«La storia siamo noi» o «la storia la fanno loro»?

di Eresiarca


A tutto c’è un limite. E’ una constatazione, questa, tra le più condivisibili, dettata da quel senso della misura, della moderazione, che dovrebbe informare ogni aspetto dell’esistenza.

Il bambino che insistesse oltre misura nelle sue bizze, vedrebbe sbottare la mamma con un classico “basta, falla finita!”. Lo stesso dicasi per un amico che, petulantemente, reiterasse irragionevoli richieste di denaro. E medesima riprovazione susciterebbe chi, ad esempio, nel corso di una conversazione a tavola, monopolizzasse la parola togliendo agli altri commensali ogni possibilità di contraddittorio.

Sfido inoltre chiunque ad ascoltare la propria musica preferita per un giorno intero, senza interruzioni, ed analoga kermesse non risulterebbe certo più gradevole se sostituissimo i dischi con i libri. Il senso del limite e della misura è talmente connaturato alla natura umana pienamente realizzata che anche l’attività sessuale non potrebbe essere praticata ventiquattr’ore al giorno con sole pause pranzo e sonno!

In ambito islamico circola un detto del Profeta Muhammad: Khayru l-umûr awsatuhâ (“La cosa migliore è quella mediana”); tanto per ribadire che questa lapalissiana verità è fatta propria anche da coloro che i più sono indotti ad identificare con l’estremismo allo stato puro…



Insomma, ad ogni cosa c’è un limite, anche per la più gradita. Eppure, una cosa che sfugge alla regola c’è. E’ «l’Olocausto». Ovvero il «genocidio» programmato, da parte del regime Nazionalsocialista, di «sei milioni di ebrei» tramite un sistema pianificato di «camere a gas» situate nei cosiddetti «campi di sterminio».



Il 27 gennaio, «per non dimenticare», è stata istituita da qualche anno la «Giornata della memoria». Scolaresche, telespettatori, comuni cittadini vengono sollecitati a riflettere su «quel che è accaduto», e a tal fine si organizzano, tra le altre iniziative, rappresentazioni teatrali, mostre, lezioni seminariali, trasmissioni d’«approfondimento storico». Tali iniziative sull’«Olocausto» - come ogni buon osservatore non prevenuto potrà constatare – vengono proposte, con regolarità, nel corso di tutto il resto dell’anno, ma con il 27 gennaio alle porte, il ritmo si fa più serrato, ed i palinsesti televisivi, ad esempio, propongono (impongono?) con frequenza sempre più incalzante trasmissioni che, dalle fiction ai salottini d’intrattenimento, si conformano al clima celebrativo-memorialistico.



In questo contesto, il TG1 diretto da Clemente J. Mimun non fa certo eccezione. Al termine dell’edizione delle 9.00, esso propone una rubrica dal titolo «TG1 storia» (tg1storia@rai.it). Apriamo una parentesi: la «storia», in base alla convenzione consolidata che la suddivide in preistoria, storia antica, medievale, moderna e contemporanea, contempla una quantità pressoché inesauribile di situazioni degne d’essere portate all’attenzione dei telespettatori, meritevoli perciò d’essere «ricordate»…

Vediamo, allora, che cosa ha creduto opportuno «ricordare» la redazione di «TG1 storia» il 17 gennaio 2004. Nell’ordine: 1) Una mostra, a Berlino, dedicata ai Mendelssohn, famiglia ebrea della «buona borghesia» tedesca che ha prodotto, oltre a numerosi banchieri, il famoso compositore Felix Mendelssohn; 2) il ricordo di sopravvissuti all’eccidio nazista di Sant’Anna di Stazzema (con i relativi aggiornamenti sui processi avviatisi dopo la «scoperta» degli «armadi della vergogna»); 3) la segnalazione di una mostra, al Vittoriano, dedicata alla «Shoah»; 4) una rassegna sulle donne di Casa Savoia, dove sono stati sottolineati il «convinto antifascismo» di Maria Josè e la fine, a Buchenwald, di Mafalda; 5) Villa Torlonia, la residenza romana di Benito Mussolini, dove è allestita una mostra sulla… «Shoah». Fine della trasmissione. La prima a cui ho assistito, in trepidante attesa delle prossime…



Ora, di per sé, quanto appena esposto significherebbe ben poco, se non fosse che anche nel resto dell’anno la «divulgazione storica» operata attraverso il mezzo televisivo è occupata, in maniera preponderante, da narrazioni ed interpretazioni intese a puntellare quella che Norman Finkelstein ha felicemente definito «l’industria dell’Olocausto», i cui aspetti ideologici, sempre più interiorizzati da un pubblico sottoposto a dosi da cavallo di «rivelazioni shock» con relativi sensi di colpa, configurano la cosiddetta «religione dell’Olocausto». Che ha i suoi miti fondatori, la sua liturgia e i suoi ‘preti’, e, naturalmente, gli «eretici» da perseguitare. In pratica, un apparato di controllo politico, culturale e sociale, tra i cui vantaggi non è da sottovalutare la funzione di stornare l’attenzione da ben altre questioni che - una volta terminata l’ipnosi in cui viene tenuto - il famoso e bistrattato «popolo» dovrebbe considerare cruciali per il proprio benessere.



In un clima simile, l’impedimento di ogni dibattito serio sulla questione - che, si capisce, non può essere disgiunta dalla storia della Seconda guerra mondiale (se non addirittura dall’intera recente storia europea), per non parlare di quella che, superficialmente, viene chiamata la «questione palestinese» - è cosa più che normale. Nelle scuole (dall’asilo all’università), nelle tv, nei giornali (almeno tutti quelli che escono regolarmente in edicola), si va avanti a senso unico, con un incedere martellante che solo una coscienza critica oramai ottusa può non percepire come insostenibile, sospetto, in malafede. In specie se si considera che le stesse scuole, tv e giornali trovano del tutto normale quanto accade in Iraq e in Palestina, dove le torture, i bombardamenti, le deportazioni, le distruzioni e gli assassinii perpetrati dagli Usa e dal Sionismo sono all’ordine del giorno.



Sulla questione dell’«Olocausto» si ha, dunque, la negazione di quel senso della misura e della moderazione da sempre indicato, giustamente, come una virtù (specie in quell’«epoca borghese» che, a questo punto, vien voglia di rimpiangere…), per lasciare libero corso ad un discorso monocorde che investe persone le quali difficilmente, e al limite per puro caso, s’imbatteranno in un discorso differente. Nel discorso del «Revisionismo olocaustico».



Il «discorso» dei «revisionisti», questi mostri dipinti come delle spaventose idre in combutta per ordire chissà quali trame ai danni degli ebrei (e, per il meccanismo del transfert psicologico operato negli anni, «a ciascuno di noi»!), non è assolutamente accettabile dall’Establishment economico-finanziario capitalistico filo-americano. Esso non lo può accettare, semplicemente perché una volta ristabilita la verità storica sull’«Olocausto» dovrebbe ammettere di aver falsificato tutto il resto: di aver imposto una vulgata ad uso e consumo dell’imposizione del proprio potere ai danni del «popolo». Che, non a caso, è quello su cui più si concentrano le attenzioni dei ‘pedagoghi olocaustici’.



Si capisce quindi che la falsificazione principale è quella che investe il presente. In altre parole, ammettere pubblicamente che i «revisionisti» sono persone le cui ricerche hanno il diritto di essere lette e ragionate dal pubblico che frequenta le principali librerie equivarrebbe alla sconfessione del mito fondante il potere delle élite economico-finanziarie.



Il problema, dunque, non è limitato al mero ambito storico. Ma se anche così fosse, la questione sarebbe già abbastanza complicata, tenuto conto degli interessi delle lobby dell’«industria dell’Olocausto», il cui terminale è il cosiddetto Stato d’Israele ed il cui fine ultimo è il mantenimento in uno stato di sudditanza psico-politica di tutti i popoli europei sottomessi al dominio economico-finanziario del capitalismo filo-americano. Se difatti si considera che la pedagogia olocaustica è sbarcata anche in aree del mondo le cui popolazioni non dovrebbero avere nulla di cui «pentirsi», si coglie il valore di mito fondante del suddetto dominio svolto dalla «religione dell’Olocausto»: non a caso si tratta di paesi nell’orbita statunitense, com’è il caso del Cile.



Per quanto concerne il «Revisionismo olocaustico», è dunque doveroso sottolineare che non è si tratta di un punto di vista sulla storia filtrato da questa o quella ideologia. Questo è un punto molto importante: l’atteggiamento dei «revisionisti» seri è quello della ricerca della verità storica, senza alcun intento di offendere chicchessia. Il «Revisionismo» è quindi una metodologia, non una «scuola» con una propria «ideologia». Difatti, non solo esiste una polemica contro coloro che, anche in buona fede, travisano i fatti e forzano i documenti contribuendo a costruire quell’unicum che è il «mito olocaustico», bensì è prassi consolidata un dibattito, talvolta molto animato, tra storici «revisionisti». Ma questo non è ancora tutto.



I «revisionisti» non intendono «negare» alcunché. I loro detrattori e diffamatori – che mai concedono loro il diritto di replica sebbene ricevano regolarmente precisazioni e puntualizzazioni con preghiera di pubblicazione – li hanno bollati presso il gran pubblico col termine infamante di «negazionisti». Per chi ne fa uso si tratta di un’accusa grave. «Negare», significa essere posti «al di fuori», nel campo dei «non aventi diritto»: al «diritto di replica», appunto, o al rispetto delle proprie ricerche storiche, in alcuni casi all’inviolabilità della propria persona.

«Negare» significa, sempre dal punto di vista di coloro che per un motivo o per l’altro stanno dalla parte dell’Establishment, opporre un «no» alla ‘Verità rivelata’. Per questo, non è fuori luogo parlare di «religione dell’Olocausto».



Già l’uso del termine «olocausto» - non dal 1946, come ci sarebbe da attendersi…[1] - è altamente significativo di dove volevano andare a parare coloro che l’hanno incoraggiato.

Esso deriva dal greco olókautos, composto di hólos («tutto») e kautós («bruciato»)[2], da kaíein («bruciare»)[3], che appare nella traduzione della Bibbia dei LXX per tradurre l’ebraico ‛olah (ad es. in Levitico 6,16): Olókautos era il sacrificio che veniva dedicato completamente a Jahveh con la combustione totale della vittima.

In altre parole, con l’assunzione del termine «Olocausto» per descrivere le sofferenze patite da un certo numero di ebrei europei durante la Seconda guerra mondiale (è chiaro o no che nessun serio «revisionista» si sogna di ridurre il tutto ad una barzelletta?) s’intende veicolare l’idea secondo cui il «popolo ebraico» si è «sacrificato» - o meglio è stato «sacrificato» dal suo Dio «terribile» e «vendicativo» per non meglio precisate inottemperanze nei suoi confronti – in funzione salvifico-escatologica («il mondo non è più lo stesso dopo Auschwitz»). In tutto questo, la cifra dei 6 (sei) milioni, con tutta l’importanza data nell’Ebraismo a questo numero, fa il suo gioco in un ambiente culturalmente e, soprattutto, psichicamente predisposto. E’ quel che si dice un’operazione «magica», nel senso reale del termine, ovvero quello della produzione di un effetto reale agendo sulla sfera psichica degli individui.

Questo, per quel che riguarda il «popolo ebraico», che qualcuno aveva interesse ad attirare nella «Terra promessa» (sebbene, in gran parte, non volesse saperne di andarvi!).



Per quanto riguarda il resto del genere umano, e in particolare quello condizionato da una «cultura cristiana» e che progressivamente va secolarizzandosi, l’«Olocausto» svolge la funzione di una pseudo-religione, al cui centro, sorta di «Dio unico», c’è il «popolo ebraico» inteso come ente unico e indivisibile. Una parodia del Cristianesimo, nel quale però il Cristo «si sacrifica» volontariamente e coscientemente per la «salvezza» di tutti gli uomini, mentre in questo caso, come summenzionato, le analogie con il protestantesimo sono più che evidenti. Del resto, ogni religione ha la sua teologia, quindi esiste anche una «teologia dell’Olocausto».



Perciò «l’Olocausto» È oppure NON È. Tertium non datur.

Un’espressione come «negare l’Olocausto» equivale dunque a «negare Dio». Per questo i «revisionisti» vengono presentati come «negazionisti»: essi, in effetti, negano il ‘monoteismo’ del dominio economico-finanziario capitalistico filo-americano. Dove gli ebrei, a questo punto, stanno giusto a far da comparsa, da pretesto e paravento per ben altri obiettivi che non quello del «complotto ebraico», al quale, tanto per esser chiari, i «revisionisti» non credono affatto. «Negare l’Olocausto» suona per essi come un’assurdità, in quanto costoro si attengono all’aurea norma, frutto della migliore tradizione culturale europea, per cui la Storia non ha a che fare con la religione ed è storia solo quel che è riconducibile alla sfera dei fatti!



Se i numerosi censori e pedagoghi che spiegano «l’Olocausto» non fossero animati da uno zelo religioso (o parareligioso), utilizzerebbero quantomeno il termine «ridimensionare» per descrivere l’attività degli storici «revisionisti», ossia coloro che, dopo aver vagliato e confrontato testimonianze e tonnellate di documenti (dagli archivi dei campi alle fotografie aeree ecc.), verificato i dati della demografia e degli spostamenti della popolazione, effettuato innumerevoli sopralluoghi nei siti incriminati ed aver lì condotto (con l’ausilio di tecnici) perizie chimico-fisiche, hanno prodotto una considerevole quantità di studi – ovviamente pubblicati da piccole case editrici, di destra (Edizioni di Ar o Effepi) e di sinistra (Graphos) – che però gli ‘studiosi’ dell’Establishment si guardano bene dal discutere in pubblico[4].

Il ‘clero’ dell’«Olocausto» continua tuttavia, imperterrito, ad officiare le sue funzioni per la massa ignara: «6 milioni» e «camere a gas». Mentre i «revisionisti» devono risultare «inattaccabili» al punto che, il primo «esperto di Auschwitz» che arriva può attaccarsi ad aspetti accessorii (ma i migliori «revisionisti» sono, anche da questo punto di vista, meticolosissimi), non si capisce perché chi parla di «Olocausto» (6 milioni e «camere gas») con una sicumera impressionante quand’anche propone «rivelazioni» sbalorditive non ci ha mai spiegato, ad esempio, il funzionamento di una «camera a gas» in maniera tecnicamente sensata.

Negli «studi revisionistici», invece, la vicenda degli (o meglio, di certi) ebrei europei dal 1933 al 1945 (ma soprattutto negli anni della guerra) non viene «negata» - il che, come si è capito, non ha senso - bensì «ridimensionata» dal punto di vista fattuale: la conclusione, allo stato dell’opera – poiché ogni serio «revisionista» ammette in via di principio di poter eventualmente rivedere tale conclusione! – è che le «camere a gas» omicide non sono mai esistite e che il numero degli ebrei periti nei «campi di concentramento» (o «di lavoro») vada ridimensionato, appunto, ad alcune centinaia di migliaia, ovviamente per cause che vanno dalle dure condizioni di lavoro nei campi (che cosa significa, sennò, Arbeit Macht Frei se non il lavoro coatto dei deportati, ebrei e non?) alle epidemie di tifo petecchiale, fino ai bombardamenti alleati degli stabilimenti industriali in cui lavoravano i detenuti.



Per concludere, un paio di precisazioni ed una raccomandazione.

In precedenza, abbiamo fatto riferimento al ruolo organico svolto dagli studiosi dell’Establishment, sia nella diffusione del «mito dell’Olocausto» che nella persecuzione/occultamento/travisamento dell’opera dei «revisionisti». Anche tra costoro, ad ogni buon conto, esistono persone ragionevoli, le quali, per i motivi più diversi, tengono il punto sull’esistenza delle «camere a gas», mentre sul calcolo delle vittime si dimostrano un poco elastici e possibilisti. Ma la «religione dell’Olocausto» non è un culto elitario: è destinata alle masse, le quali si trovano indottrinate dai chierici più impreparati (e per questo più feroci), di destra, di centro e di sinistra, schierati a difesa dell’Establishment economico-finanziario capitalistico filo-americano. Ora, sebbene costoro suscitino il disprezzo più assoluto nelle coscienze che si oppongono alla tirannia della mercificazione dell’esistenza e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo generati dal capitalismo filo-americano, la propensione all’accertamento della verità sui fatti relativi alla Seconda guerra mondiale e al destino di molti ebrei in quel periodo deve provenire dal solo e disinteressato amore per la verità storica. Il «revisionismo» non è un movimento politico e non ha una politica sua, almeno nel senso comune attribuito al termine «politica». Il «revisionismo olocaustico» ha, semmai, un’unica valenza politica’: lo smascheramento della falsificazione sistematica propalata dalle élite economico-finanziarie del capitalismo filo-americano, la presa di coscienza che, come recita un recente pamphlet, tutto quello che sai è falso.

Inoltre, come già osservato da Norman Finkelstein, la «mitologia olocaustica», con i suoi scandali artefatti, le sue estorsioni finanziarie (a beneficio di cricche sioniste che gonfiano le cifre dei «sopravvissuti»), la sua ritualizzazione e le sue manifestazioni più grottesche di stampo orwelliano, non è rispettosa nei confronti di chi ha davvero sofferto nell’universo concentrazionario nazista. I primi a «banalizzare», a non portare rispetto verso la «persecuzione», le «deportazioni» e il «lavoro coatto» cui furono sottoposti ebrei e non, sono proprio gli ‘studiosi’ dell’Establishment.

Chiunque può infatti mettersi in cerca degli studi «revisionistici» e constatare che l’intento è tutt’altro che quello mistificatorio e ‘disumano’ proclamato dai servitori dell’Establishment. Men che meno, la motivazione che sta a monte del lavoro degli storici «revisionisti» è la «riabilitazione del Nazismo». Magari uno studioso «revisionista» può anche nutrire una certa quale ammirazione per il Nazionalsocialismo», ma i risultati delle sue ricerche vanno discussi e valutati per quel che sono, a partire dalla metodologia seguita, e non per le chiacchiere o le illazioni sul suo conto. Per non parlare degli studiosi «revisionisti» di tutt’altra inclinazione politica, per i quali l’Establishment ha preparato la sempiterna accusa di «antisemitismo» (o di «cattive frequentazioni», «pericolosa deriva», fino alla recente ‘scoperta’ che l’«antisionismo» è un camuffamento dell’«antisemitismo»).



Giunti davvero al termine di questo articolo, non ci resta che rivolgere al lettore una domanda: posto di fronte a un bivio - «la storia siamo noi» o «la storia la fanno loro» -, Tu, da che parte vai?





Eresiarca





Nota: per una prima panoramica sulle tematiche trattate, si consiglia di esaminare attentamente questi due siti: http://www.olokaustos.org (sito dell’Associazione Olokaustos: “Il primo sito italiano che ha come argomento la storia dell’Olocausto dal 1933 al 1945”) e http://www.vho.org/aaargh (sito dell’Association des Anciens Amateurs de Récits de Guerres et d’Holocaustes, uno dei più ricchi archivi on line di «studi revisionistici»: c’è anche una sezione in italiano).





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[1] All’inizio, per designare «l’Olocausto», gli Ebrei impiegavano il termine «hurban» (distruzione, catastrofe), poi «shoah» (distruzione, rovina, catastrofe), ancora in uso.

[2] La «s» subentrerà successivamente nella trasposizione latina (kaustós). Appare nella Vulgata di San Gerolamo (ad es. in Levitico 6,9 viene menzionata la lex holocausti), e si presume che il termine sia stato coniato proprio da lui.

[3] Olókautos, sebbene sia riferibile, per le sue radici, a olos e kaio, deriva in realtà dal verbo olokautóo (un verbo olokaio non esiste, né esiste – e ricordatevene quando arriveremo al finale dell’articolo! - il termine olokaustos…).

[4] Attualmente, le due case editrici revisionistiche più importanti al mondo sono Castle Hill Publisher, Hastings (Inghilterra)E-mail: chp@vho.org

e Theses & Dissertations Press, Chicago (Usa)E-mail: tadp@tadp.org