità.

    In termini di politica economica, il protezionismo dall’interno non rappresenta un orrore e neppure un errore. Con tale sistema il costo dello sviluppo industriale non è caricato sulle merci, ma sulla fiscalità generale, distribuendosi sulla collettività che se ne avvantaggia. L’errore del grande ministro consistette invece nella sua convulsa applicazione, nello spreco di risorse per creare un clima favorevole agli affari, anziché fondare direttamente le industrie, come aveva fatto e faceva ancora in quegli anni il Borbone, negatore di Dio, e come avrebbe fatto un secolo dopo l’IRI, con gran disgusto del nostro mentore nazionale, Eugenio Scalfari, e della patriottica Confindustria. Ma a Cavour serviva più la pubblicità che la produzione. La mela che voleva cogliere non era di qua del Ticino, ma di là: le basse terre rese fertili dal Po e dalle risorgive, i Ducati emiliani e l’antica e serenissima Venezia, nonché lo sbocco in Adriatico. La Toscana no, essa si convinse da sé, e avendo convinto sé stessa, il suo malaugurato slancio unitario mandò in malora Napoli e la Sicilia.

    Se Cavour avesse guidato un serio processo di industrializzazione, le regioni sabaude avrebbero portato in dote alla nuova nazione qualcosa di positivo, e non miliardi di debiti come invece avvenne: otto volte le entrate del nuovo Stato nazionale. L’azzardo e gli errori metodologici e pratici di Cavour costarono agli italiani quarant’anni di ritardo nel campo della siderurgia e della metalmeccanica, nonché il peso gravoso di una classe di capitalisti tuttora sciancati. Soprattutto, se il Regno sabaudo fosse stato industrialmente attrezzato, non sarebbe stato municipalisticamente necessario annientare l’industria napolitana, per il sacro timore che Napoli si mettesse sotto Genova e Firenze. Il Regno sardo avrebbe fatto, forse, gli stessi debiti, ma sarebbe entrato in Italia senza l’appetito di una iena.

    Altro che grande ministro! Il disordine contabile, l’inaudita pressione fiscale, il debito pubblico, la sfiducia internazionale, l’infelice condizione produttiva portarono il Regno subalpino sull’orlo del fallimento e inaugurarono il corso di un’Italia folle, inetta, vile e dissipatrice. Tuttavia ribadisco: non reputo condannabile a priori la protezione all’industria, aperta o dissimulata che sia. L’industrialismo protetto dall’interno assumerà il carattere di una sopraffazione, di una malandrineria, solo dopo, quando, fatta l’Italia, le industrie liguri, piemontesi e lombarde saranno avvantaggiate sottobanco dalle commesse governative e foraggiate dalla banca bombrinesca, mentre, nello stesso momento, le industrie siciliane e napoletane si ritroveranno condannate a rispettare i sacri principi del libero mercato.

    Un governo che si metta alla guida di una rivoluzione sociale, deve necessariamente spianare i passi alla classe in ascesa. Uno dei modi per farlo sta nel assorbirne, palesemente o celatamente, i costi di rodaggio. Un nuovo sistema non nasce gratis. La società che lo partorisce deve pagare l’ostetrica e la nutrice. Spesso si tratta di un prezzo molto alto. In effetti l’Italia intera pagò, ma l’incasso venne buttato via dalla finestra.

    La contraddizione cavourrista tra libera iniziativa e intervento statale fu subito notata e concettualizzata.
    “La prima causa [di ciò] sta nel sistema in cui ci siamo lanciati, mossi dal desiderio di favorire le imprese di grandi lavori […] Lo Stato ha detto che certe imprese non possono mancare di rendere un frutto non ordinario; lo ha detto, proteggendole a differenza, dividendone la spesa e i rischi, accordando dei privilegi, garantendo un discreto interesse. L’attività naturale dei capitali se ne sentì stimolata. I valori oziosi si affrettarono a lanciarsi nella nuova direzione. Altri, che non sarebbero stati oziosi, abbandonarono la linea su cui s’eran posti. Una porzione lasciò la terra o l’opificio per andare alla Borsa; un’altra lasciò le sete e si diede allo sconto; una terza venne dall’estero; una quarta fu creata sulla parola…” (Francesco Ferrara, cfr Appendice 7A, grassetto mio).
    L’economista siciliano, adottato dal Piemonte sabaudo, era troppo autorevole per aver peli sulla lingua, e parlò esplicitamente di protezionismo dall’interno. E però Ferrara non capì che non si trattava d'un problema di euristica economica. Un capitalismo tutto d’un pezzo esiste solo nelle teorie che trascurano la storia, le vicende effettive.

    La capitale della nuova morale fu Genova. Anzi, bisogna dire che molta parte della buona riuscita della doppiezza cavourriana si deve al fatto che Genova era la città che meno si era ruralizzata nel corso della decadenza italiana. Con il suo antico spirito di speculazione e in conseguenza del fatto che Cavour riuscì a inserirla nel contesto sabaudo, Genova divenne l’epicentro del singolare rinnovamento italiano. Prima d’approdare all’ufficialità legislativa del protezionismo industriale, o per dirla più pertinentemente dell'industria parassitaria4 conobbe, infatti, una fase trentennale di disinvolto e liberale saccheggio dell’erario, di piratesca gestione della banca, di volgare dissipazione del ricavato dalle vendite terre collettive e del patrimonio ecclesiastico, insomma quello che ai tempi nostri si chiama tangentismo o intrallazzo; il tutto elevato a una potenza talmente alta da portare la nazione allo stremo. Per fabbricare i fabbricanti bisognerà aspettare le rimesse degli emigrati, trent’anni dopo il disastro unitario.

    CONTINUA

    Tratto da: La legge di Archimede. L'accumulazione selvaggia nell'Italia unificata
    e la nascita del colonialismo interno
    Ultima modifica di x_alfo_x; 16-11-09 alle 01:38

 

 

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