Crescere a livelli record indebitandosi, vivere e consumare da ricchi a credito: è questa la ricetta del “successo” economico americano, e non è applicabile altrove. Fino a quando sia applicabile anche per Washington è l’inquietante domanda che preoccupa investistori e banche centrali.
Il debito federale Usa ha toccato l’astronomica cifra di 7,5 trilioni di dollari (un trilione è mille miliardi). Si questo debito senza precedenti 2 trilioni sono stati contratti negli ultimi 8 anni e 1 trilione nei soli due anni trascorsi. Il debito dunque cresce a ritmo accelerato, per dissennatezza pura. Basti pensare che la guerricciola all’Irak è costata già a Washington la metà di quello che costò l’intera seconda guerra mondiale e il risultato sta diventando ogni giorno più simile al Vietnam.
Ma la dissennatezza pubblica non dice ancora abbastanza: bisogna addizionare il debito privato americano, compreso quello delle famiglie sulle carte di credito, per mutui sulle case, e quello delle grandi imprese. Fatto il conto l’economista André Gunder Frank valuta l’indebitamento di Zio Sam a 37 trilioni di dollari, quattro volte il prodotto interno lordo Usa. Nell’insieme, la situazione viene paragonata da Asia Times (1) a un fienile imbevuto di cherosene: non succede niente, finché qualcuno non accende un fiammifero.
Un simile crescendo di debito porta in sé il rischio di una grave deflazione mondiale, se solo l’indebitamento rallenta un poco. Il che assicura il potere americano: nessuno ha interesse a portarci alla rovina, perché rovinerebbe se stesso.
L’America deve infatti il finanziamento dei suoi superconsumi a Cina, Giapppone ed altri investitori esteri che ammassano dollari e attivi in dollari (azioni e Buoni del Tesoro) così tenendo a galla il debitore. E’ nel loro interesse perché Cina e Giappone, contro quei dollari, vendono agli Usa beni di ogni sorta in grandi volumi, e così mantengono la loro crescita industriale e i livelli occupazionali. La Casa Bianca però sta forzando cinicamente la sorte, lasciando crollare il valore del dollaro per svalutare il proprio debito e rendere più competitive le sue (ormai scarse) esportazioni.
Conta di ridurre a carta straccia le montagne di dollari in possesso ai suoi creditori mondiali. Gioco pericoloso. La Cina ha sì in dollari il 50% delle riserve di valuta che ha guadagnato con l’export dal 2001. Tuttavia nel 2004 dei 112 miliardi che ha guadagnato la Cina la quota di dollari è calata al 25%, la Cina preferendo diversificare le sue riserve con più euro e più yen. Non è solo che gli Usa sono alla mercè di Pechino, come un bancarottiere è alla mercé dell’usuraio che ne detiene le cambiali.
Basta che la Cina aumenti ancora la quota di riserve valutarie in divise diverse dal dollaro e gli Usa saranno obbligati, per attrarre i capitali di cui hanno bisogno, ad aumentare di molto il tasso d’interesse: addio credito facile grazie al quale gli americani hanno comprato case e SUV che non potevano permettersi, addio alto livello di vita, addio “crescita”.
Ma, per quanto Pechino e Tokio puntellino il loro debitore e il suo ventre spropositato che ingoia i loro gadget, la cosa finirà prima o poi per esaurimento finanziario dei consumatori americani, appesi alle loro carte di credito che sono (sempre più) assegni a vuoto. Fatto è che gli Usa hanno un deficit fiscale enorme (finanziato da stranieri) e un tasso di risparmio delle famiglie pari a zero, anzi sottozero.
All’inizio degli anni ’80, quando il deficit fiscale era pari a quello di oggi, il tasso di risparmio delle famiglie era del 9%. Questa riserva consentì agli Usa di finanziare il deficit pescando nelle tasche dei cittadini per una sola volta. Oggi, questo è impossibile. Alla fine si dovrà ricorrere a tasse più alte o a misure per ricostituire il risparmio: l’una cosa e l’altra sono incompatibili con la crescita dei consumi, ed entrambe sono recessive.
Ed oggi gli Usa non possono permettersi nemmeno un rallentamento della loro “crescita” finta, per via dei costi crescenti del loro impegno militare nel mondo. Anche Johnson e Nixon provarono a finanziare la guerra in Vietnam con inflazione e indebitamento, anziché con nuove tasse. Il risultato fu una sconfitta umiliante e una serie di crisi economiche che durò dal 1962 al 1982. La vietnamizzazione dell’Irak indica che questo sarà l’esito della nuova avventura.
L’Amministrazione, evidentemente, ha un’altra idea: siccome gli Usa non sono in grado di fabbricarsi da soli i beni che consumano e li comprano dall’estero, la potenza militare sarà sempre più usata per prendersi, o minacciare di prendersi, quei beni che non può più permettersi di comprare. Disegno cinico, che tramuta gli Usa nel grande saccheggiatore planetario. Ma il peggio è che non funzionerà, perché Washington non ha le forze militari che crede di avere per la rapina mondiale. Il Pentagono risucchia 500 miliardi di dollari l’anno (senza contare gli 80 che Bush ha chiesto al Congresso per continuare a “liberare” l’Irak) e non riesce ad aver ragione di 10-20 mila “insorti” male armati iracheni. La forza militare Usa è vuota come è vuota la sua economia.
di Maurizio Blondet
Note
1)Marshall Auerback, “Giant in decline”, Asia Times, 25 gennaio 2005.