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  1. #21
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    Atto di donazione del monte Tabor alla Custodia di Terra Santa

    (dall'archivio di Terra Santa)

    Prevedendo il P. fra Diego di San Severino che alcuni Religiosi nostri domestici bramavano e con ogni lor potere procuravano erigere nel Sacro Monte Tabor un'hospitio o casa per habitarvi, non ostante che si rendesse quasi inabitabile per il gran pericolo d'Arabi; et essendo pregato da suoi frati a mandarci alcuni di loro ad habitarci, almeno (stante il pericolo che si harebbe portato su la cima del monte) alla falda vicino alla villa, dove Cristo Signor Nostro, essendo disceso dal monte, disse ai suoi discepoli: Nemini dixeritis visionem donec Filius hominis a mortuis resurgat, ove si trova una grande ma mezza ruinata chiesa, ottenne dall'Emir di Saida, non solamente licenza di habitarci li frati, et impossessarsi di quelle chiese, ma gli fu donato tutto quel Sacro Monte, acciò il detto P. Guardiano ci havesse introdotti ad habitarlo e coltivarlo i nostri torcimanni cattolici di Betthalem (quali erano grandemente vessati, e perseguitati da quei Greci Betthleemitici), come ne fa di ciò chiara fede il Console del Gran Duca di Toscana commorante nella città di Saida, con queste parole:

    Adì 4 di X.bre, 1631, in Saida. No 2.

    "Noi Franc.co da Verrazzano, Console per il Ser.mo Gran Duca di Toscana, appresso l'Ecc.mi S.ri Emir Ficcardino et Emir Ali, e Residente per Madama Ser.ma Gran Duchessa Toscana, appresso essi S.ri Emiri: facciamo ampia et indubitata fede come l'Emir Ficcardino ha concesso licenza al R.mo P. Fr. Diego da S. Sev.o Guardiano di Ter.a S.ta che possa andare e mandare li suoi Frati ad habitare, e possedere e dimorare nel S.to, Monte Thabor, dove N. S. Gesù Xpto si trasfigurò, et ivi potere quietamente e pacificamente far le loro oraz.ni, e celebrare li Divini officij, e Messe secondo i loro riti conforme hanno fatto per il passato, essendo stati soliti andare per loro divot.ne in compagnia di Pellegrini. Ancor dico che havendo il S.r Emir Ficcardino dato licenza alli Xtiani Cattolici che vadano ad habitare sul d.o Monte, credeva il S.r Emir che anche li PP. vi fossero andati ad habitare. E per fede della verità sarà la presente sottoscritta di n. ppria mano, e dal n.ro Cancelliero, e sigillata col n.ro solito sigillo d.o dì et Anno in Saida.

    "Francesco da Verrazzano Console

    Loc. + sig.

    "Marius Pellius d.i Consulis Cancellarius".

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  2. #22
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    Studio sul Monte Tabor

    di Teresa Petrozzi

    Monte Tabor: IL TABOR NELLA PREISTORIA


    Sebbene la forma conica, quasi emisferica, del Tabor faccia pensare ad un vulcano, il monte e costituito da stratificazioni di calcare che posano ad ovest sul Cretaceo inferiore e a sud ed est sul Neocene. Verso est uno strato di basalto pleistocenico si sovrappone al calcare e, circa 100 m. al di sotto del pianoro che forma la vetta, corre uno strato di selce. Fu questo particolare genere di pietra ad attirare i primi esseri umani sul colle.

    Nel 1925 Mallon reperì sul pendio ovest frammenti di utensili databili al Paleolitico I; nel 1964 Stockton individuò selci lavorate e determinò che quasi tutte risalivano al Paleolitico medio (e. 70.000‑40.000 a.C.) e superiore (e. 35.000‑15.000 a.C.). La disposizione dei pezzi era degna di nota. Pochi giacevano nelle caverne della cima, in parte naturali ed in parte adattate artificialmente. Questo fatto e la assoluta mancanza di sorgenti d'acqua portavano ad una conclusione: le caverne non erano state abitate, almeno nel senso pieno ed usuale dell'espressione. I pezzi, al contrario, risultavano abbondanti nella faccia di selce, ma pochi potevano essere riconosciuti come utensili finiti; nella massima parte si trattava di scarti. Stockton arrivò ad una seconda conclusione: l'uomo preistorico soleva prelevare il materiale dal monte, sgrossava i pezzi e quindi esportava i manufatti semi‑finiti. Le tracce della presenza umana sul monte, sia prima che dopo il Paleolitico medio e superiore risultavano poche e incerte: alcuni frammenti parevano risalire al Paleolitico inferiore; altri reperti, fra i quali alcune lame sottili di selce, potevano provenire dal Mesolitico.

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  3. #23
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    IL CULTO PAGANO SUL TABOR

    Secondo vari studiosi il Tabor fu per un certo dì tempo sede di culto idolatrico. Riportiamo alcune ipotesi moderne.

    Hertzberg sosteneva che il Tabor aveva ospitato uno dei santuari più antichi e frequentati della Palestina preisraelitica, ed era propenso a riconoscere nella divinità venerata il Baal Sedeq, il Baal della giustizia.

    Boehmer riteneva molto importante il dio adorato in quanto il nome Tabor, o la sua radice, si trova in diversi altri toponimi della zona: Hadabrat (Daberath, oggi Daburiyeh o Kh. Dabura); Chislot Tabor (oggi Iksal); Aznot Tabor (probabilmente ad est del niente). I Fenici avrebbero in seguito portato il culto oltremare ma il nome del dio è conosciuto.. Boehmer pensava che la divinità fosse nota in Palestina come Baal del Tabor, un dio della natura e della fertilità.

    Per Eissfeld il Baal del Tabor sarebbe stato un dio degli elementi, relativamente simile al Baal Hadad, dal quale i fedeli si aspettavano protezione nella necessità e, nel pericolo, e successo nelle iniziative. I reperti archeologici di Beisan, Minet el-Beda e Ras esh-Shamra, che hanno portato alla luce il culto di Baal Saphon, Reshel. e Mekal, inducevano Eissfeld a ritenere il santuario del Tabor anteriore al XVI-XV sec. a.C. Circa l'espansione del culto, questo autore cita alcune fonti letterarie che consentono di seguirne lo sviluppo. La notizia relativa ai tempi più antichi si trova in Filone di Biblos (c. 64-140 dC), il quale, nella sua opera Storia Fenicia, riporta brani di uno scritto di Sanchuniaton, sacerdote fenicio che sarebbe vissuto ai tempi di Salomone. Secondo Sanchuniaton e Filone, i "figli mortali" di Ghenos avevano avuto figli che li superavano per grandezza e forza. Da questi avevano preso nome quattro monti: il Casio, il Libano, l'Antilibano (Hermon) ed il Brathù. L'ultimo monte non è stato identificato. Eissfeld ritiene che si tratti del Tabor. Brathù sarebbe o un semplice errore di copia: THABYR diventa BRATHY o una corruzione di to Atabyrion che diventa Debrathù e quindi Brathù. Oltre ai baal del Casio, del Libano e dell'Hermon sarebbe esistito anche un baal del Tabor. I Cananei o i Fenici avrebbero portato poi il culto a Creta dove la divinità avrebbe assunto il nome di Atabyrion. La notizia è estrapolata da quanto riferisce Diodoro Siculo, contemporaneo di Giulio Cesare: l'oracolo aveva predetto ad Altaimene, figlio di Catreo re di Creta e nipote di Minosse, che avrebbe ucciso il padre. Per evitare ciò Altaimene lasciò Creta e, con un gruppo di persone, si trasferì a Rodi dove fondò il tempio di Zeus Atabyrion, in onore del dio più importante del suo paese. Diodoro aggiunge che ai suoi tempi il tempio era ancora frequentato. Del tempio di Rodi parlano anche altri autori vissuti prima e dopo di Diodoro, fra i quali Polibio, Strabone, Plinio il Vecchio, Lattanzio. Da Rodi il culto fu trapiantato in Sicilia. Verso il 582 a.C. Gela portò ad Akragas, l'odierna Arigento, una colonia e sul punto più alto dell'acropoli alzò un tempio a Zeus Atabyrion, le cui rovine si trovano forse sotto la cattedrale di S. Gerlando.

    Lewy ricorda che in Palestina e nelle regioni vicine dell'antico Medio Oriente, gli abitanti davano spesso il nome dei loro dèi a città o a montagne e il dio diventava padrone del luogo. Questo autore è propenso a ritenere che il nome della divinità del Tabor fosse Tabor, l'artigiano del metallo, cioè Tammuz. Una antichissima città sumera, bad ti-bira, il muro dei fabbri, era dedicata a Tammuz e ad Ishtar; un testo cuneiforme (Assur 19522) dice che una delle porte dell'antica capitale assira era nota come a-bul ta-bi-ra (o ti-bi-ra o ta-bu-ra), la porta dei fabbri. Ti-bi-ra, il fabbro, era uno dei numerosi epiteti di Tammuz, il dio della fertilità, considerato inventore dell'arte di lavorare i metalli e patrono degli artigiani. Sarebbero stati i Sumeri o gli Assiri a portare nel Canaan il culto di questo dio. Il Tubal di Gn 4,22 il fabbro padre di tutti i lavoratori del rame e del ferro, il sumero ti-bi-ra e l'assiro ta-bu-ra sarebbero varianti di un solo vocabolo con significato eguale. D'altra parte, prosegue Lewy, potrebbero esser stati anche gli abitanti della regione metallifera di Tabal (Tauro), detti Tibarenòi dai Greci e Tabereni dai Latini, a trapiantare oltre i confini della loro patria il culto del dio fabbro. Infine Lewy rigetta l'ipotesi che il culto di Creta e di Rodi abbia avuto un nesso con quello del Tabor.

    L'idolo del Tabor è stato ricostruito, quasi estrapolato, da fonti letterarie alquanto smilze. E' lecito dubitare della sua esistenza anche perché non sono stati finora reperiti sul monte resti di un tempio e frammenti di statue (cfr. p. 223). D'altra parte il culto poteva svolgersi in un semplice bosco sacro e alcuni brani del Vecchio Testamento accennano ad una forma di idolatria che si protrasse saltuariamente fino all'VIII a.C.
    _____________

    note

    [1] Diodorus Siculus: Bibliotheca, V, 59, 1-2.

    [2] Polibius, Historiarum reliquiae, IX, 27, 7-8. Strabo, Geographica, XIV, 2, 12. Pliny the Elder, Naturalis historiae V, 132. Lattantius, Divinae institutiones,I, 22, 22-23.

    [3] Alliata E., "Elementi del culto pagano sul Monte della Trasfigurazione", in Memoriam sanctorum venerantes, Miscellanea in onore di Mons. Victor Saxer, Studi di Antichità cristiana PIAC 48, Città el Vaticano 1992, pp. 1-10.

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  4. #24
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    IL TABOR NELL'ANTICO TESTAMENTO

    Il libro di Giosuè pone nel territorio di Issacar sedici città e specifica che il confine toccava il Tabor (Gs 19,17~22). Inoltre dice che le terre assegnate a Zabulon arrivavano fino a Daberat (Gs 19,12), oggi Daburiyeh o Kh. Dabura rispettivamente a ovest e a nord del monte, mentre quelle di Neftali giungevano fino ad Aznot Tabor (Gs 19,34), da ricercarsi probabilmente ad est. Il Tabor veniva a trovarsi nel punto in cui convergevano i confini delle tre tribù.

    In molte religioni le montagne hanno carattere sacro. La religione israelitica non faceva eccezione e nell'Antico Testamento troviamo numerosi riferimenti a montagne considerate sacre. Ne citiamo alcuni: Iahve quando ebbe finito di parlare con Mosè sul Monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza (Es 31,18); all'Horeb, il monte di Dio, salì Elia (1 Re 19,8); Isaia predisse: Avverrà che, alla fine dei giorni, si ergerà il monte del tempio di Iahve sulla cima dei monti e si innalzerà sui colli (Is 2,2); Daniele invocò: Signore, per tutta la tua misericordia, si allontani, ti preghiamo, la tua ira e il tuo sdegno da Gerusalemme, tua città, tuo santo monte (Dn 9,16).

    Il Tabor, che con la sua altera cupola dominava le pianure circostanti, dovette imporsi alla mente degli Israeliti e non è da escludere che essi abbiano in un primo momento tollerato il baal che era adorato là; il monte può aver mantenuto il suo antico carattere sacro nella religiosità israelitica popolare, non sempre aderente alla teologia canonica ortodossa.

    Peraltro, nell'episodio di Debora (Gdc 4 e 5), che ruota intorno al Tabor, si vede che il culto iahvistico è già instaurato sul monte. Particolarmente importanti in questo senso sono i vv. 4,6 e 5,8. Nel primo Debora incita Barac a radunare le truppe sul Tabor. Questa mossa non deve esser stata dettata tanto dalla strategia quanto dal desiderio di pregare il vero Dio in vista della lotta contro gli invasori. Nel secondo Debora e Barac ricordano che gli Israeliti si erano scelti dèi stranieri, allora la guerra fu alle porte: gli dèi stranieri appartenevano al passato ed erano stati cancellati dal Dio personale. La benedizione di Mosè può essere allora considerata come riconoscimento di un culto legittimo. Il redattore di Dt 33, 18‑19, nello scrivere: Gioisci, Zabulon, nelle tue spedizioni, e tu, Issacar, nelle tuo tende! Essi invitano popoli alla montagna; là offrono sacrifici di giustizia, avrebbe avuto in mente il Tabor, unico monte importante al quale le due tribù potevano facilmente salire.

    Il Tabor compare quindi nell'episodio di Gdc 8,18: sul monte i capi dei Madianiti uccidono i fratelli di Gedeone.

    Seguono due passi controversi. In 1 Sm 10,3 Samuele ordina a Saul, da poco unto re, di andare fino alla Quercia del Tabor nella regione di Betel. Non si può escludere che anche sulla montagna di Efraim esistesse una località detta Tabor; il Monte Tabor sembra peraltro fuori discussione e diverse versioni accreditate leggono Quercia di Debora, rifacendosi a Gdc 4,5 dove è detto che la profetessa sedeva sotto la palma di Debora, fra Rama e Betel. In 1 Cr 6,62 sono elencate le città levitiche: Ai restanti figli di Merari si assegnarono nella tribù di Zabulon : Rimmono con i suoi pascoli, Tabor con i suoi pascoli. Secondo i competenti questo "Tabor" è una lezione improbabile perché una città di tal nome nel territorio di Zabulon non è ricordata in altri passi. Di conseguenza alcuni propongono di leggere Chislot Tabor (Iksal); altri, tenendo presente il brano parallelo di Gs 19,15, ritengono che si tratti di Naalal.

    Il Tabor compare quindi in Osea, profeta che svolse il suo ministero nella seconda metà dell'VIII sec. a.C. nel regno di Israele. Dopo il tempo di Debora l'idolo del monte dovette essere riportato in onore perché le tribù del nord continuavano a praticare un culto sincretistico. Tale culto era stato reso ufficiale da Geroboamo I, primo re di Israele (930‑910 a.C.), con l'erezione di immagini di tori a Betel e a Dan (o il toro era il simbolo teriomorfico del cananeo Baal Hadad), e da Acab (874‑853 a.C.) con la costruzione a Samaria, allora capitale del regno, di un tempio dedicato a Baal Melqart, dio degli Inferi. In seguito Elia aveva scannato i sacerdoti idolatri (1 Re 18,40) leu allo sterminio dei falsi profeti aveva aggiunto la distruzione dei tempio di Samaria (2 Re 10,25‑27). Peraltro, tali interventi non avevano avuto un effetto duraturo e Osea dichiarò fermamente: Toglierò i nomi dei Baal dalla sua bocca, essi non saranno più menzionati per nome (2,19) e denunciò la responsabilità dei sacerdoti e dei principi: Ascoltate questo, o sacerdoti; state attenti, o casa di Israele; o casa del re, porgete orecchio, perché contro di voi é la sentenza; voi che siete stati un laccio‑ a Mispa, una rete tesa sul Tabor (5,1). Non si conosce la ragione per cui Mispa era diventata occasione di scandalo. Nelle parole rete tesa sul Tabor Lewy vede una conferma alla sua teoria secondo la quale il dio venerato sul monte era Tammuz: nelle lamentazioni sumere per la morte di questo dio si trova generalmente l'epiteto umum safar, il signore della rete. Osea uccise il Baal del Tabor: l'Antico Testamento non accenna più ad esso né direttamente né indirettamente.

    Troviamo poi il Tabor in un altro profeta, Geremia, che lo considera, unitamente al Carmelo, un simbolo di preminenza. Nei vaticini contro le nazioni Geremia infatti rimarca la superiorità di Nabucodonosor paragonandolo alle due montagne: Pari al Tabor rispetto ad altri monti e al Carmelo che incombe sul mare, egli verrà (46,18). Il Tabor è nominato l'ultima volta dall'Antico Testamento nel SI 89, che è tutto una celebrazione alla fedeltà di Dio: Il Tabor e Hermon esultano nel tuo nome (v. 13).

    L'INCONTRO DI MELCHISEDEC CON ABRAMO

    Nel quadro dell'Antico Testamento un posto a sé merita l'incontro di Melchisedec con Abramo, legato al Tabor da una tradizione.

    In Gn 14,17‑20 viene riferito che: Tornando, Abram dall'aver battuto Chedorlaomer e i re che erano con lui, gli uscì incontro il re di Sodoma, nella valle di Save, ossia la valle del Re. E Melchisedec, re di Salem, fece portare pane e vino: egli infatti era sacerdote di Dio Altissimo. E lo benedì e disse: "Benedetto sia Abram da Dio Altissima, creatore del cielo e della terra, benedetto sia il Dio Altissimo che ti ha dato nelle mani i tuoi nemici". Abram, gli diede la decima di tutto.

    Circa il luogo di questo incontro sono state sviluppate diverse teorie. Basandosi su SI 76,3 che avvicina Salem al Sion (Ed in Salem è la sua tenda e la sua dimora in Sion), una tradizione giudea collocava il posto a Gerusalemme. Secondo il Targum Onkelos ed il Targum Jonathan i due personaggi si sarebbero incontrati "nella pianura di Mefana, che era il campo di corse del re"; secondo Flavio Giuseppe, nella Valle del Re, cioè presso la piscina di Siloe. In seguito la localizzazione venne trasferita sulla Spianata del Tempio.

    L'esistenza di una seconda tradizione giudea fu rivelata da un rotolo scritto in aramaico, scoperto nel 1947 nella grotta n. 1 di Qumran: "E il re di Sodom [ ... ] salì verso di lui e venne a Salem che è Gerusalemme. E Abramo era accampato nella Valle di Shave, che é la Valletta del Re, nella pianura di Beth ha‑Kerem". L'incontro sarebbe quindi avvenuto nei pressi della odierna Ain Karim. Avigad e Yadin ritengono che il rotolo risalga al I sec. a.C. ‑I sec. d.C.; ciò peraltro non fissa la data originale, in quanto il rotolo può essere sia la traduzione di un testo ebraico che la copia di uno aramaico più antichi. Conseguentemente anche il tempo in cui questa tradizione nacque resta oscuro; è possibile soltanto dire che si tratta di una tradizione parallela alla prima.

    Un'altra tradizione, anche essa nata in epoca indeterminabile, è quella dei Samaritani, i quali trasferirono l'incontro in Samaria, ed esattamente sul Garizim, il loro monte santo. I Samaritani erano in un certo senso giustificati poiché in Gn 83,18 si legge: E Giacobbe arrivò a Salem, città di Sichem (versione dei Settanta e Vulgata) e la valle di Salem (Gdt 4,3) è collocata in Samaria.

    I Giudeo‑Cristiani localizzarono l'incontro nella grotta che si trova sotto il Calvario, grotta da loro ritenuta l'ombelico del mondo, dove si sarebbero svolte tutte le principali azioni dei Patriarchi e da dove, infine, Gesù sarebbe disceso agli inferi (Ef 4,9) attraverso la fenditura della roccia (Mt 27,51). In quella grotta, "luogo dove si compirà la redenzione del mondo", Sem aveva seppellito Adamo e Melchisedec, come sacerdote, ne custodiva la tomba I. A quanto risulta, il primo pellegrino a parlare di questa tradizione fu l'Anonimo di Piacenza nel 570 e la notizia fu ripresa molto saltuariamente dai viaggiatori occidentali.

    Nel IV sec. venne poi sostenuta la teoria secondo la quale Salem si sarebbe trovata nella valle del Giordano. Un esponente di tale teoria fu Eusebio ed Eteria vide in quella Salem le rovine del palazzo di Melchisedec. San Girolamo, dopo aver pensato a Gerusalemme 8, abbracciò la teoria del Giordano (PL 22,680) e infine ritornò alla prima soluzione (PL 22,883).

    Nel frattempo i Melchisedechiani, membri di una setta gnostica, avevano portato la tradizione sul Monte Tabor, dove esisteva uno dei loro centri.

    Il Tabor fu riconosciuto come luogo dell'incontro anche dalla Chiesa dei Gentili. Sant'Atanasio vescovo di Alessandria (IV sec.) scrisse la Historia de Melchisedech (PG 28, 525‑530). Tale storia, che spiega anche fantasiosamente il motivo per cui Melchisedec è chiamato senza genealogia (Eb 7,3), influenzò probabilmente i Copti e visse nella tradizione del monte almeno fino al XIV sec. Per quanto concerne il Tabor, il santo vescovo narra che, dopo tragici avvenimenti familiari, Melchisedec restò sul monte sette anni, nudo come quando era nato. Le unghie divennero lunghe un palmo, i capelli gli arrivarono all'ombelico e la schiena si indurì come il guscio di una tartaruga. Mangiava bacche e beveva rugiada. Dopo sette anni una voce disse ad Abramo: "Prepara la cavalcatura, indossa vesti preziose, sali al Tabor e chiama tre volte 'Uomo di Dio' e ti si presenterà un uomo selvaggio. Non temere, ma radilo e tagliagli le unghie, vestilo e accetta la sua benedizione". Abramo eseguì gli ordini e tutto avvenne come Dio aveva detto. Dopo tre giorni Melchisedec scese dal Tabor e benedisse Abramo. Quando poi Abramo ritornò dall'aver ucciso i re, Melchisedec gli offri un calice di vino in cui aveva messo un pezzetto di pane. e fece la stessa offerta anche ai 318 uomini di Abramo. Questo fu il tipo del sacrificio incruento del Salvatore.

    Secondo un testo copto, il Signore ordinò ad Abramo di salire al Tabor con pane, vino ed acqua, di chiamare Melchisedec, di tagliargli i capelli, le unghie e la punta della barba e di mangiare le spuntature prima di porgergli le offerte. Abramo eseguì l'ordine e lo benedì. Il testo, chiamato da Goodenough "La Preghiera del Pane". termina con una invocazione: "Così ora di nuovo, Signore, sii tu colui che benedice questo pane; dallo al tuo servo come pegno di unione". La pratica magica del mangiare le spuntature è pre‑cristiana o comunque indipendente dal Cristianesimo. Tuttavia la fine della preghiera indica chiaramente che il pane doveva essere mangiato come un sacramento di matrimonio mistico del fedele con Dio. Con ogni probabilità i Copti, e forse prima di loro i Melchisedechiani, avevano cristianizzato un uso e un rito esistenti.

    Questo sembra essere il cammino percorso dalla tradizione. Hertzberg, che riteneva Melchisedec un personaggio del Canaan del Nord e probabilmente sacerdote del Baal Sedeq, proponeva il senso inverso: la tradizione del sacerdote‑re cananeo, originariamente legata al Tabor, sarebbe stata trasferita dai Giudei, dai Samaritani e dai Cristiani nei luoghi rispettivamente considerati più santi.

    Dal canto loro i visitatori, del Tabor videro il luogo dell'incontro a Daburiyeh, il villaggio ai piedi del monte, o sulla cima o sul pendio. Non mancarono quelli che lo trasportarono nei pressi di Endor, a Naim ed ai piedi del Gelboe. Alcune cronache ci sembrano interessanti.

    Daniele (1106) dice: A un buon tiro di freccia ad ovest della Trasfigurazione si trova una grotta dalla quale Melchisedec uscì quando Abramo lo chiamò 'Uomo di Dio'. Daniele riprende il testo di Atanasio: "Abramo tagliò a Melchisedec. i capelli e le unghie perché era villoso". Nella grotta Melchisedec. eresse un altare e offri un sacrificio con il pane e il vino, che Dio portò in cielo. Daniele spiega che questo fu l'inizio della liturgia con il pane e il vino e non con gli azimi. Giovanni di Würzburg (1165) deve aver sentito ancora parlare di una delle antiche credenze che identificavano Melchisedec con Seni, Set, Enoc, Cani, Canaan e Mesraim figli di Cani, Giobbe, e specifica: "Melchisedec che è Seni figlio di Noè". Teodorico (1172) traduce in termini cristiani quanto restava della tradizione: "Su questo monte è stata eretta una nobile chiesa in onore del Salvatore, nella quale dei monaci servono Dio sotto la guida di un abate. Si dice che là sia stato offerto per la prima volta il sacrificio della Messa".

    Inoltre, Sanuto (1310), pur non riferendosi direttamente all'incontro, ci ha lasciato una indicazione topografica: A due leghe da Nazaret c'é il Monte Tabor e oltre il Monte Tabor, verso est, c'é la valle di Shaveh, che è la valle del Re. Nel 1928 Hertzberg ricordava che una valle della Galilea sudoccidentale si chiamava ancora valle del Re, Uadi el‑Melek.

    Attualmente la tradizione dell'incontro sopravvive in due posti, entrambi di proprietà greco-ortodossa: Sul Tabor, in una grotta poco a nord di Bab el‑Haua, esattamente a un buon tiro di freccia ad ovest della basilica della Trasfigurazione, e nella cappella di Adamo sottostante il Calvario.

    Nella prima metà del XVII sec., Roger scrisse: "Fra il Monte Armont [Piccolo Hermon] e le montagne di Gelboe si vede in una valletta il sito dove, così dicono, Melchisedec offri pane e vino in sacrificio e dove non ci sono resti di costruzioni. La pietra su cui offrì tale sacrificio è sotto il Monte Calvario, nella cappella degli Abissini". Questa notizia spiega la duplicazione del ricordo in una maniera che può riflettere un lato della realtà (4).
    _______

    note

    [1] E. Testa, Le "Grotte dei Misteri" giudeo-cristiane in LA, 14 (1963-64), 84-105.

    [2] Egeria, Sanctae Sylviae peregrinatio ad loca sancta, in P. Geyer, Itinera Hierosolymitana saeculi IV-VIII, Wien 1898, 56.

    [3] Hebraicae Questiones in libro Geneseos, 33, 18, in CCSL, vol LXXII, Turnhout 1959.

    [4] Because of the restoration work in the basilica of the Holy Sepulcher, the altar of Melchizedek has been temporarily removed. It had been in the little apse, now visible, which probably harkens back to the restoration by Constantine Monomachus (11th c). From the time of Roger until now, the site has changed proprietors.

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  5. #25
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    IL TABOR NELLA LETTERATURA RABBINICA

    Il Tabor del rabbini si presenta sotto aspetti diversi.

    In due trattati del Talmud di Babilonia, Zebaim e Baba Bathra, il monte è preso a misura di grandezza: Esisteva un animale tanto grande che non entrava nell'arca; quanto era grande? era grande quanto il Tabor; e quanto è grande il Tabor? Quaranta parasanghe.

    Secondo un'altra scuola esso è un monte santo. La Midrash Yalkut, riferendosi ai sacrifici di giustizia di Dt 33,19, sostiene che il Tabor e il monte sul quale il Tempio doveva essere costruito, di diritto [ ...] se non fosse stato per una espressa rivelazione che ordinava di erigere il santuario sul Monte Moria 1. L'autore del trattato Tehillim annuncia: Nel tempo a venire Dio farà scendere la Gerusalemme celeste su questi quattro monti: Tabor, Hermon, Carmelo e Sinai.

    Una terza scuola presenta il Tabor come un simbolo di orgoglio e di presunzione. Nel commento al versetto del Cantico di Debora, 1 monti rabbrividirono innanzi a Iahve, innanzi a Iahve Dio di Israele (Gdc 5,5), il Targum di Gerusalemme fà dire al Tabor: Su di me si libra la presenza divina, a me essa appartiene di diritto. Quando all'inizio, ai giorni di Noè, le acque del diluvio coprivano tutte le montagne, i flutti non arrivarono né alla mia testa né alle mie spalle. Io sono dunque più elevato di tutte le montagne ed è mio privilegio legittimo che Dio dimori su di me.

    La Midrash su Genesi racconta che, mentre le nazioni ed i popoli si rifiutavano di accettare la Legge, i monti disputavano fra di loro contendendosi l'onore di essere prescelti come luogo della rivelazione. Il Tabor si vantava di essere il più alto, appunto perché aveva torreggiato sulle acque del diluvio; l'Hermon accampava diritti perché, al momento dell'Esodo, si era steso fra le due sponde del Mar Rosso permettendo agli Israeliti di passare; il Carmelo, sicuro della sua posizione, taceva e pensava: Se la presenza di Dio, la Shekinah, deve sostare sul mare, sosterà su di me, e se deve sostare sulla terra ferma, sosterà su di me. Ma una voce risuonò dall'alto e dichiarò: la presenza divina non si fermerà su questi alti monti, che sono così superbi, bensi sul Sinai, che è il più piccolo ed il, più insignificante di tutti. La stessa Midrash precisa che il Sinai fu preferito anche perché su di esso non erano stati adorati idoli.

    Secondo la tradizione, peraltro, il Tabor ed il Carmelo fecero spontaneamente atto di sottomissione: essi, o i loro angeli degli elementi, andarono al Sinai quando venne data la Legge. Il Tehillim aggiunge che il Signore fu commosso dalle buone intenzioni dei due monti e dichiarò: Poiché vi affannate in mio onore.. vi ricompenserò. Guardate, al tempo di Debora libererò i figli di Israele sul Monte Tabor, come e detto: V& e sali verso il Monte Tabor (C& 4,6); e anche libererò Elia sul Monte Carmelo, come è detto: Acab [ ... ] riunì i profeti sul Monte Carmelo (1 Re 18,20). L'Hermon non è ricordato.

    Le stesse considerazioni sulle pretese orgogliose del Tabor e del Carmelo sono ripetute nel Targum, nella Midrash su Numeri e sul Salmo 68 e nella Pesikta Rabbati.

    L'Antico Testamento non lascia luogo a dubbi circa il fatto‑ che la Legge fu data sul Sinai. L'insistenza con la quale i Rabbini sostenevano questo punto, proclamando che il Tabor ed il Carmelo erano stati scartati per il loro presuntuoso comportamento, ed il silenzio che sopravviene nei riguardi dell'Hermon, possono essere il riflesso di una polemica. I Rabbini compilarono i loro trattati nei primi secoli della nostra èra, mentre il Cristianesimo si stava espandendo. Il Carmelo, sul quale vivevano monaci ed eremiti cristiani, ed il Tabor, ritenuto particolarmente santo dai Giudeo‑Cristiani, dovevano essere umiliati e accontentarsi di un premio di consolazione. Dell'Hermon era inutile parlare in quanto non era connesso al culto cristiano.

    Comunque. il Tabor restò impresso nell'animo degli Israeliti. Ancora oggi, tra le preghiere recitate alla fine dello Shabbath, essi ripetono un inno, Havdalah, attribuito a Isaac ibn Chayyat (1030‑1089), nel quale si dice che la giustizia misericordiosa di Dio è simile al Monte Tabor.
    _________
    note

    [1] A.P. Stanley, Sinai and Palestine in connection with their history, London 1871. On p. 351, note 3, there is the English citation of the Midrash Yalkut edited by Schwarz, p. 71.

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  6. #26
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    DA ANTIOCO III ALLA I GUERRA GIUDAICA

    Dopo gli episodi di Debora e di Gedeone il Tabor ritorna nella storia con una serie di battaglie, che iniziano nel periodo ellenistico.

    Alessandro Magno. aveva conquistato la Palestina nel 333 a.C. vincendo i Persiani alla battaglia di Isso. Alla sua morte, avvenuta dieci anni dopo, l'impero macedone fu tormentato da un lungo periodo di guerre fra i diadochi, che si concluse verso il 301 a.C. Allora a Tolomeo fu confermato il possesso dell'Egitto e della Palestina ed a Seleuco venne assegnata la Siria. Antioco III di Siria, nel corso di una guerra contro Tolomeo IV di Egitto, entrò nel territorio del rivale e nel 218 a.C., scendendo da nord, si diresse verso Filoteria e poi, verso Beisan. Di là ‑superati i monti ‑ marciò in direzione di Atabyrion. Polibio, che narra gli avvenimenti della spedizione, dice che Atabyrion era una città su un monte conico alto più di 15 stadi. Sul monte gli Egiziani potevano senz'altro aver costruito delle fortificazioni come faranno in seguito Flavio Giuseppe e i Saraceni. C'è tuttavia un particolare in Polibio che distoglie dal Tabor: "superati i monti". Sulla strada da Beisan al Tabor non ci sono montagne da valicare, a meno che Antioco III, lasciate le strade in pianura, abbia ritenuto opportuno far salire i suoi uomini sul Piccolo Hermon, per poi farli scendere immediatamente.

    Comunque, Polibio riferisce la presa di Atabyrion. Antioco III provocò i difensori della città e poi, quando questi reagirono, simulò una ritirata. Gli Egiziani caddero nella trappola: mentre lo inseguivano, furono attaccati dai Siriani che si erano appostati lungo il cammino e subirono forti perdite. Lasciato un presidio nella città, Antioco III attraversò il Giordano e conquistò Pella, Camus e Gefrus. La guerra continuò fra Antioco III e Tolomeo V e terminò nel 198 a.C. con la battaglia di Panion che vide vincitori i Siriani. Strabone 2 e Flavio Giuseppe parlano della guerra ma non accennano alla presa della città di Atabyrion.

    Alessandro Janneo, fiero discendente dei Maccabei, continuando la guerra di indipendenza contro i Siriani, verso il 100 a.C. conquistò anche il monte Atabyrion e annesse la regione al regno asmoneo di Giuda.

    La Galilea passò quindi in mani romane. Mentre il proconsole Gabinio era in Egitto, nel 55 a.C. un altro Asmoneo, Alessandro figlio di Aristobulo, si impossessò del potere e, percorrendo il paese alla testa di un grosso esercito, uccideva tutti i Romani che incontrava. Gabinio lasciò in fretta l'Egitto, tramite Antipatro persuase una parte dei Giudei a sottomettersi ma non potè fermare Alessandro. Questi, con 30.000 uomini, marciò contro Gabinio e ingaggiò battaglia presso il Tabor. La fortuna gli fu contraria: 10.000 Giudei caddero e gli altri si dispersero scappando.

    Si arriva quindi alla prima Guerra Giudaica. Il comandante della Galilea Flavio Giuseppe, prevedendo che i Romani avrebbero attaccato anzi tutto la sua regione, fortificò le città di Jotapata, Bersabe, Selame, Cafareccio, Japha, Segov, Tarichea e Tiberiade nonché il monte chiamato Atabyrion o Tabor. Sul Tabor trovarono scampo dei Galilei. Lo storico dice: Quei Galilei, che dopo la conquista di Jotapata si erano ribellati ai Romani, si sottomisero quando quelli di Tarichea furono debellati; cosicché i Romani si impadronirono di tutti i castelli e di tutte le città, ad eccezione di Giscala e di quelli che avevano occupato il monte Itabyrion.

    Sul monte, accessibile a mala pena dal declivio occidentale, Flavio Giuseppe fece alzare in soli 40 giorni un muro lungo 26 stadi che abbracciava tutta la sommità pianeggiante. Per poter compiere l'opera Flavio Giuseppe fece portare dalla pianura non soltanto i materiali occorrenti ma anche l'acqua, giacché quelli che vi si trovavano avevano soltanto acqua piovana. Nel 66 d.C. il generale romano Vespasiano, si occupò di coloro che si erano impadroniti del monte e mandò il suo tribuno Placido con 600 cavalleggeri. Placido agì come aveva fatto Antioco III. Quando i Giudei iniziarono a combattere, egli finse di scappare e, arrivato in pianura, fece intervenire la cavalleria. Le perdite da parte giudea furono ingenti; molti superstiti fuggirono verso Gerusalemme e quelli che restarono consegnarono se stessi e il monte a Placido.
    __________
    note

    [1] Polibius, Historiarum Reliquiae, V, 70.

    [2] Strabo, Geographica, XVI, II, 31.

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  7. #27
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    L'EPOCA ROMANO‑BIZANTINA

    Al periodo burrascoso seguì un periodo di pace durante il quale vennero costruiti sul monte monasteri e chiese in memoria della Trasfigurazione. Le fonti letterarie sono abbastanza ricche di informazioni generali. S. Helenae et Constantini Vita, documento pervenutoci in copie dell'XI‑XII sec., ma probabilmente composto verso la metà del VII sec., riferisce che S. Elena salì sul Tabor e che,, dopo aver cercato e trovato il luogo dove era avvenuta la Trasfigurazione, vi fece erigere una chiesa in onore del Salvatore e dei tre Apostoli. La notizia fu ripresa da Níceforo Callisto (PG 146,113). Potremmo trovare una conferma indiretta in Epifanio, Monaco: pur non accennando a costruzioni di S. Elena, egli dice che esisteva una scala di 4340 gradini che andava dalla valle alla cima del monte (PG 120,272). Epifanio ‑il primo autore di lingua greca che, a quanto risulti, abbia composto una relazione sui Luoghi Santi‑ scriveva nel 750‑800 basandosi su documenti anteriori e probabilmente diceva il vero. Anche sul Monte degli Olivi una scalinata di 800 gradini, ritenuta opera di Costantino, saliva dalla valle del Cedron fino al luogo dell'Ascensione di nostro Signore I.

    Agli inizi del VI sec. esisteva già una diocesi del Tabor. Al sinodo di Gerusalemme del 518 un vescovo firmò in greco scritto con caratteri latini. Tale firma risultava illegibile ai copisti degli atti dei concili e fu tralasciata o ricopiata soltanto in parte, così che il nome della sede andò perso Nel 1940 Schwartz riuscì a decifrare la firma: Prestutus episcopos tou hagiou orous Thabor, Prestuto vescovo del santo monte Tabor. Di conseguenza risultava che la diocesi del Tabor era una delle più antiche della valle di Esdrelon.

    Può darsi che la chiesa costantiniana sia stata demolita per far posto alla cattedrale e a due cappelle. L'Anonimo di Piacenza (570) vide tre edifici sacri e un secolo dopo Arculfo parlò di un grande monastero, di tre chiese e di molte celle abitate da monaci. Oltre che sulla cima del Tabor, religiosi vivevano anche su un monticello ad est dell'attuale basilica, dove l'arch. Barluzzi rintracciò nel 1921 una cella ed i resti di una cappellina.

    Una omelia in armeno sulla Trasfigurazione, datata c‑ 630 ‑ secondo alcuni autori datata al V sec. e attribuita ad Eliseo Vardapet, dà ampie notizie sulla vita degli eremiti.

    Quando il testo fu redatto la comunità contava moltissimi membri che vivevano più con lo spirito che con il corpo. Distaccati da tutti i desideri umani, non accettavano oro o argento o indumenti o quanto è necessario per il fisico. Vestiti di pelli, lavoravano in silenzio il terreno con zappe di legno, seminavano grano, orzo ed altri cereali e, arrivato il raccolto a maturazione, trebbiavano a vento. Nessun quadrupede era ammesso sul monte. Con i giunchi intessevano ceste e stuoie. Il cibo era ridotto al minimo: pane e acqua leggermente salata che chiamavano ambrosia, pochissimo olio,. niente vino. L'olio era riservato alle lampade che ardevano continuamente nelle tre chiese ed il vino era riservato al calice della Messa. Non avevano medicine per i malati ne provviste speciali per gli ospiti. L'unico lusso che si concedevano era l'infuso di un'erba, detta niv, sale e issopo, che bevevano nei giorni più caldi. A questa austerità molti aggiungevano lunghi digiuni. Le privazioni peraltro non indurivano il cuore degli eremiti, i quali dedicavano ai confratelli vecchi e infermi ‑ che chiamavano angeli ‑ le attenzioni che negavano a se stessi. La mancanza di cibo corporale era ampiamente bilanciata dalla ricchezza del cibo spirituale. Ogni giorno i monaci recitavano i 150 salmi e leggevano la Sacra Scrittura; per le orazioni del mattino e della sera si riuniva tutta la comunità e dei sacerdoti, secondo un turno stabilito, continuavano l'officiatura nelle tre chiese di giorno e di notte.

    Si trattava quindi di eremiti acèmeti, gli insonni, che pregavano ininterrottamente.

    Il testo distingue tre edifici sacri: uno grande, chiamato chiesa del Signore, e due più piccoli, detti Martyria, dedicati a Mosè e ad Elia, dove erano conservate le reliquie degli Apostoli che avevano assistito alla Trasfigurazione.

    L'uso di conservare reliquie in un martyrium, cioè in un piccolo loculo dell'altare o in una cameretta sottostante l'altare, risale al IV sec. In Siria e in Palestina spesso le reliquie erano poste in cappelle costruite vicino ad una chiesa: così era stato fatto sul Tabor.

    Il testo di Vardapet non specifica se gli. eremiti erano di rito latino (Benedettini?), greco o armeno. Probabilmente monaci di riti diversi vivevano insieme sul Tabor come in molti altri luoghi. Quasi certamente il vescovo Prestuto era latino; il pellegrino armeno Anastasio ricorda il monastero del Tabor come uno dei 15 stabilimenti restati agli Armeni dopo la conquista araba e un documento, citato da Alt e da Beyer, enumera fra le diocesi greche esistenti prima delle Crociate, quella del Tabor.

    Soltanto un nome dei monaci del Monte Santo è arrivato fino a noi: Damiano, nativo della Siria, il quale si trasferì in Egitto e divenne nel 578 vescovo di Alessandria.

    Nell'VIII sec. esistevano in Europa eulogie del Tabor. Probabilmente esse erano state portate o raccolte da S. Angilberto, uno dei principali ausiliari e confidenti di Carlomagno e discepolo di Alcuino 5. Ci sembra significativo il fatto che Angilberto fosse abate della abbazia benedettina di Centula o Saint‑Riquier (diocesi di Amiens).

    Sembra che il Tabor non abbia sofferto per l'incursione dei Persiani di Cosroe (614) e che i religiosi abbiano continuato a dimorare sulla sua cima indisturbati anche dopo la conquista araba del 637. Tuttavia il "grandissimo numero" di eremiti dell'autore armeno diminuì. Agli inizi del IX sec. il Commemoratorium de Casis Dei registra 18 monaci ed Epifanio Monaco registra 12 abbades (PG 120,272). Al tempo del Commemoratorium c'era ancora la diocesi del Tabor presieduta dal vescovo Teofane ed esistevano quattro chiese. Di queste, tre erano rispettivamente dedicate al S.mo Salvatore, a Mosè e ad Elia; la quarta, causa una lacerazione del manoscritto originale, resta anonima. Kopp ha avanzato l'ipotesi che si trattasse della chiesa dedicata a Melchisedec 6.

    Nel 969 la Palestina passò dalla dominazione dei califfi Abbasidi a quella dei Fatimiti di Egitto. Approfittando del fatto che i Fatimiti trovavano difficoltà nell'ambiente arabo, l'imperatore di Bisanzio Giovanni Zimisce nella primavera del 975 mosse verso la Palestina. Da Damasco la sua grande armata scese in Galilea, prese Tiberiade e Beisan e poi arrivò fino ad Acri. In una lettera indirizzata ad Ashod III di Armenia Zimisce scrive: Essendo andati al Monte Tabor, salimmo al posto dove il Cristo nostro Dio fu trasfigurato. L'obbiettivo della Crociata bizantina, che anticipava di 124 anni le Crociate latine, era naturalmente Gerusalemme. Purtroppo Zimisce non ebbe successo e la morte lo colse nel gennaio del 976 prima che potesse ripetere l'impresa.
    __________
    note

    [1] Armenian Description of the Holy Places in the Seventh Century, in PEQ, 1896, 348. The description was probably written by an Armenian pilgrim, Anastasius, who visited Jerusalem around 660.

    [2] Arculf: Adamnani de locis sanctis libri tres, in P. Geyer, Itinera Hierosolymitana saeculi IV-VIII, Wien 1898, 275.

    [3] B. Bagatti, Gli altari paleo-cristiani della Palestina , in LA, 7 (1956-57), 80.

    [4] H. Leclercq, see word Archevêque, in Dictionnaire d'Archéologie Chrétienne et de Liturgie publié par F. Cabrol et H. Leclercq, vol. I, 2nd part, Paris 1924, col. 2732.

    [5] B. Bagatti, Eulogie palestinesi, in Orientalia Christiana Periodica, 15 (1949), 154.

    [6] The ruins of the church of Moses have yet to be discovered.

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  8. #28
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    L'EPOCA CROCIATA

    Sappiamo da Guglielmo di Tiro che Tancredi, non appena nominato principe di Galilea, si affrettò a restaurare le chiese di Nazaret, di Tiberiade e del Tabor, dotandole riccamente. Nel 1102 Saewulf notò che sulla cima del monte "restavano ancora tre antichi monasteri, uno in onore di nostro Signore Gesù Cristo, un altro in onore di Mosè ed un terzo, poco distante, in onore di Elia".

    Gli studiosi si domandano se Tancredi fondò una abbazia e la affidò ai Benedettini, o se si limitò a ripristinare una abbazia già esistente. In altri termini, se i religiosi che occupavano il Tabor all'inizio della prima Crociata erano tutti Benedettini o appartenevano anche ad un ordine orientale. Un atto del 1101 sembra sostenere la prima ipotesi: in esso si dice che Tancredi rese all'abate Gerardo della chiesa del S.mo Salvatore sul Tabor quando l'abbazia aveva posseduto per il passato, quae antiquitus possederat. Con ogni probabilità i possedimenti dei Benedettini erano stati confiscati a seguito della Crociata di Zimisce. Sta di fatto che nel 1101 i Benedettini erano sul Tabor. Un'altra domanda alla quale gli studiosi hanno cercato di rispondere concerne il tempo in cui i Benedettini del Tabor abbracciarono la regola di Cluny. Alcuni ritengono che ciò sia avvenuto prima del 1101; altri pensano al 1130. Questi ultimi autori si basano sulla data di una lettera inviata da Pietro il Venerabile, eletto nono abate di Cluny, nel 1122, all'abate del Tabor, anche lui di nome Pietro, in cui lo scrivente si rallegra di aver appreso da un frate pellegrino che la comunità del monte era cluniacense (PL 189, 266). D'altra parte un MS del XV sec., conservato un tempo nel convento dell'Ara Coeli a Roma diceva che i monaci uccisi nel 1113 erano cluniacensi tedeschi.

    Baldovino I approvò le donazioni di Tancredi e, nel 1107, ne aggiunse delle altre a favore dell'abbazia "sul monte santo". I possedimenti dei Benedettini erano veramente notevoli: 34 villaggi (alcuni di proprietà effettiva, altri di proprietà promessa) nella Bassa Galilea, specialmente nelle terre circostanti il monte, e 22 villaggi nella valle del Giordano o oltre il Giordano. Le decime spettanti all'abbazia riguardavano non soltanto i raccolti ed il bestiame, ma anche il bottino di guerra.

    Nel frattempo (1103) papa Pasquale II aveva conferito all'abate Gerardo ed ai suoi successori il titolo di arcivescovo di tutta la Galilea e di Tiberiade con il diritto di indossare il pallio e di usare la bolla di piombo. Inoltre., Pasquale II aveva messo il monastero e tutti i suoi beni sotto la diretta protezione della S. Sede.

    In un primo momento quindi, quando le diocesi di Nazaret e di Tiberiade non erano state ancora fondate, l'abate del Tabor ebbe giurisdizione episcopale sulla Galilea. Verso il 1107‑1109 l'antica sede metropolitana di Beisan fu trasferita a Nazaret. Ciò provocò un attrito fra l'abate Gerardo ed il vescovo Bernardo per la definizione delle competenze. Nel 1112 la disputa fu composta a favore di Nazaret da Gibelino, vescovo inviato dalla Santa Sede, con il consenso del clero e del re Baldovino I. L'abate manteneva il titolo di arcivescovo ed il diritto al pallio ed alla bolla ma l'abbazia non ricevette più tutte le decime dei villaggi. Una frase di Guglielmo di Tiro sembra accennare ad avvenimenti spiacevoli. Dopo aver ricordato le donazioni fatte da Tancredi alle chiese di Nazaret, di Tiberiade e del Tabor, lo storico aggiunge che tali santi luoghi ne persero una parte non piccola causa le frodi e le calunnie dei principi sue.

    Gli edifici di questo periodo sono descritti da Daniele: "Sul punto più alto, dal lato orientale, c'è un luogo elevato, come un monticello di pietre che termina a cono: è quello il luogo della Trasfigurazione, Vi si vede una bella chiesa dedicata alla Trasfigurazione e un'altra, a fianco, a nord della prima‑, dedicata a Mosè e ad Elia. Il luogo della santa Trasfigurazione e circondato da solidi muri di pietra con porte di ferro. Era un tempo sede vescovile ed ora è un monastero latino".

    Nel 1113, durante la contro‑crociata turca, Maldue atabeg di Mossul invase la Galilea. Baldovino I ordinò ai baroni di accorrere immediatamente ma non li aspettò e con le sue sole forze sconfisse Malduc a Tiberiade. 1 Turchi piegarono verso il Tabor e, a loro volta, ebbero la meglio sui Crociati prima di ritornare alla loro patria. I Turchi massacrarono tutti coloro che si trovavano nell'abbazia: 72 persone, fra monaci, servitori e rifugiati. Il martirologio del benedettino Gabriel Bucelinus (XVII sec.) ricorda le vittime il 4 maggio; i resti non sono mai stati reperiti.

    I Benedettini non tardarono a ristabilirsi sul monte: nel 1115 il nome dell'abate Raimondo appare su un atto di donazione da parte del conte calabrese Riccardo, il quale concedeva al cenobio del S.mo Salvatore di Monte Tabor vari possedimenti in Occidente. Per proteggersi contro nuovi attacchi, i Benedettini fortificarono il loro convento e vi installarono una guarnigione di Turcopoli 2.

    La vita dei religiosi sul monte continuò tranquilla per un certo numero di anni. Nel 1120 l'abate Pietro partecipò al concilio di Nablus; nel 1146 Eugenio III confermò all'abate Ponzio ed ai suoi successori i privilegi concessi da Pasquale II; nel 1169 l'abate Bernardo 1 venne nominato vescovo di Lidda; un atto del 1175 fu firmato da 12 monaci i quali ‑ secondo Gariador ‑ costituivano probabilmente tutta la comunità benedettina allora residente sul Tabor.

    Quando Phocas visitò il monte santo nel 1177 esistevano un convento greco e due conventi latini. Di questi ultimi, uno sorgeva sulla cima, dove il Signore si era trasfigurato, e ospitava moltissimi monaci. Il luogo della Trasfigurazione era circondato da una transenna di metallo e il punto dove avevano posato i piedi del Signore era contrassegnato da una pietra rotonda straordinariamente candida, sulla quale era incisa una croce.

    Nella seconda metà del XII sec. si parla nuovamente di eulogie provenienti dal Tabor. Giovanni Diacono, canonico del patriarchio lateranense elencò, fra le varie reliquie conservate al Laterano nella chiesa di S. Lorenzo, lapis in quo Dominus transfiguratus est in monte, pietra sulla quale il Signore si trasfigurò sul monte (PL 78,1,390).

    Una invasione di Saladino ruppe la pace e fu il preludio della fine. Nel 1183, mentre i Crociati lo tenevano in scacco ad Ain Gialud, Saladino mandò distaccamenti a saccheggiare il paese. Un gruppo sali sul Tabor e devastò il monastero greco. Guglielmo di Tiro, che riferisce questi avvenimenti, ci dà il nome del monastero: S. Elia. I religiosi greci fuggirono e di loro si sentirà parlare di nuovo, crediamo, nel 1737. 1 Saraceni attaccarono anche l'abbazia benedettina. Le fortificazioni, i Turcopoli e il coraggio dei monaci, dei servitori e dei rifugiati salvarono sia il convento che la chiesa.

    I Benedettini compresero che era necessario pensare al futuro. Dopo l'incursione, l'abate Bernardo Il del Tabor e l'abate Folco di S. Paolo di Antiochia, con il consenso dei confratelli, firmarono una convenzione in virtù della quale le due comunità si impegnavano ad accogliersi a vicenda in caso di espulsione.

    I Benedettini avevano visto giusto. Appena quattro anni dopo Saladino attaccò di nuovo i Crociati e li sconfisse sui Corni di Hattin. Le sue truppe salirono nuovamente al Tabor e compirono l'opera iniziata durante la loro precedente spedizione. I Benedettini abbandonarono il monte; non sappiamo se alcuni andarono ad Antiochia; è certo che almeno l'abate e una parte della comunità si ritirarono ad Acri in una delle proprietà dell'abbazia, con ogni probabilità la chiesa del S.mo Salvatore 4.

    Nel 1204 i Crociati conclusero una tregua con il sultano el‑Adel, fratello di Saladino. Appena scaduto il termine, el‑Adel iniziò a costruire sul Tabor una potente fortezza. La data precisa è indicata in una delle iscrizioni arabe reperite fra le macerie: 5 du l‑hiddsha 609, 20 maggio 1212 ‑5. L'opera fu continuata da Muazzam Isa, figlio di el‑Adel, che era stato associato al governo. La chiesa della Trasfigurazione e l'abbazia benedettina sparirono quasi completamente sotto le costruzioni saracene.

    La fortezza, con le sue mura massiccie e le sue numerose torri, era un capolavoro dell'arte militare del tempo. Essa dominava il territorio circostante come un'aquila pronta a calare sulla preda, impediva ai Crociati di riconquistare la Galilea e chiudeva loro la via per Gerusalemme 0. Ben protetta anche da un fossato,. la fortezza stendeva un tentacolo verso est: contiguo all'antico eremitaggio, era stato costruito un posto di guardia. Consapevoli di essere in stato di inferiorità, i Franchi non reagirono.

    Reagì papa Innocenzo III indirizzando nel 1213 un messaggio solenne a tutta la Cristianità: I Saraceni hanno costruito sul Monte Tabor, proprio sul posto dove il Cristo si è manifestato nella sua gloria, una fortezza destinata a completare la rovina del nome cristiano. Minaccia la città di Acri e per mezzo di essa i Saraceni sperano di distruggere quello che resta del regno di Gerusalemme, perché quell'infelice relitto è sprovvisto di denaro e di soldati. All'apertura del IV Concilio Lateranense, 11 novembre 1215, Innocenzo III annunciò quindi la sua ferma decisione di iniziare una nuova Crociata. Forse sperava di guidarla lui stesso, ma morì pochi mesi dopo (16 luglio 1216).

    La decisione di Innocenzo III fu confermata da Onorio III. Venne così organizzata la quinta Crociata, sotto il comando di Andrea II di Ungheria, alla quale si unirono molti principi tedeschi, fiamminghi e scandinavi. Andrea aveva fatto voto di prendere la croce‑ su domanda del padre morente, ma non mostrava grande entusiasmo. Sollecitato dal papa parti infine nell'agosto del 1217 ed arrivò ad Acri poco dopo Leopoldo VI duca d'Austria, che era stato il primo a salpare.

    In Acri si unirono ai Crociati Giovanni di Brienne re di Gerusalemme, Ugo I di Lusignano re di Cipro, i Templari ed i Cavalieri di S. Giovanni. Il Consiglio di guerra, riunitosi a fine ottobre 1217, decise di attaccare la fortezza. Dopo aver spiegato le loro ingenti forze nella valle di Esdrelon ed aver fatto retrocedere el‑Adel, i Crociati si diressero verso il Tabor a fine novembre e si accamparono sur le ruissel du Cresson, una delle sorgenti di Uadi el‑Bireh. Per tentare di prendere la fortezza essi dovevano salire sul monte ogni giorno e il successo appariva estremamente improbabile perché i fitti boschi impedivano loro di trasportare le macchine da guerra. Ai primi di dicembre, grazie ad una fitta nebbia, i Crociati arrivarono non visti alla porta della cittadella, tanto vicini che con le loro lancie potevano toccare le mura. Malgrado il valoroso comportamento di Giovanni di Brienne, furono rigettati da una improvvisa sortita degli assediati. Giorni dopo fecero un estremo tentativo: tutta l'armata salì riuscendo a portare una immensa scala che venne appoggiata alle mura. 1 Saraceni lanciarono fuoco greco, bruciarono la scala e inflissero grandi perdite agli attaccanti. I Franchi si demoralizzarono e, ignorando che il nemico era sul punto di arrendersi, tornarono ad Acri. Secondo alcuni autori l'assedio era durato sette giorni; secondo altri, diciassette. Andrea Il, che non aveva partecipato alla spedizione perché ammalato, decise di rimpatriare.

    La Crociata non ebbe risultati positivi ma, in ogni caso, la minaccia era stata utile. Melek el‑Adel, comprendendo che la sua "benedetta" fortezza ‑ come la chiamano le iscrizioni arabe ‑ costituiva una arrogante provocazione, la fece demolire nel 1218. Da parte sua, Muazzam aveva così poca fiducia nella vittoria finale che fece radere al suolo anche le fortezze di Tibnin, di Paneas e, più tardi, di Safed, per paura di vederle cadere in mano dei Franchi. Questi, tuttavia, continuavano a versare in tristi condizioni. Unitamente ai più alti prelati latini, l'abate Andrea del Monte Tabor firmò in Acri il 10 ottobre 1220 una lettera indirizzata a Filippo II Augusto re di Francia, nella quale si parlava delle tragiche condizioni della Terra Santa e si chiedeva aiuto per Giovanni re di Gerusalemme, che era in grande povertà.

    Malgrado tutto le proprietà che l'abbazia aveva non dovettero essere confiscate e una comunità di religiosi vi si stabilì poco dopo la demolizione della fortezza. Il geografo arabo Yakut, che scriveva nel 1225, dice che sulla sommità del Tabor c'era una chiesa grande e solidamente costruita e che a sud del pianoro si trovava Deir et‑Tajalla, il convento della Trasfigurazione. Qui infatti, precisa Yakut, "si dice che Gesù ‑ la pace sia con lui ‑ fu trasfigurato in presenza dei discepoli".

    Circa i religiosi, secondo Bonifacio da Ragusa sarebbero stati i re di Ungheria ad inviare sul Tabor un grande numero di monaci ungheresi dell'ordine di S. Paolo primo eremita. Forse, pensava Meistermann, era stato Andrea Il, per riparare in qualche modo allo scacco subito, e forse quei religiosi officiavano il posto, con l'autorizzazione e sotto la giurisdizione dei Benedettini.

    Durante la sesta Crociata, nel 1229 Federico Il e Melek el‑Kamel firmarono una tregua durevole dieci anni, grazie alla quale il regno crociato veniva restaurato quasi completamente. Alcuni ritengono che sia stato Federico II a ricostruire una chiesa latina sul Tabor e ad affidarla ai monaci ungheresi. La tregua fu prolungata per altri cinque anni ed ebbe termine con l'invasione dei Turchi Khuwarizmi.

    Luigi IX di Francia, dopo le disastrose battaglie egiziane, che avevano costato la vita a metà dei membri della settima Crociata, trascorse quattro anni ad Acri (13 maggio 1250 ‑ 24 aprile 1254) e, giocando di diplomazia, riuscì a mantenere la pace. Accompagnato dalla moglie, là coraggiosissima regina Margherita, il santo re sali in pellegrinaggio al Tabor nel 1251, la vigilia dell'Annunciazione.

    Il 10 aprile 1255 papa Alessandro IV indirizzò al Gran Maestro Guglielmo di Castronovo ed ai fratelli dell'ordine di S. Giovanni una bolla che in sostanza diceva: 1 vostri meriti ci inducono ad accogliere la vostra richiesta. Nella vostra petizione ci facevate presente che il monastero del Tabor è stato distrutto dai nemici di Cristo e che non si può sperare che l'abate e i monaci possano restaurarlo. Essendo molto probabile che i Saraceni vi erigano delle fortificazioni, ci avete pregati di intervenire. Pertanto.. sapendo che voi lottate incessantemente con tutte le forze contro i nemici di Cristo, vi concediamo il predetto monastero, con tutti i relativi possedimenti, i diritti e le decime.

    Alla concessione seguivano le clausole: Se fra Cristiani e Saraceni ci sarà una pace o una tregua continua, entro dieci anni dall'aver preso possesso del luogo costruirete una fortezza e ci manterrete 40 cavalieri sempre in armi per la difesa del nome cristiano. All'abate ed ai monaci benedettini superstiti darete il necessario per vivere, a giudizio dell'arcivescovo di Tiro e dell'abate di S. Maria della Valle di Giosafat, che dimora in Acri. Per ottenere la concessione gli Ospitalieri avevano versato 1100 bisanti.

    Nei due anni seguenti, su richiesta del Gran Maestro dell'Ordine, Alessandro IV emise altre bolle, in sostituzione di quelle dì Pasquale Il e dì Eugenio III, rovinate dal tempo, confermando all'abate del Ta bor il titolo di arcivescovo con diritto di portare il pallio.

    Alcuni Benedettini furono contenti della decisione. Circa un anno dopo il passaggio della proprietà, i monaci Garino, Michele e Pietro scrissero al papa ringraziandolo perché gli Ospitalieri avrebbero provveduto a fortificare il luogo. Altri Benedettini sollevarono delle difficoltà e nel 1257 Alessandro IV ordinò all'abate di S. Maria della Valle di Giosafat di aiutare gli Ospitalieri ad ottenere i beni ed i privilegi connessi al convento del Tabor se necessario lanciando la scomunica, si opus sit via excommunicationis usus.

    I Cavalieri di S. Giovanni restarono padroni del Tabor solamente per otto anni e quindi dovettero lasciarlo a causa del loro comportamento.

    All'inizio del 1263 Baibars Bundukdari attaccò i Franchi. Giovanni di Ibelino conte di Giaffa e Baliano di Ibelino conte di Arsuf si rassegnarono ad accettare le condizioni del sultano mamelucco, una delle quali riguardava lo. scambio dei prigionieri. L'8 aprile i rappresentanti del governo di Acri andarono a parlamentare con Baibars nel suo accampamento sul Tabor. I Templari e gli Ospitalieri rifiutarono di restituire i loro prigionieri per non perdere mano d'opera gratuita. Baibars stesso fu indignato da una simile risposta e interruppe le trattative. I Franchi persero ‑oltre al Tabor ‑ Giaffa, Arsuf, Cesarea e Safed.

    Il 20 agosto 1263 papa Urbano IV indirizzò a S. Luigi IX l'epistola Vocem Terroris, nella quale denunciava le distruzioni fatte da Baibars a Nazaret, a Cafarnao, sul Tabor e in tutti i possedimenti cristiani fino alle vicinanze di Acri, et in tota Christianorum terra usque ad portas Acconis. Luigi prese per la seconda volta la croce nel 1267 ma la morte gli impedì di arrivare al monte santo e l'ottava, e ultima, Crociata, non portò ad alcun risultato I.

    La cima del Tabor non fu che un oceano di pietre sul quale si alzarono per centinaia di anni, come una piccola onda solidificata, le rovine venerate. Alla metà del XVII sec. anche la piccola onda si appiattì.
    ___________
    note

    [1] The common term for village in the Crusader documents was a hamlet (or, in Latin, casella). William of Tyre explains that a hamlet is a center of 100 or more houses, each of which pay a tax of one byzantine coin. In Crusader times the population of a village could be on an average of 500 souls.

    [2] The Turkopols, from the greek turkopoul, son of a Turk, was a name given in the Middle Ages to the troops of the light cavalry in the French dominions of the Mideast, who were recruited from among the natives and halfbreeds.

    [3] Perhaps this eulogy was seen in 1905 by Fr. Grisar, who "by the benign and special concession of Pope Pius X" examined the relics of the Lateran and noted in the wooden box, ordered by Pope Leo III (795-816), the phrase "Stones from the Holy Places of Palestine". H. Grisar, Il "Sancta Sanctorum" in Roma e il suo tesoro nuovamente aperto, in Civilt´a Cattolica, 57 (1906), 517.

    [4] The list of Benedictine abbots on Tabor was reported by both D. Gariador (Les anciens {etc.}, cf. 5.7), and M.E.G. Rey, Les familles d'Outre-Mer de du Cange, Paris 1868, 828-830, and by R. Röhricht, Syria Sacra, in ZDPV, 10 (1887), 39-41.

    [5] For the Arab inscriptions, see M. Van Berchem, Arabische Inschriften aus Syrien, in Mitteilungen und Nachrichten des Deutschen Palästina-Vereins, 1903, 33-45; H. Lammens, Inscriptions arabes du Mont Tabor, in MEL, 3 (1909), 481-492.

    [6] For the detailed study of the fortifications, inscriptions and Arab coins, cf. A. Battista, B. Bagatti, La fortezza saracena del M. Tabor, Jerusalem 1975.

    [7] After the departure of the crusaders, only two titular bishops for Tabor were listed: Walter in the second half of the 14th c.and Andrea Didaci in 1414 (C. Eubel. Hierarchia catholica Medii Aevi, vol I, 2 ed., Monastery, 1913).

    FONTE

  9. #29
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    L'EPOCA POST-CROCIATA

    Il Tabor non venne peraltro dimenticato: la tradizione dell'avvenimento evangelico continuava a richiamare i pellegrini. Nella sezione Il Culto sul Tabor abbiamo riportato le cronache relative alle devozioni, ora diamo notizie generali e sui monumenti superstiti.

    Burcardo, che salì al Tabor venti anni dopo l'intervento di Baibars, vide le rovine di tre tabernacoli o chiostri, di palazzi, di torri e di edifici diventate tane di belve. Ricoldo di Monte Croce (1294) lesse il Vangelo piangendo per tanta desolazione.

    Alcuni visitatori, fidandosi di guide inesperte o raccogliendo antiche credenze corrotte al punto di essere irriconoscibili, collocarono sul Tabor avvenimenti disparati.

    Maundeville e Boldensel, in Terra Santa rispettivamente nel 1322 e 1332, parlano della scuola del Signore, Schola Domini, dove Gesù aveva insegnato ai discepoli rivelando loro i segreti del cielo. La Grotta degli Insegnamenti, detta anche del Pater Noster, si trova sull'Oliveto. Maundeville aggiunge: "Su quel monte e nel posto della Trasfigurazione, nel giorno del giudizio quattro angeli suoneranno quattro trombe e resusciteranno tutti gli uomini che hanno patito la morte da quando il mondo fu creato alla vita. E verranno in corpo ed anima al giudizio, in presenza del volto di Dio, nella Valle di Giosafat. E sarà nel giorno di Pasqua, il giorno della Resurrezione di nostro Signore". Lo spagnolo Oliver (1464) vede dall'Oliveto "la strada per il Monte Tabor che è il luogo dove fu creato Adamo e dove c'è il sepolcro di Abramo e di Sara" . Von Harff, alla fine del XV sec., riprende: "I Cristiani siriani, giacobiti, georgiani, abissini e altri che abitano nella regione, ritengono che Adamo, il primo uomo, abbia infranto il comando di Dio su questo Monte Tabor e che alla fine dei tempi quattro angeli annunceranno il giorno del giudizio da questo monte".

    Il primo pellegrino che dica qualcosa di solido circa le rovine è Niccolò da Poggibonsi nel 1345. Le fonti contemporanee alle costruzioni, che ci sono pervenute, non descrivono le strutture o le decorazioni e i recenti rapporti archeologici riguardano soltanto fondamenta e pavimenti. Le cronache che parlano degli edifici hanno una importanza speciale in quanto ci fanno partecipare alla realtà e alle peripezie del passato.

    Leggiamo Poggibonsi: "Il detto monte si è molto alto e grande, e quasi tondo; e in cima Si v'è un piano, chè ivi fu una Terra, ma ora è guasta; e al mezzo si à una chiesa, e, nel mezzo della chiesa detta, si fu una tomba [volta tonda] sopra ogni edifizio elevata. Et ivi, il nostro Signore Giesù Cristo, volendo mostrare la gloria sua a gli Apostoli, ivi dov'è la tomba, sì si trasfigurò, e apparve subito Moisè e Elia, e parlavano con lui; e la voce fu udita da celo, e così si è scritto, di lettere d'oro, su nella detta tomba, e dicono così: hic est filius me= dilectus,, in quo mihi bene complacui, ipsum audite. Et in terra si sono le forme, come sbigotito santo Pietro, e santo Giovanni, e santo Iacobo caddono in terra, per lo grande splendore; e dove santo Pietro cadde, sì v'è scritto così: Domine, bonum est nobis hic esse, etc. 'La chiesa si è quasi guasta, se non se la tomba". Restava quindi la cripta, con pitture e iscrizioni musive su una parete e sul pavimento, mentre la parte superiore dell'edificio era diroccata.

    Gli avanzi delle costruzioni sopravvissero ancora per circa un secolo e mezzo. Nel 1485 Suriano aggiunge qualche particolare architettonico: "Su Zebel Tubar [ ... ] fo facta una chiesa cum tre tribune, a modo de tre tabernacoli apizati insiema. E dove Christo se transfigurò fo facta una scala de marmaro fino, de octo gradili, larga braza quatro, et in cima della predicta scala è una pietra posta a modo de uno altare".

    A Suriano capitò quello che già tanti pellegrini avevano sperimentato qui e altrove: "E, finito le misse, fomo assaltati da ladri che erano nascosti in quelle charabe, per haver veduto el calice et una pianeta nova de damaschino chremisino. Tamen non ce fecero dispiacere, per esser nui ben accompagnati ma mangiamo insieme pane et sale".

    Passano altri 60‑70 anni senza notizie degno di nota e quindi Bonifacio da Ragusa (1552) scrive: "Sulla sommità del monte [ ... ] c'e una chiesa con tre cappelle. Nel luogo dove il Cristo fu veduto nella gloria c'è la cappella maggiore, a destra c'è la cappella dedicata a Mosè ed a sinistra quella dedicata ad Elia [ ... ] Nella cappella maggiore, per grazia di Dio, si conserva l'immagine del Salvatore trasfigurato [ ... ] che è elegantissima. Mosè, latore della legge, è dipinto sulla parete destra ed Elia sulla sinistra".

    Zuallart ci spiega la ragione per cui le intemperie non avevano completato l'opera di Baibars: "No ci resta piu altro, che le dette tre capelle, le quali gl'Infideli occupano, & come Moschee mantengano di tetto, per preseruarli, che non si guastino dalle pioggie, & ingiuria del tempo". Ma mentre il tetto conservava i muri gl'Infedeli avevano raschiato le "antichissime pitture" della cappella centrale e Zuallart non ne vide che i resti. Zuallart scriveva nel 1586; Castela, che visitò il Tabor sedici anni dopo, conferma la trasformazione delle tre cappelle in moschee ; Levaillant notò ancora i lembi delle decorazioni nel 1613 4.

    Il viaggiatore romano Della Valle nel 1616 trovò: "reliquie molto riguardeuoli di vna gran Chiesa, e di vn Monasterio, per quanto posso immaginarmi, che era fabricato nel luogo, doue Nostro, Signore si trasfigurò", e fu sorpreso dalle biade coltivate sulla cima del monte. "Ma vidi poi, che il monte là sopra era abitato; e che fra quelle rovine di fabriche antiche, viueuano, non sò come sequestrate dal commercio del Mondo, alcune poche e miserrime famigliuole, delle quali, doueua essere il seminato, che certo n'ebbi compassione a vederle in tal luogo; particolarmente certe donnicciole meze nude, e certe figliuoletti di quattro ò cinque anni, che vidi andar correndo frà quegli alberi, a punto come gatti seluatichi". Della Valle è l'unico cronista che, a quanto ci consti, parli di un insediamento permanente sul monte.
    __________

    note

    [1] Guilielmus de Boldensel, cf ELS--518.

    [2] Guillem Oliver, Romiatge de la casa sancta de Jherusalem, fet per mestre G.O., cuitad'a de Barcelona (1464), Barcelona 1900).

    [3] H. Castela, Le sainct voyage de Hierusalem et Mont Sinay, faict en l'an du grand Iubil'e,1600, Bordeaux 1603.

    [4] Levaillant, Le pèlerin véritable, Paris 1613, 407.

    FONTE

  10. #30
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    I FRANCESCANI

    Nel 1632 Roger tracciò una pianta degli edifici sacri esistenti , la prima che ci sia pervenuta. Roger conosceva molto bene Fakhr ed‑Din "perché mi ha onorato della sua confidenza per tutto il tempo che sono rimasto in Terra Santa". Fakhr ed‑Din era amico non soltanto di Roger ma dei Cristiani in generale.

    DAL 1631 AL 1854

    Roger corredò il suo schizzo con una breve descrizione: "Tre piccoli oratori o cappelle con copertura a volta, l'uno contiguo all'altro, due dei quali sono lunghi nove piedi e larghi tre o quattro. Quello centrale che è il posto dove Gesù si trasfigurò, non è lungo che sette passi. Questi tabernacoli o cappelle si trovano sul punto più alto del monte, sul lato. verso mezzogiorno".

    Le Croniche di p. Verniero, redatte nel 1634, riferiscono le intenzioni dei Francescani divenuti padroni del Tabor : Essi pensavano di introdurre "ad habitarlo e coltivarlo i nostri torcimanni cattolici di Betthalem" [Betlemme] e intendevano erigere "un hospitio per commodità de nostri pellegrini". Tuttavia, "perché sì dubitava degli Arabi, non vi si fabricò chiesa né hospitio".

    In effetti i Musulmani erano molesti. Surius, nel 1644, riferisce con meticolosità: 'Ti costò molta fatica il vedere questi tre tabernacoli, che esistono ancora per provvidenza divina, perché i Mori hanno ostruito e bloccato l'ingresso per impedire la devozione dei pellegrini. Ciò nonostante togliemmo la terra per quel tanto che bastava ad entrare, strisciammo attraverso una porticina a settentrione e arrivammo in un corridoio lungo dodici passi e largo quattro, dove accendemmo il fuoco con un acciarino e, ciascuno tenendo una candela, passammo per una porta a mezzogiorno nei tre tabernacoli, in una grande cappella a volta che un tempo era stata ben dipinta. Quello verso levante e largo sette piedi e tre pollici, quello verso mezzodì è largo cinque piedi, e il terzo verso ponente è largo sei piedi e mezzo. Quello centrale è edificato nel posto dove nostro Signore si trasfigurò". Crediamo che Surius sia stato l'ultimo pellegrino a notare le decorazioni della cripta crociata.

    Ricoldo di Monte Croce avrebbe pianto di nuovo nel vedere, come vide Doubdan nel 1652, "quasi tutto sepolto nella terra e pieno di immondizie". Anche Doubdan fece uno schizzo e una descrizione del santuario: "Si entra in un piccolo vano composto da quattro nicchie in croce, ciascuna larga circa quattro piedi [ ... ] Tutto il luogo e attualmente interrato e tanto oscuro che si de ve necessariamente portare un lume". Ne lo schizzo né la descrizione concordano con le precedenti notizie: i tre tabernacoli "apizati insiema" sono diventati un vano cruciforme. L'ingresso del vero santuario, ostruito, era stato perso di vista probabilmente a causa della vegetazione che lo mimetizzava e i pellegrini inconsapevoli, trovato un altro andito, lo seguivano ed arrivavano in uno degli ambienti della fortezza saracena, dove mani pie avevano sistemato degli altari. Tale luogo fu la meta delle visite fino al 1876.

    Besson seppe vedere qualcosa di significativo anche nella cappella di fortuna: "Ebbi il bene di dire la Messa sull'altare di S. Elia, il quale ancora vive dopo tanti secoli, e fu santificato prima di morire, il cui tabernacolo è a sinistra entrando e a destra c'è quello di Mosè e nel centro quello di Gesù, come il centro al quale convergono tutte le linee e il compimento di tutte le leggi".

    Di anno in anno anche l'ambiente saraceno si deteriorò sempre più. In Nau (1668) leggiamo: "Oggi resta soltanto una cappella interrata dove si entra per tre porte che non si chiudono [ ... ] non è lunga più di nove o dieci piedi e larga sette o otto.

    Sono state fatte tre nicchie dove si crede che stessero nostro Signore, Mosè ed Elia [ ... ] Secondo la disposizione dei tabernacoli nostro Signore aveva il viso rivolto a nord, Mosè stava alla sua destra ed Elia alla sua sinistra".

    Laffi (1679) e Le Bruyn (1681) definirono la cappella "una grotta". Le Bruyn, mentre quelli che erano con lui celebravano la Messa, sostò davanti alla porta e disegnò le rovine viste dall'esterno.

    Le testimonianze proseguono tristi e deprimenti. Nel 1710 Cozza vide che i Francescani, per le celebrazioni, usavano altari portatili. Pococke (1737) aggiunse alla descrizione della grotta una notizia interessante: "Dall'altro lato, un convento dell'ordine di S. Basilio, dove i Greci hanno un altare e compiono il loro servizio divino per la festa della Trasfigurazione". Si trattava dell'antico monastero abbandonato dai Greci nel 1187 che, come dirà Mariti nel 1760, continuava ad esser chiamato di S. Elia.

    I Francescani erano diventati padroni del Tabor 136 anni prima e avevano tentato varie volte di far valere i propri diritti. Poco dopo la concessione, p. Diego di S. Severino incaricò p. Giacomo da Vandom. guardiano di Nazaret, di costruire una chiesa sul monte ma i Musulmani dei dintorni ostacolarono il progetto. Quattro anni dopo la morte di Fakhr ed‑Din, i Francescani chiesero al Sultano il permesso di risiedere sul Tabor e lo ottennero nel 1641 per mezzo dell'Ambasciatore di Francia e del Bàilo di Venezia. Nel 1656 essi ricevettero l'autorizzazione di costruire in tutte le loro proprietà della Terra Santa. Essendo stato riferito al sultano (1667) che i Religiosi non potevano usufruire sul Tabor di tale privilegio, il sultano ordinò al pascià di Safed di punire chi li ostacolava. Sei anni dopo, p. Claudio da Laude Pompeia Custode di Terra Santa, tramite p. G. B. da Lagomarsino commissario a Costantinopoli, chiese l'autorizzazione di mandare due o tre religiosi a vivere sul monte. La domanda cadde nel nulla. Nel 1763, il Custode di Terra Santa p. Paolo da Piacenza vedendo che era impossibile realizzare il sogno di una nuova costruzione, decise di riparare almeno quanto esisteva.

    I restauri, curati da p. Giovanni Lorenzo guardiano di Nazaret. furono di modesta entità. Giuseppe Antonio da Milano, in pellegrinaggio nel 1771, lasciò scritto: "Nella parte sua [del Tabor] superiore, poco discosto dal lato suo occidentale e quasi nel mezzo. sorge fra grandi rovine una cappella, lunga cinque passi e larga due, la cui fronte guarda a mezzogiorno; ha un misero altare [ ... ] ha inoltre da una parte un piccolo adito quadrato con tre nicchie, e queste ricordano le parole di Pietro al suo Maestro divino: Faremo tre tende". A questa cappella, alla quale Lamartine non dedicò neanche una parola, alcuni preferivano lo stupendo ambiente naturale, come De Géranib, il quale si confessò ai piedi di un albero ed ebbe la fortuna di ricevere la Comunione durante la Messa che fu detta sotto la volta del cielo.

    Mentre l'ostilità dimostrata ai Frati dai Musulmani perdeva di mordente ed i Frati esercitavano almeno il diritto alla proprietà con i pellegrinaggi e le celebrazioni, si presentavano altre difficoltà. I Greci ortodossi occuparono a poco la parte nord della cima, che venne infine tagliata in due da un muro; il Patriarcato Latino di Gerusalemme non dimostrava grande comprensione e negava l'autorizzazione di costruire. Nel primo caso i Francescani, per amore del quieto vivere, sopportarono; nel secondo, si rivolsero a Roma e la Congregazione di Propaganda decise, a suo tempo, in loro favore.

    FONTE

 

 
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